Leasing


Il Caso.it, Sez. Giurisprudenza, 1299 - pubb. 07/09/2008

Scioglimento del contratto di leasing, rilevanza della volontà delle parti

Cassazione civile, sez. I, 23 Maggio 2009, n. 13418. Est. Nappi.


Fallimento – Contratti pendenti – Manifestazione della volontà di scioglimento da parte del curatore – Facta concludentia – Ammissibilità – Conseguenze.

Fallimento – Contratti pendenti – Leasing – Distinzione tra leasing di godimento e leasing traslativo – Rilevanza della volontà delle parti.



La scelta del curatore fallimentare di sciogliersi da un contratto di compravendita in corso di esecuzione può essere manifestata anche per fatti concludenti ed il contraente in bonis, in conseguenza di tale scelta del curatore, può richiedere ai sensi dell’art. 103, legge fallimentare, la restituzione dei beni oggetto del contratto. (Franco Benassi) (riproduzione riservata)

Il leasing di godimento è dalle parti stipulato con funzione di finanziamento rispetto a beni non idonei a conservare un apprezzabile valore residuale alla scadenza del rapporto e in corrispettivo di canoni remunerativi esclusivamente dell'uso dei beni locati. Il leasing traslativo è invece stipulato con riferimento a beni idonei a conservare alla scadenza del contratto un valore residuo superiore all'importo convenuto per l'opzione e in corrispettivo di canoni che includono anche una quota del prezzo in previsione del successivo acquisto da parte dell'utilizzatore. La riconducibilità del singolo contratto all'uno o all'altro dei due tipi dipende dalla volontà in concreto espressa dalle parti, il cui l'accertamento rientra nei poteri del giudice del merito e non è censurabile in sede di legittimità, se non per violazione dei criteri ermeneutici, ovvero per vizio di motivazione. (Franco Benassi) (riproduzione riservata)



omissis

Fatto

Con sentenza resa il 2 dicembre 1998 il Tribunale di Ragusa rigettò l'opposizione proposta dalla S. Leasing s.p.a. avverso lo stato passivo del fallimento della C.T.G. s.r.l., nel quale aveva vanamente chiesto di essere ammessa per un credito di L. 357.035.709, vantato per i canoni scaduti di due locazioni finanziarie, e in accoglimento della domanda riconvenzionale spiegata dalla curatela fallimentare, condannò l'opponente al pagamento della somma di L. 302.000.000. La sentenza, appellata dalla S. Leasing s.p.a., fu confermata dalla Corte d'appello di Catania, che giustificò la sua decisione con i seguenti argomenti:

a) la volontà di avvalersi della clausola risolutiva espressa nei contratti fu manifestata dalla S. Leasing s.p.a. dopo la dichiarazione del fallimento e quindi non ebbe l'effetto risolutivo postulato dall'opponente;

b) avendo comunque chiesto ex art. 103, Legge fallimentare, la restituzione dei beni locati, la S. Leasing s.p.a. non poteva agire per l'adempimento dei medesimi contratti di cui aveva così ottenuto la risoluzione per inadempimento; nè ha rilievo il dedotto mancato reperimento da parte del consulente d'ufficio di alcuni dei beni locati, perchè, ottenuta la decisione di restituzione anche di quei beni, la S. Leasing s.p.a. li aveva venduti tutti alla curatela fallimentare, inclusi quelli non reperiti dal consulente;

c) attesa la natura traslativa dei contratti di leasing, desumibile sia dalla prevedibile durata economica dei beni oltre il termine della locazione sia dalla modica entità del prezzo di riscatto in rapporto al valore residuo di tali beni, risulta applicabile analogicamente l'art. 1526 c.c., e alla locatrice compete solo un equo compenso per l'utilizzazione dei beni locati, con obbligo di restituzione della somma di L. 302.000.000, percepita in eccesso, ammontando a L. 1.314.754.754, l'importo dei canoni pagati dall'utilizzatore.

Contro la sentenza d'appello ricorre ora per cassazione la L. s.p.a., che ha incorporato la S. Leasing s.p.a., e propone tre motivi di ricorso, cui resiste con controricorso il Fallimento C.T.G. s.r.l.. Entrambe le parti hanno depositato memorie.

Diritto

1. Con il primo motivo la ricorrente deduce violazione dell'art. 1453 c.c., e, artt. 72, 93 e 103, Legge fallimentare vizi di motivazione della decisione impugnata.

Sostiene che il contratto s'era sciolto per volontà tacitamente manifestata dal curatore fallimentare a norma della art. 72, Legge fallimentare, sicchè erroneamente i giudici del merito hanno qualificato come domanda di risoluzione del contratto la domanda di restituzione dei beni locati, proposta in conseguenza del recesso del curatore.

Il motivo è inammissibile per genericità. Non v'è dubbio infatti che la scelta del curatore fallimentare di sciogliersi da un contratto di compravendita in corso di esecuzione possa essere manifestata anche per fatti concludenti (Cass., sez. II, 16 maggio 1997, n. 4331, n. 4331); e che il contraente in bonis possa, in conseguenza di tale scelta del curatore, richiedere ex art. 103, Legge fallimentare, la restituzione dei beni oggetto del contratto (Cass., sez. I, 26 agosto 1998, n. 8478).

Tuttavia è pur sempre necessario un comportamento specifico e inequivocabile del curatore, che presupponga come implicita anche la necessaria autorizzazione del Giudice delegato (Cass., sez. I, 14 maggio 1996, n. 4483). Mentre nel caso in esame la ricorrente neppure indica quale sarebbe il comportamento del curatore in tal senso significativo. Ma si limita a evocare la generica possibilità di un tale scioglimento, per contestare la corretta affermazione dei Giudici del merito circa l'inefficacia della dichiarazione del contraente in bonis di avvalersi della clausola risolutiva espressa, ove comunicata dopo la dichiarazione del fallimento (Cass., sez. II, 26 marzo 2001, n. 4365).

2. Con il secondo motivo la ricorrente deduce violazione e falsa applicazione degli artt. 1526, 1458 c.c., e degli artt. 103, 93 e 56, Legge fallimentare, vizi di motivazione della decisione impugnata. Sostiene che all'applicazione dell'art. 1526 c.c., ostava il mancato reperimento di alcuni dei beni locati e quindi l'impossibilità della loro restituzione, con la conseguente conversione della domanda di restituzione in domanda di insinuazione al passivo per il corrispettivo di tali beni, il cui credito andava compensato con quello riconosciuto alla curatela.

Anche questo motivo è inammissibile per genericità. Infatti i giudici del merito hanno ritenuto che anche i beni non rinvenuti dal C.T.U. furono messi a disposizione della S. Leasing in seguito alla sua domanda di restituzione; e che anche tali beni furono poi venduti dalla ricorrente alla curatela fallimentare. Sicchè i Giudici del merito hanno escluso in fatto la dedotta impossibilità di restituzione di parte dei beni locati. E contro questo accertamento di fatto la ricorrente non propone alcuna censura specifica, limitandosi a dare per presupposta la mancata restituzione dei beni.

3. Con il terzo motivo la ricorrente deduce violazione e falsa applicazione degli artt. 1526 e 1458 c.c., vizi di motivazione della decisione impugnata.

Ribadita l'inapplicabilità dell'art. 1526 c.c., per il mancato reperimento di alcuni dei beni, su cui s'è già detto, la ricorrente propone due distinte censure, l'una principale l'altra subordinata.

Ma il motivo è infondato in entrambi i suoi profili.

3.1 - La ricorrente censura innanzitutto la qualificazione come traslative delle locazioni finanziarie controverse, lamentando che i Giudici del merito l'abbiano fondata su una valutazione ex post dei beni locati, sopravvenuta allo scioglimento del contratto, senza un'adeguata ricostruzione dell'iniziale intenzione delle parti. Del resto, aggiunge, è prevalentemente finanziaria la funzione del leasing, come riconoscono anche le autorità di controllo del mercato e la legislazione tributaria. Sicchè è matura una rimeditazione della giurisprudenza sull'ammissibilità di una destinazione anche traslativa di questo contratto atipico, che sempre più si differenzia dalla vendita con riserva della proprietà, sia per la tipologia dei contraenti sia per la tipologia dei beni che ne sono oggetto. In particolare il concedente non dispone del bene, ma acquista su richiesta di un'impresa nella cui disposizione lo pone per un periodo di tempo limitato, contro un canone destinato a remunerare il capitale impiegato e determinato indipendentemente dal perdurare dell'utilità economica del bene locato. Sicchè l'interesse del concedente va valutato solo in rapporto al piano finanziario, mentre l'eventuale valore residuo dei beni locati rileva solo ai fini dell'esercizio del diritto di opzione da parte dell'utilizzatore. Ed è errata la prospettiva di chi consideri come arricchimento ingiustificato il cumulo dei canoni di locazione e del bene eventualmente ottenuto in restituzione dal concedente in caso di risoluzione del contratto. Nè il canone può essere considerato come corrispettivo dell'acquisto del bene, posto che per il diritto d'opzione è previsto uno specifico e distinto compenso. La causa del pagamento dei canoni della locazione è in realtà quella del rimborso del finanziamento erogato dal concedente per l'acquisto del bene richiesto dall'utilizzatore.

In ordine a tale primo profilo di censura va rilevato che, secondo quanto prevede l'art. 1458 c.c., comma 1, "la risoluzione del contratto per inadempimento ha effetto retroattivo tra le parti, salvo il caso di contratti a esecuzione continuata o periodica, riguardo ai quali l'effetto della risoluzione non si estende alle prestazioni già eseguite". Per questa ragione la giurisprudenza ha chiarito che "la risoluzione della locazione finanziaria, per inadempimento dell'utilizzatore, non si estende alle prestazioni già eseguite, in base alle previsioni dell'art. 1458 c.c., comma 1, in tema di contratti ad esecuzione continuata e periodica, ove si tratti di "leasing" cosiddetto di godimento, pattuito con funzione di finanziamento, rispetto a beni non idonei a conservare un apprezzabile valore residuale alla scadenza del rapporto (con consequenziale marginalità dell'eventuale opzione), e dietro canoni che configurano esclusivamente il corrispettivo dell'uso dei beni stessi. La risoluzione medesima, invece, si sottrae a dette previsioni, e resta soggetta all'applicazione in via analogica delle disposizioni fissate dall'art. 1526 c.c., con riguardo alla vendita con riserva della proprietà, ove si tratti di "leasing" cosiddetto traslativo, pattuito con riferimento a beni atti a conservare a quella scadenza un valore residuo superiore all'importo convenuto per l'opzione, e dietro canoni che scontano anche una quota del prezzo in previsione del successivo acquisto (rispetto a cui la concessione in godimento assume funzione strumentale)" (Cass., sez. III, 4 luglio 1997, n. 6034, Cass., sez. I, 3 settembre 2003, n. 12823).

Sicchè da oltre un decennio questa Corte distingue due tipi di locazione finanziaria: il leasing di godimento e il leasing traslativo (Cass., sez. I, 7 febbraio 2001, n. 1715, Cass., sez. III, 14 luglio 2004, n. 13073).

Il leasing di godimento risulta stipulato con funzione di finanziamento, rispetto a beni non idonei a conservare un apprezzabile valore residuale alla scadenza del rapporto e in corrispettivo di canoni remunerativi esclusivamente dell'uso dei beni locati. Il leasing traslativo risulta invece stipulato con riferimento a beni idonei a conservare alla scadenza del contratto un valore residuo superiore all'importo convenuto per l'opzione e in corrispettivo di canoni che includono anche una quota del prezzo in previsione del successivo acquisto da parte dell'utilizzatore. Ed è indiscusso che la riconducibilità del singolo contratto all'uno o all'altro dei due tipi dipende dalla volontà in concreto espressa dalle parti, il cui l'accertamento "rientra nei poteri del Giudice del merito e non è censurabile in sede di legittimità, se non per violazione dei criteri ermeneutici, ovvero per vizio di motivazione" (Cass., sez. III, 14 novembre 2006, n. 24214, Cass., sez. III, 28 novembre 2003, n. 18229).

Nel caso in esame la ricorrente contesta solo genericamente l'accertamento compiuto dai Giudici del merito in ordine all'effettiva volontà delle parti, peraltro giustificato diffusamente nella sentenza impugnata. Ma sostiene che il leasing ha sempre e necessariamente natura meramente finanziaria, e quindi destinazione di godimento, perchè l'eventuale valore residuo dei beni locati rileva solo ai fini dell'esercizio del diritto di opzione da parte dell'utilizzatore; sicchè il canone non può essere considerato come corrispettivo dell'acquisto del bene, posto che per il diritto d'opzione è previsto uno specifico e distinto compenso.

Sennonchè questa impostazione è palesemente una petizione di principio, perchè prescinde dall'effettiva volontà delle parti e da per scontato ciò che occorrerebbe dimostrare: vale a dire che i canoni di locazione non siano determinati in misura tale da includere una rateizzazione del prezzo di acquisto del bene oggetto del contratto.

Risulta invece del tutto ragionevole l'orientamento giurisprudenziale che ritiene applicabile analogicamente la disciplina della vendita con riserva della proprietà, e segnatamente dell'art. 1526 c.c., in tutti i casi in cui il contratto si manifesti orientato a un trasferimento differito del bene, in ragione della rateizzazione del prezzo di vendita incluso nei canoni di utilizzazione. Infatti è irrilevante in questa prospettiva se il concedente sia il produttore del bene ovvero un imprenditore che lo acquisti appositamente per porlo a disposizione dell'utilizzatore. Ciò che rileva è se il godimento temporaneo da parte dell'utilizzatore esaurisca la funzione economica del bene ovvero la durata del contratto sia predeterminata solo in funzione dell'ulteriore differito trasferimento del bene e della corrispondente rateizzazione del prezzo di acquisto.

3.2 Per il caso che la qualificazione del contratto come traslativo venga considerata nondimeno corretta, la ricorrente deduce comunque, in via subordinata, l'erronea determinazione dell'equo compenso previsto dall'art. 1526 c.c., lamentando che i Giudici del merito l'abbiano liquidato senza tener conto della perdita di valore del bene e dell'interesse del concedente a un esatto adempimento. In realtà, secondo la giurisprudenza di questa Corte, nel leasing traslativo, al quale si applica la disciplina della vendita con riserva di proprietà, in caso di risoluzione per inadempimento dell'utilizzatore, quest'ultimo, restituita la cosa, ha diritto alla restituzione delle rate riscosse, fatto salvo il diritto del concedente di trattenere un equo compenso per l'uso della cosa, oltre al risarcimento del danno (Cass., sez. III, 2 marzo 2007, n. 4969). Tuttavia l'equo compenso comprende la remunerazione del godimento del bene ed il deprezzamento conseguente alla sua non commerciabilità come nuovo ed al logoramento per l'uso, ma non il mancato guadagno da parte del concedente, mentre il risarcimento del danno può derivare da un deterioramento anormale della cosa dovuto all'utilizzatore (Cass., sez. III, 24 giugno 2002, n. 9161, Cass., sez. II, 13 gennaio 2005, n. 574).

Nel caso in esame i Giudici del merito hanno determinato il compenso in una misura pari alla differenza tra l'importo dei canoni pagati dall'utilizzatore in L. 1.314.754.754, e l'importo del credito di L. 302.000.000 riconosciuto in restituzione al fallimento. Sicchè, contrariamente a quanto la ricorrente deduce, l'equo compenso risulta liquidato nella misura di circa L. un miliardo. E contro tale determinazione non viene mossa alcuna censura specifica e pertinente.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al rimborso delle spese in favore del resistente, liquidandole in complessivi Euro 10.100,00, di cui Euro 10.000,00, per onorari, oltre spese generali e accessori come per legge.

Così deciso in Roma, il 27 marzo 2008.

Depositato in Cancelleria il 23 maggio 2008