Diritto Tributario


Il Caso.it, Sez. Giurisprudenza, 21515 - pubb. 10/04/2019

Processo tributario: conseguenze della violazione del termine per la costituzione del resistente

Commissione tributaria regionale Bologna, 02 Aprile 2019. Est. Morlini.


Processo tributario – Costituzione tardiva convenuto – Decadenza da facoltà di proposizione eccezioni non rilevabili d’ufficio e da chiamata terzi – Persistente possibilità di negazione fatti costitutivi dell’avversa pretesa, di contestazione dell’applicabilità delle norme invocate e di produzione documenti – Esclusione della sanzione di inammissibilità per tardiva costituzione



Nel processo tributario, la violazione del termine previsto dall’art. 23 del d.lgs. n. 546 del 1992 per la costituzione in giudizio della parte resistente, temine che si applica anche alla costituzione in appello in virtù del rinvio di cui all’articolo 54, comporta esclusivamente la decadenza dalla facoltà di proporre eccezioni processuali e di merito che non siano rilevabili d’ufficio e di fare istanza per la chiamata di terzi, sicché permane il diritto dello stesso resistente di negare i fatti costitutivi dell’avversa pretesa, di contestare l’applicabilità delle norme di diritto invocate e di produrre documenti ai sensi degli artt. 24 e 32 del detto decreto, dovendosi escludere qualunque sanzione di inammissibilità della costituzione per il solo fatto della sua tardività. (Redazione IL CASO.it) (riproduzione riservata)


 


RG. 1794/2016

Fatto

La presente controversia trae origine da un avviso di accertamento con cui l’Agenzia delle Entrate di Modena ha recuperato a tassazione, con riferimento all’anno di imposta 2007, costi sostenuti dal contribuente Maglieria P. s.r.l. in liquidazione ed ora in concordato preventivo (di seguito, per brevità, P.), indicati in fatture emesse da Maglieria Ap. s.r.l. e ritenute dall’Ufficio relative ad attività oggettivamente inesistenti.

La quantificazione di tali operazioni ritenute oggettivamente inesistenti, inizialmente individuata dall’Agenzia in € 925.047,53 e riferita all’intera fatturazione di Ap. verso P., è stata dall’Agenzia stessa ridotta durante il giudizio di primo grado alla minor somma di € 418.978, ritenendo vera e reale l’attività relativa alla produzione dei capi di abbigliamento contrassegnati con il marchio Z.X.; ritenendo che fossero riferite alla produzione di tale marchio fatture per l’importo di € 506.070,16; ritenendo invece che la rimanente parte delle fatture, per € 418.978, fosse relativa ad operazioni fittizie.

La CTP di Modena, preso atto della riduzione della pretesa dell’Ufficio, ha comunque accolto il ricorso del contribuente ed annullato integralmente la cartella, statuendo che tutta l’attività fatturata da Ap. a P. era riferita alla produzione del marchio Z.X..

Avverso la sentenza di primo grado ha interposto appello l’Agenzia, ribadendo le proprie argomentazioni in ordine alla dedotta oggettiva inesistenza delle operazioni fatturate per € 418.978, in quanto non chiaramente ricollegate alla produzione di merce con il marchio Z.X..

Ha resistito la contribuente, costituendosi pochi giorni prima della celebrazione dell’udienza, sul presupposto della correttezza della sentenza impugnata.

La causa è stata discussa in pubblica udienza, così come richiesto dall’appellante.

 

Diritto

a) Ai sensi del combinato disposto dagli articoli 54 e 23 D.Lgs. n. 546/1992, il convenuto in appello deve costituirsi entro 60 giorni dal giorno in cui ricorso è stato notificato.

Nel caso che qui occupa, è pacifico che il contribuente si è costituito ben oltre tale termine.

Tuttavia, secondo la giurisprudenza di legittimità, dalla quale non vi è motivo di discostarsi, “nel processo tributario, la violazione del termine previsto dall’art. 23 del d.lgs. n. 546 del 1992 per la costituzione in giudizio della parte resistente comporta esclusivamente la decadenza dalla facoltà di proporre eccezioni processuali e di merito che non siano rilevabili d’ufficio e di fare istanza per la chiamata di terzi, sicché permane il diritto dello stesso resistente di negare i fatti costitutivi dell'avversa pretesa, di contestare l’applicabilità delle norme di diritto invocate e di produrre documenti ai sensi degli artt. 24 e 32 del detto decreto” (in questi esatti termini, cfr. da ultimo la massima ufficiale della recentissima Cass. n. 2585/2019; per le medesime conclusioni, si vedano anche Cass. n. 6734/2015 e Cass. n. 18962/2005).

Ne deriva che, non avendo parte convenuta proposto eccezioni non rilevabili d’ufficio, né formulato istanza per la chiamata di terzi, nessun profilo di invalidità è postulabile, dovendosi escludere qualunque sanzione di inammissibilità per il solo fatto della tardiva costituzione.

b) Venendo al merito, è pacifico in causa che P. era proprietaria del marchio di abbigliamento Z.X.; e che, essendo priva di struttura e mezzi adeguati, si è avvalsa dei servizi prestati da Ap. sia per la produzione dei capi di abbigliamento, sia anche per servizi commerciali, con il meccanismo noto nel settore come global service: in sostanza, Ap., dopo avere registrato le fatture di acquisto ad essa intestate relative ai costi sostenuti nell’interesse di P. per il marchio Z.X., riaddebitava a P. stessa tutti tali costi, oltre ad un compenso pari al 10% del fatturato.

Ciò posto, l’Ufficio non disconosce l’attività di Ap. a favore di P. in relazione al marchio Z.X. per produzione e servizi; ma sostiene che solo una parte delle somme fatturate da Ap. a P. (ed in particolare € 506.070,16, pari a poco meno del 55% del totale) sia realmente riconducibile a tale attività, mentre la rimanente parte (€ 418.978, pari a poco più del 45% del totale) non lo sia e si riferisca invece ad operazioni oggettivamente inesistenti.

In realtà, già da un primo punto di vista non è nemmeno chiaro come l’Ufficio arrivi a ritenere esistente una parte delle operazioni e non esistente una rimanente parte, atteso che neppure emerge quali fatture, tra le cinque emesse ed oggetto di contestazione (la numero 383 per € 286.000, la numero 411 per € 215.000, la numero 1140 per € 135.000, la numero 1260 per € 35.000, la numero 1346 per € 54.047,53), ovvero quali parti di tali fatture, vengono ritenute reali e quali invece no.

Anzi, è piuttosto la parte contribuente che, con la corposa documentazione depositata in primo grado, ha direttamente ricondotto al marchio Z.X. il 90% delle spese fatturate (producendo anche le fatture che la Ap. ha a sua volta ricevuto da terzi fornitori per servizi poi resi da Ap. a P.), spiegando che per i restanti costi non è stato possibile individuare nelle fatture dei fornitori il riferimento al marchio, trattandosi di spese sostenute per acquistare materiali (filati, tessuti e accessori), in fasi del processo di produzione precedente il confezionamento dei capi.

E d’altronde, significativamente l’Ufficio, con riferimento ai circa 300 documenti prodotti dall’attuale appellata in primo grado, sembra limitarsi a contestare la valenza probatoria di due, cioè gli allegati 14 e 27 (cfr. pag. 5 appello).

Quanto poi alle cinque contestazioni mosse dall’Ufficio per ritenere presuntivamente provata la fatturazione oggettivamente inesistente (id est coincidenza dello stesso soggetto economico nella società emittente ed in quella ricevente, mancanza di contratto scritto tra le parti, descrizione generica in fattura dell’attività svolta, mancato riscontro tra capi acquistati, articoli venduti e rimanenze contabilizzate, finalità di creare in capo a P. un fittizio credito IVA), è facile osservare che trattasi di contestazioni inconducenti, in quanto astrattamente riferite, così come inizialmente sostenuto dall’Ufficio, all’intera attività fatturata; ma certamente inidonee a consentire di distinguere, così come ora sostenuto dall’Ufficio, tra fatture o parti di fatture (come detto neppure analiticamente indicate) relative ad attività esistenti e relative ad attività oggettivamente inesistenti.

In ogni caso e comunque, nessuna delle cinque argomentazioni appare realmente persuasiva. Infatti:

1.      Con rifermento al fatto che vi sarebbe coincidenza dello stesso soggetto economico nella società emittente ed in quella ricevente le fatture, va innanzitutto ribadito che, se la contestazione fosse fondata, essa dovrebbe inficiare l’intera fatturazione effettuata da Ap. verso P., e non già il solo 45% di tale fatturazione.

In realtà, la contestazione non è comunque fondata, innanzitutto perché la coincidenza del soggetto economico tra società emittente e ricevente la fattura, non è di per sé idonea a provare l’inesistenza della prestazione, ma rappresenta solo una situazione di fatto che suggerisce particolare attenzione nella valutazione della prestazione, pur se in presenza di un documentato pagamento.

In ogni caso, e l’argomento è dirimente, nella fattispecie che qui occupa non vi è alcuna totale coincidenza tra soggetti economici, atteso che le signore Paola e Chiara Dotti sono socie al 50% ciascuna di P., mentre sono mere socie di minoranza per il 22,8% in Ap., società nella quale socio di maggioranza è con il 58,3% Anna Cavazzoni, con un quarto socio che detiene il 18,9%.

Non si comprende quindi per quale motivo, secondo la prospettiva dell’Ufficio, le signore Paola e Chiara Dotti avrebbero dovuto trasferire somme di denaro da una società in cui possedevano il 100% delle quote, ad una società in cui ne possedevano solo il 22,8%, con correlativa perdita di capitale.

Né può spiegarsi la circostanza con il fatto che ciò avrebbe arricchito alcuni parenti, atteso che non vi è motivo per ritenere come diverse persone, pur discendenti da un medesimo stipite, configurino l’esistenza di un unitario soggetto economico, e non abbiano invece interessi contrapposti, tanto più quando, per effetto di matrimoni, le famiglie si ampliano e si diversificano, ciò che giustifica il sorgere di interessi contrapposti.

2.     Con riferimento alla mancanza di un contratto scritto, va innanzitutto premesso che il contratto per cui è causa, cd. di global service, non prevede forma scritta né ad substantiam, né ad probationem.

Ciò posto, non risulta comprensibile come l’Ufficio possa ritenere dirimente la mancanza di forma scritta del contratto solo con riferimento al 45% delle operazioni fatturate, ritenendo invece esistente, pur se non assistite da contratto scritto, il rimanente 55% delle spese fatturate, laddove tutte spese sono comprovate dalle medesima documentazione.

Piuttosto, la mancanza di forma scritta del contratto è, più banalmente, spiegabile con la fiducia reciproca tra le parti, agevolata anche dai rapporti di parentela.

3.     Con riferimento al presunto mancato riscontro tra capi acquistati, articoli venduti e rimanenze contabilizzate, la difesa di parte appellata ha lungamente e dettagliatamente spiegato l’equivoco nel quale è incorso l’Ufficio, posto che nelle fatture emesse da Ap. nei confronti di P., l’emittente ha anche riaddebitato anche i costi sostenuti per consulenze stilistiche, spese di pubblicità e provvigioni, inglobandoli nell’unica dizione di prezzo medio del capo; e di ciò si ha conferma dal fatto che, pur essendo i servizi commerciali diversi dalla produzione stati effettivamente svolti da Ap., non esistono fatture che contengono espressamente la descrizione di tali servizi.

Pertanto, la quantità di capi conteggiata dall’Agenzia è viziata per eccesso, così come sin dal primo grado dimostrato dalle tabelle esplicative predisposte dal contribuente (cfr. pag. 11 e 12 ricorso davanti alla CTP); e parimenti congruo è il dato del ricarico dichiarato dalla parte, che vede un margine effettivo di bilancio del 70% assolutamente compatibile con il ricarico dichiarato del 100% sul prezzo di vendita rispetto al costo industriale (cfr. pag. 12 e ss. ricorso davanti alla CTP, nonché allegati 2 e 4).

4.     Con riferimento alla descrizione generica delle fatture contestate, si rileva nuovamente la non comprensibilità di una contestazione che, se fondata, dovrebbe travolgere l’intera fatturazione, non già il solo 45% della stessa.

In ogni caso, pur dovendosi dare atto che la descrizione è indubbiamente semplificata, va evidenziato che essa comunque contiene il prezzo medio dei capi ed è integrata dalla più che corposa documentazione prodotta in primo grado per comprovare l’esistenza della prestazione.

Quanto alla mancata distinzione tra costo di acquisto dei capi e costo dei servizi, così come indicato al capo precedente, non vi è dubbio che trattasi di una imprecisione, ma non tale da impedire la valutazione della effettiva esistenza delle operazioni sottostanti.

5.     Con riferimento al fatto che le fatture sarebbero state emesse da Ap., in un’ottica di gruppo, per creare in capo a P. un credito Iva e un costo deducibile, anche in questo caso deve evidenziarsi che, così opinando, dovrebbe essere revocata in dubbio l’intera fatturazione, non già una sua parte.

In ogni caso, si osserva che entrambe le società hanno dichiarato consistenti perdite, e quindi la creazione di costi fittizi, per l’entità contestata, sarebbe comunque irrilevante, atteso che la perdita di P. è in ogni caso superiore alla somma fatturata con riferimento ad operazioni ritenute oggettivamente inesistenti, ciò che esclude un beneficio fiscale per P..

Né è ragionevole la prospettazione dell’Ufficio, secondo la quale lo scopo sarebbe stato quello di trasferire un credito Iva a beneficio di P. con distrazione di risorse dall’attivo fallimentare della Ap.: se così fosse, P. si sarebbe privata di denaro liquido per 1,5 milioni al fine di acquisire un credito Iva di € 257.000, e contestualmente Ap., per sottrarre ai propri creditori concorsuali un credito di € 257.000, avrebbe offerto loro 1,5 milioni di euro in denaro contante. Trattasi, all’evidenza, di ricostruzione del tutto implausibile, non potendosi certo sostenere l’irrilevanza dei pagamenti effettuati a fronte delle fatture, poiché i pagamenti, con evidenza, sono andati a beneficio di una procedura concorsuale e non già del ‘soggetto economico’ inteso unitariamente dal Fisco come il nucleo familiare Dotti-Cavazzoni.

Ulteriore elemento fattuale che milita in senso contrario alla tesi dell’Ufficio appellante in ordine alla pretesa inesistenza oggettiva delle prestazioni, è che dopo il default di entrambe le società (Ap. è stata dichiarata fallita nel 2009, mentre P. è stata posta concordato preventivo l’anno successivo), né il curatore di Ap., né il commissario giudiziale di P. hanno ritenuto di segnalare alcunché agli organi della procedura o all’autorità requirente in relazione alle operazioni qui contestate, ciò che ulteriormente lumeggia la correttezza della fatturazione.

Infine, sempre nel senso dell’infondatezza della ricostruzione dell’inesistenza oggettiva, non va pretermesso che è pacifica l’effettiva vendita di P. ai propri clienti degli articoli con marchio Z.X. forniti da Ap., e che risultano per tabulas i pagamenti di P. relativamente alle fatture emesse da Ap..

c) In ragione di tutto quanto sopra, l’appello va rigettato, con conseguente conferma dell’impugnata sentenza.

Rimangono quindi assorbite le doglianze subordinate dell’appellato in ordine a pretesi errori di calcolo nella rideterminazione dell’imposta, nonché alla misura delle sanzioni.

Non vi sono motivi per derogare ai principi generali codificati dagli artt. 15 D.Lgs. n. 546/1992 e 91 c.p.c. in tema di spese di lite, che, liquidate come da dispositivo con riferimento al D.M. n. 55/2014, sono quindi poste a carico del soccombente Ufficio appellante ed a favore del vittorioso contribuente appellato, tenendo a mente un valore prossimo a quelli medi nell’ambito dello scaglione entro il quale è racchiuso il decisum di causa.

 

P.Q.M.

la Commissione Tributaria Regionale di Bologna sez. XI

  • rigetta l’appello;
  • condanna Agenzia delle Entrate di Modena a rifondere a P. s.r.l. le spese di lite del presente giudizio, che liquida in € 5.000 oltre IVA, CPA e rimborso spese forfettarie.

Bologna, 22/3/2019

Il Giudice rel. est.

Gianluigi Morlini

Il Presidente

Elisabetta Mainini