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Il Caso.it, Sez. Giurisprudenza, 25678 - pubb. 16/07/2021

Risarcimento dei danni da illecito trattamento dei dati personali: a carico del danneggiato la prova del danno e del nesso di causalità

Cassazione civile, sez. I, 26 Maggio 2021, n. 14618. Pres. Genovese. Est. Tricomi.


Trattamento illecito dei dati personali – Danni conseguenti – Risarcimento – Art. 15 d.lgs. n. 196 del 2003 – Prova – Riparto tra danneggiato e danneggiante – Fattispecie



In tema di risarcimento dei danni da illecito trattamento dei dati personali, l'art. 15 d.lgs. n. 196 del 2003 (vigente "ratione temporis"), nel richiamare il disposto dell'art. 2050 c.c., pone a carico del danneggiato la prova del danno e del nesso di causalità, lasciando al danneggiante la dimostrazione di avere adottato tutte le misure idonee ad evitare quel danno. (Nella specie, la S.C. ha confermato la decisione di merito, che aveva rigettato la domanda risarcitoria, fondata sulla dedotta pubblicazione sull'albo pretorio "on line" di una delibera comunale contenente informazioni sullo stato di salute di un cittadino, in mancanza della prova della pubblicazione della menzionata delibera nella sua versione integrale). (massima ufficiale)


 


Fatto

P.F., nella qualità di amministratrice di sostegno di A.B., aveva chiesto al Tribunale di Cosenza la condanna del Comune di Z. al risarcimento dei danni subiti dall'amministrata a causa della pubblicazione sull'albo pretorio on-line del Comune di Z. della (*) con la quale era stata accolta la richiesta di ricovero della stessa presso un centro socio-riabilitativo diurno per disabili, contenente informazioni sul suo stato di salute. Il Comune aveva resistito.

Il Tribunale ha respinto la domanda, affermando che la ricorrente non aveva fornito la prova della denunciata pubblicazione della delibera in versione integrale all'albo pretorio del Comune e che tale circostanza risultava ammessa dall'ente convenuto.

In particolare, il Tribunale ha ritenuto - sulla scorta del ravvisato mancato assolvimento dell'onere della prova da parte della ricorrente, in merito alla condotta denunciata come illecita ed al nesso eziologico tra il fatto e l'evento dannoso - che non poteva darsi luogo all'applicazione della presunzione iuris tantum riguardante l'elemento psicologico della colpa che comportava l'inversione dell'onere della prova a carico dell'autore dell'illecito, tenuto a dimostrare di aver adottato misure idonee ad evitarlo ai sensi del combinato disposto di cui al D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 15 e art. 2050 c.c.

P. propone ricorso con mezzi tre mezzi; il Comune di Z. ha replicato con controricorso.

 

Motivi

1.1. In via preliminare è opportuno precisare che, poichè si discute di trattamento di dati personali avvenuto nell'(*), si applica il codice della privacy (D.Lgs. 30 giugno 2003, n. 196) nella stesura anteriore alle modifiche introdotte con il D.Lgs. 10 agosto 2018, n. 101 di adeguamento dell'ordinamento nazionale al regolamento (UE) 2016/679 del Parlamento Europeo e del Consiglio, del 27 aprile 2016, entrato in vigore il 25 maggio 2018 (art. 99, comma 2 Regolamento).

1.2. Va quindi affermata la ammissibilità del ricorso per cassazione. In proposito va ribadito che nel giudizio avente ad oggetto tanto la lesione del diritto alla protezione dei dati personali, cui si applica la disciplina processuale speciale di cui al D.Lgs. n. 150 del 2011, art. 10 - che non prevede la ricorribilità in appello -, quanto la domanda di risarcimento del danno per la lesione dei diritti alla riservatezza ed all'immagine, cui si applica il rito ordinario, al fine di identificare il mezzo di impugnazione esperibile, in ossequio al principio dell'apparenza, deve farsi riferimento esclusivo a quanto previsto dalla legge per le decisioni emesse secondo il rito in concreto adottato in relazione alla qualificazione dell'azione effettuata dal giudice (Cass. n. 29336 del 22/12/2020); pertanto, qualora il Tribunale - come nel caso in esame - abbia ritenuto di giudicare unitariamente sulle domande, applicando il rito speciale mutuato dal diritto del lavoro, in quanto i danni risarcibili erano stati prospettati come conseguenza dell'illecita diffusione dei dati personali, risulta rettamente proposto il ricorso per cassazione avverso la sentenza in unico grado.

2.1. Con il primo motivo si denuncia la violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 15, comma 1, e degli artt. 2050 e 2697 c.c. sotto il profilo della falsa applicazione del principio di presunzione iuris tantum, in quanto risultando provato il comportamento illecito del Comune di Z. era onere di questo, in osservanza del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 15 che richiama l'art. 2050 c.c., provare di avere adottato tutte le misure idonee ad evitare il danno.

A parere della ricorrente la decisione impugnata è erronea perchè era il Comune a dover provare che la delibera caricata sull'albo pretorio era stata opportunamente anonimizzata, dimostrando di avere adottato tutte le misure necessarie.

2.2 Il motivo è inammissibile perchè non coglie la ratio decidendi, fondata sulla mancata prova a cura della ricorrente del fatto dannoso, e perchè sollecita impropriamente la rivalutazione del merito.

2.3. Risulta decisivo osservare che l'illegittimo trattamento di dati sensibili D.Lgs. n. 196 del 2003, ex art. 4 configurabile come illecito ai sensi dell'art. 2043 c.c., non determina un'automatica risarcibilità del danno poichè il pregiudizio (morale e/o patrimoniale) deve essere provato dal danneggiato secondo le regole ordinarie, quale ne sia l'entità e la difficoltà di assolvere l'onere probatorio, trattandosi di un danno-conseguenza e non di un danno-evento, senza che rilevi in senso contrario il suo eventuale inquadramento quale pregiudizio non patrimoniale da lesione di diritti costituzionalmente garantiti (Cass. n. 15240 del 03/07/2014). Tuttavia, poichè i danni cagionati per effetto del trattamento dei dati personali, in base al D.Lgs. 30 giugno 2003, n. 196, art. 15 sono assoggettati alla disciplina di cui all'art. 2050 c.c., il danneggiato è tenuto solo a provare il danno e il nesso di causalità con l'attività di trattamento dei dati, mentre incombe al danneggiante la prova di aver adottato tutte le misure idonee ad evitare il danno stesso (Cass. n. 10646 del 26/06/2012; Cass. n. 18812 del 05/09/2014).

2.4. La ricorrente opera una non condivisibile sovrapposizione tra i rispettivi oneri probatori e confonde l'onere della prova del danno e del nesso di causalità, che gravava su di lei, con l'onere di provare la condotta scriminante ex art. 2050 c.c., che gravava sull'autore del fatto illecito, senza cogliere la ratio decidendi focalizzata proprio sulla mancata prova dell'assunto costituito dalla avvenuta pubblicazione on cine della delibera in versione integrale, posto che dalle deposizioni dei testi ( F. e M., oltre che C., padre della amministrata) non era emerso che gli stessi avessero visionato il testo integrale della delibera on line.

2.5. Infine, la censura sostanzialmente sollecita una inammissibile rivalutazione dei fatti, pur non formulando un vizio motivazionale.

Come più volte chiarito dalla S.C., il vizio di violazione di legge consiste nella deduzione di una erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di legge e, quindi, implica necessariamente un problema interpretativo della stessa; viceversa, l'allegazione - come prospettato nella specie da parte del ricorrente - di una erronea ricognizione della fattispecie concreta, a mezzo delle risultanze di causa, è esterna all'esatta interpretazione delle norme di legge e impinge nella tipica valutazione del giudice del merito, la cui censura è possibile, in sede di legittimità, sotto l'aspetto del vizio di motivazione, tutte le volte in cui (a differenza che per la prima ipotesi) sia contestata la valutazione delle risultanze di causa. Da una parte, dunque, si pone la violazione di legge in senso proprio a causa della erronea ricognizione della astratta fattispecie normativa; dall'altra, l'erronea applicazione della legge in ragione della carente o contraddittoria ricostruzione della fattispecie concreta (Cass., sez. lav., 16 luglio 2010, n. 16698; sez. lav., 26 marzo 2010, n. 7394; sez. 3, 4 marzo 2010, n. 5207).

Nel caso di specie la ricorrente lamenta la valutazione compiuta nella sentenza impugnata con riguardo alla circostanza di fatto dell'avvenuta pubblicazione on line della delibera, posta come presupposto del diritto al risarcimento del danno: il che appunto integra censura alla valutazione operata dal giudice del merito, deducibile solo ai sensi dell'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.

2.1. Con il secondo motivo si denuncia la nullità della sentenza per violazione e falsa applicazione dell'addii Cost. e dell'art. 420 c.p.c., comma 5, per avere il Tribunale di Cosenza erroneamente ritenuto inammissibile la richiesta di prova testimoniale, avente ad oggetto la possibilità di accedere alla copia integrale della delibera cliccando il link della pagina on line dell'Albo pretorio, perchè formulata dalla parte ricorrente tardivamente all'udienza di prima comparizione, atteso che l'esigenza di tale prova - secondo la prospettazione della ricorrente - era sorta solo dopo che il Comune, nel difendersi con l'atto di costituzione, aveva dichiarato che la pubblicazione della delibera all'albo era avvenuta in forma protetta.

2.2. Il motivo è inammissibile.

La ricorrente, per sostenere l'ammissibilità della deduzione istruttoria formulata all'udienza di comparizione, sembra assumere che il Comune, prima dell'atto di costituzione, con la sua lettera del 13/11/2013 a riscontro della diffida del 29/10/2013, avesse negato che i dati in questione fossero dati sensibili, così implicitamente ammettendo di avere pubblicato l'integrale delibera, per poi mutare linea difensiva con l'atto di costituzione, circostanza questa che avrebbe reso necessaria la nuova richiesta istruttoria.

Tuttavia, l'esplicitazione delle circostanze che avrebbero dovuto consentire - a parere della ricorrente - l'ingresso tardivo di ulteriori deduzioni istruttorie è insufficiente e ciò si riverbera sull'ammissibilità del motivo. L'interpretazione che la ricorrente fornisce in merito alla missiva comunale del 13/11/2013 è del tutto soggettiva e la mancata trascrizione del testo non consente alla Corte alcun apprezzamento in merito; peraltro, dalla trascrizione del verbale (fol. 17 del ric.) non emerge che la richiesta istruttoria sia stata sottoposta al giudice del merito nei medesimi termini e per le ragioni oggi dedotte, che si palesano anche come nuove.

3.1. Con il terzo motivo si denuncia la illogicità della motivazione per erronea valutazione delle prove testimoniali acquisite al processo, nella parte in cui il Tribunale ha statuito che dalle risultanze della prova testimoniale sarebbe risultato indimostrata la condotta illecita denunciata a fondamento della pretesa risarcitoria e cioè la pubblicazione integrale - comprensiva dei dati identificativi della amministrata - della delibera.

3.2. Il motivo è inammissibile.

Come già chiarito da questa Corte "La riformulazione dell'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, disposta dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54 conv. in L. 7 agosto 2012, n. 134, deve essere interpretata, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall'art. 12 preleggi, come riduzione al "minimo costituzionale" del sindacato di legittimità sulla motivazione. Pertanto, è denunciabile in cassazione solo l'anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all'esistenza della motivazione in sè, purchè il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali. Tale anomalia si esaurisce nella "mancanza assoluta di motivi sotto l'aspetto materiale e grafico", nella "motivazione apparente", nel "contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili" e nella "motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile", esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di "sufficienza" della motivazione." (Cass. Sez. U. n. 8053 del 07/04/2014) ed inoltre "L'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, nell'attuale testo modificato dal D.Lgs. n. 40 del 2006, art. 2 riguarda un vizio specifico denunciabile per cassazione relativo all'omesso esame di un fatto controverso e decisivo per il giudizio, da intendersi riferito a un preciso accadimento o una precisa circostanza in senso storico -naturalistico, come tale non ricomprendente questioni o argomentazioni, sicchè sono inammissibili le censure che, irritualmente, estendano il paradigma normativo a quest'ultimo profilo." (Cass. n. 22397 del 06/09/2019).

Nel caso di specie la censura non corrisponde al modello legale del vizio denunciato e si risolve nella sollecitazione di un diverso apprezzamento del materiale istruttorio, conforme a quanto auspicato dalla ricorrente.

4. In conclusione, il ricorso va dichiarato inammissibile.

Le spese seguono la soccombenza nella misura liquidata in dispositivo.

Va disposto che in caso di diffusione della presente ordinanza siano omesse le generalità delle parti e dei soggetti in essa menzionati, a norma del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 52.

Va dato atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, in misura pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis (Cass. Sez. U. n. 23535 del 20/9/2019).

 

P.Q.M.

- Dichiara inammissibile il ricorso;

- Condanna la ricorrente alla rifusione delle spese processuali, che liquida in Euro 3.000,00=, oltre Euro 200,00 per esborsi, spese generali liquidate forfettariamente nella misura del 15% ed accessori di legge;

- Dispone che in caso di diffusione della presente ordinanza siano omesse le generalità delle parti e dei soggetti in essa menzionati, a norma del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 52;

- Dà atto, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, il 24 marzo 2021.

Depositato in Cancelleria il 26 maggio 2021.