Crisi d'Impresa e Insolvenza


Il Caso.it, Sez. Giurisprudenza, 19955 - pubb. 15/06/2018

Leasing, risoluzione precedente alla dichiarazione di fallimento e determinazione dell'equo compenso per l’uso della cosa

Cassazione civile, sez. I, 16 Maggio 2018, n. 11962. Est. Loredana Nazzicone.


Fallimento - Accertamento del passivo - Opposizione allo stato passivo - Contratto di leasing - Risoluzione precedente alla dichiarazione di fallimento - Equo compenso per l’uso della cosa - Determinazione - Potere del giudice delegato - Sussiste



In materia di insinuazione allo stato passivo dei crediti derivanti da un contratto di leasing che sia stato risolto prima della dichiarazione di fallimento, rientra nei poteri del giudice delegato, ai sensi degli artt. 25, comma 1, n. 8), e 92 e ss. l.fall., provvedere alla determinazione dell'equo compenso per l'uso della cosa ex art. 1526, comma 1, c.c. (massima ufficiale)


Massimario Ragionato



 


REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

 

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. GENOVESE Francesco A. - Presidente -

Dott. NAZZICONE Loredana - rel. Consigliere -

Dott. PAZZI Alberto - Consigliere -

Dott. FALABELLA Massimo - Consigliere -

Dott. FICHERA Giuseppe - Consigliere -

ha pronunciato la seguente:

 

ORDINANZA

 

Svolgimento del processo

Viene proposto ricorso, sulla base di tre motivi, contro il decreto del Tribunale di Macerata, che ha respinto l'opposizione avverso lo stato passivo del fallimento P.L., proposta dalla creditrice Ubi Leasing s.p.a., volta al riconoscimento del credito di Euro 1.103.755,20, a titolo di canoni scaduti, interessi e spese, derivanti dal contratto di locazione finanziaria concluso tra le parti e risolto, per inadempimento del conduttore, in data 31 ottobre 2008.

Ha ritenuto il giudice del merito che nulla sia dovuto alla banca, perchè il contratto ha natura di leasing finanziario traslativo, con necessità dunque di applicare l'art. 72-quater L. Fall., ma solo allorchè il bene sarà rivenduto a terzi; mentre il fatto che il credito derivi da contratto autonomo di garanzia resta irrilevante, essendo abusiva la richiesta di trattenere sia il bene, sia il suo controvalore e dovendo ritenersi illecito l'art. 17 delle condizioni generali di contratto, il quale permette tale cumulo.

Resiste con controricorso la procedura.

Le parti hanno depositato le memorie di cui all'art. 378 cod. proc. civ..

 

Motivi della decisione

1. - Con il primo motivo, la ricorrente deduce la violazione o la falsa applicazione dell'art. 72-quater L. Fall., oltre all'omessa motivazione su punto decisivo della controversia, in quanto il credito fatto valere deriva da contratto autonomo di garanzia con pagamento a semplice richiesta e furono domandati i canoni anteriori alla risoluzione, rimasti insoluti, onde non avrebbe potuto il tribunale subordinare il diritto alla restituzione del bene alla circostanza della sua rivendita a terzi, previsione limitata alla domanda di pagamento dei canoni successivi alla risoluzione del contratto (nella specie, avvenuta il 31 ottobre 2008, mentre il fallimento fu dichiarato nel giugno 2009).

Con il secondo motivo, la ricorrente censura la violazione e la falsa applicazione dell'art. 1526 cod. civ., oltre all'omessa motivazione su punto decisivo, perchè, pur ammesso trattarsi nella specie di leasing traslativo, era diritto della concedente ottenere, accanto all'equo compenso per l'avvenuto godimento (riconosciuto dal giudice delegato), anche il risarcimento del danno (per il deprezzamento del bene ed il mancato guadagno), quest'ultimo pattuito all'art. 17 delle c.g.c., mentre il tribunale ha omesso ogni motivazione sul punto.

Con il terzo motivo, deduce la nullità del decreto, perchè il diritto soggettivo all'equo compenso non poteva essere determinato dal giudice delegato al fallimento, essendo al riguardo competente il giudice nel processo ordinario di cognizione; anche le spese processuali sono state calcolate in misura abnorme.

2. - Il primo ed il secondo motivo, che possono essere trattati congiuntamente in quanto strettamente connessi, sono inammissibili.

Il decreto impugnato ha affermato come "non può seriamente sostenersi che il contratto autonomo di garanzia sia un quid del tutto avulso rispetto al contratto che è destinato a garantire; nel caso di specie si è a fronte di una richiesta totalmente abusiva, in quanto effettuata nella consapevolezza della impossibilità di avere sia il bene che il suo controvalore insieme, con un risultato che eccederebbe di molto il giusto risultato economico di un leasing che va a buon fine. Si aggiunga quindi che l'art. 17 condizioni generali di contratto è assolutamente contra legem, in quanto porta al risultato paradossale di considerare lecita in caso di inadempimento di contratto una utilità più che doppia rispetto alla conclusione fisiologica del contratto, ovverosia la pattuita remunerazione del capitale con in aggiunta il bene da cui si era partiti", qualificando altresì tali "clausole assolutamente illecite in quanto contrarie a norme imperative", perchè contenente di fatto un interesse usurario (p. 4).

In tal modo, il tribunale ha ragionato come se fosse stata sollevata l'exceptio doli dal garante ed ha, altresì, valutato la sua fondatezza, giudicando la pretesa "abusiva"; nel contempo, ha proceduto a qualificare come illecita la penale pattuita all'art. 17 delle condizioni generali di contratto.

Tali rationes decidendi, idonee di per sè a sostenere la decisione, non sono state validamente contrastate.

Ed invero, la ricorrente si è limitata, nel primo motivo, ad insistere di avere chiesto unicamente i canoni scaduti ed a ribadire la qualificazione del contratto di garanzia come autonomo (circostanze dal tribunale già positivamente accertate), ma non ha speso neppure una parola per smentire la ritenuta abusività della pretesa della concedente; e, nel secondo motivo, a riportare delle massime sul diritto al risarcimento del danno a norma dell'art. 1526 cod. civ. ed a quantificare i danni patiti per il deprezzamento dell'immobile, senza censurare l'affermazione relativa alla inefficacia di tale clausola perchè contraria a norma imperativa.

Nè la motivazione del tribunale al riguardo può dirsi mancante, trattandosi di decreto che, seppure succintamente, ha assunto una decisione che di certo è stata motivata.

Resta, di conseguenza, assorbita la questione, pure posta dal motivo, circa l'applicabilità alla fattispecie dell'art. 72-quater L. Fall..

3. - Il terzo motivo è infondato.

Il giudice delegato prima, ed il tribunale in sede di opposizione poi, hanno ritenuto rientrare nella propria competenza la liquidazione dell'equo compenso al concedente il leasing dopo la risoluzione del rapporto, in applicazione dell'art. 1526 cod. civ..

Nessuna regola di competenza, in tal modo, è stata violata.

Al riguardo, la ricorrente invoca un precedente di questa Corte (Cass. 8 ottobre 1993, n. 9974), il quale nega che il giudice delegato abbia il potere, in caso di fallimento dell'acquirente nella vendita con patto di riservato dominio, di determinare l'equo compenso ex art. 1526 cod. civ., dovendo esso essere domandato, quale diritto soggettivo, al giudice ordinario.

Detta conclusione, del tutto corretta, non rileva nel caso di specie.

Ed invero, quel principio attiene al caso in cui - come si legge nella motivazione - il giudice delegato aveva determinato l'equo compenso, a seguito dell'avvenuta risoluzione del contratto con il quale era stato venduto il bene con patto di riservato dominio alla società in seguito fallita, "su istanza del (solo) curatore del fallimento" essendo questa l'"unica questione sulla quale gli organi fallimentari si (erano) pronunziati", onde "il provvedimento degli organi fallimentari, in quanto contenente la determinazione delle somme il cui pagamento incomberebbe al fallimento, risulta adottato senza che il creditore avesse fatto istanza di ammissione al passivo".

E' stato così affermato che, in mancanza dell'accordo fra le parti sull'equo compenso previsto dall'art. 1526 cod. civ., la determinazione di questo non può che spettare al giudice adito con un giudizio ordinario di cognizione, trattandosi di un diritto soggettivo e non rientrando detta determinazione tra i poteri che l'art. 25 L. Fall. attribuisce al giudice delegato.

Tutto l'opposto nel caso di specie, in cui la concedente ha chiesto al giudice delegato l'ammissione al passivo fallimentare con riguardo ai crediti scaturenti dal contratto, comprendenti i canoni già scaduti sino alla risoluzione, quelli sino alla riconsegna del bene, nonchè, appunto, l'equo compenso per l'uso della cosa, ai sensi dell'art. 1526 cod. civ., comma 1.

A fronte di tale domanda, la competenza del giudice delegato sicuramente sussiste, rientrando nei suoi compiti e poteri, a norma dell'art. 25, comma 1, n. 8, e artt. 92 e ss. L. Fall., quello di procedere all'accertamento dei crediti e dei diritti reali e personali vantati dai terzi; del resto, è quanto ritenuto, in modo pacifico, da una pluralità di decisioni di legittimità (ad es. Cass. 15 settembre 2017, n. 21476; Cass. 9 febbraio 2016, n. 2538).

Va, dunque, enunciato il seguente principio di diritto:

"Rientra nei poteri del giudice delegato, a norma degli art. 25, comma 1, n. 8, e artt. 92 e ss. L. Fall., provvedere alla determinazione dell'equo compenso per l'uso della cosa, ai sensi dell'art. 1526 cod. civ., comma 1, ove il creditore richieda tale credito con domanda di ammissione allo stato passivo fallimentare".

4. - Le spese seguono la soccombenza.

 

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese di lite, liquidate in Euro 9.000,00, oltre ad Euro 200,00 per esborsi, alle spese forfetarie nella misura del 15% ed agli accessori di legge.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 16 marzo 2018.

Depositato in Cancelleria il 16 maggio 2018.