Diritto Societario e Registro Imprese


Il Caso.it, Sez. Giurisprudenza, 6917 - pubb. 01/08/2010

.

Cassazione civile, sez. I, 17 Novembre 2005, n. 23269. Est. Rordorf.


Società - Di capitali - Società per azioni - Costituzione - Modi di formazione del capitale - Modificazioni dell'atto costitutivo - Contenuto delle modificazioni - Riduzione del capitale - Per perdite - In genere - Redazione della situazione patrimoniale - Criteri di valutazione - Condizioni per l'iscrizione dell'avviamento all'attivo - Art. 2426, numero 6), cod. civ. - Applicabilità.



La disposizione, di chiara ispirazione prudenziale, per la quale nella redazione del bilancio di una società per azioni non è consentito iscrivere all'attivo un valore di avviamento se non lo si sia acquistato a titolo oneroso (art. 2426, numero 6, cod. civ.), trova applicazione anche nella redazione della situazione patrimoniale richiesta dall'art. 2446 cod. civ. in tema di riduzione del capitale per perdite. (massima ufficiale)


 


REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. DE MUSIS Rosario - Presidente -
Dott. PROTO Vincenzo - Consigliere -
Dott. RORDORF Renato - rel. Consigliere -
Dott. SCHIRÒ Stefano - Consigliere -
Dott. DEL CORE Sergio - Consigliere -
ha pronunciato la seguente:

SENTENZA
sul ricorso proposto da:
FALLIMENTO DELLA SO.GE.SCO. S.P.A., in persona del curatore prof. Giovanni Cabras, elettivamente domiciliato in ROMA, via Lisbona 3, presso l'avv. D'ALESSANDRO Floriano, che lo rappresenta e difende, unitamente all'avv. BUONOMO Domenico, giusta procura in calce al ricorso;
- ricorrente -
contro
BANCO DI NAPOLI S.P.A, in persona del legale rappresentante pro tempore prof. Federico Pepe, elettivamente domiciliato in ROMA, via XX Settembre 3, presso l'avv. SANDULLI Michele, che lo rappresenta e difende, giusta procura speciale del 19 dicembre 2002 in autentica del notaio Mario Mazzocca (rep. n. 50234);
- controricorrente -
avverso la sentenza della Corte d'appello di Napoli, depositata in data 15 febbraio 2002;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza dal Consigliere Dott. Renato RORDORF;
uditi per parte ricorrente l'avv. Floriano D'ALESSANDRO, che ha chiesto l'accoglimento del ricorso, e per parte controricorrente l'avv. Michele SANDULLI, che ne ha chiesto il rigetto;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. PATRONE Ignazio che ha concluso per il rigetto del ricorso. SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con atto notificato l'11 dicembre 1996, la So.Ges.Co. s.p.a. (poi dichiarata fallita con conseguente subentro in causa del curatore) citò in giudizio dinanzi al Tribunale di Napoli il Banco di Napoli s.p.a., di cui era socia, e chiese che fossero dichiarate mille o inesistenti, o comunque che fossero annullate, le deliberazioni assunte dall'assemblea in data 30 luglio 1996. Quell'assemblea - come l'attrice riferì - aveva approvato una relazione degli amministratori concernente la situazione patrimoniale risalente al precedente 31 marzo, da cui emergevano perdite ammontanti a L. 3.441.794.501.984; aveva disposto la copertura di dette perdite, in parte mediante utilizzazione di riserve pari a L. 2.458.296.359.422 e, per il resto, azzerando il capitale costituito da azioni ordinarie e riducendo quello costituito da azioni di risparmio dall'originario importo di L. 341.539.623.000 sino a L. 128.077.359.000, con accorpamento di otto vecchie azioni in tre azioni di nuova emissione, fermo il valore nominale di L. 1.000 per azione, e con riporto a nuovo di una residua perdita di L. 901.506.562; aveva deliberato di aumentare il capitale sociale nella misura di L. 2.000.000.000, emettendo nuove azioni ordinarie da offrire in opzione ai soci; aveva infine proceduto ad un ulteriore aumento del capitale sociale per altre L. 283.758.333.000, attribuendo le relative azioni al Ministero del tesoro a fronte di versamenti di pari importo da quest'ultimo già effettuati a norma della legge n. 218 del 1990 e del d.l. n. 394 del 1996.
Di siffatte deliberazioni la società attrice lamentò l'invalidità, perché: 1) le perdite di capitale erano state computate senza tener conto dell'esistenza dei versamenti del Ministero del tesoro da ultimo menzionati, costituenti a tutti gli effetti una riserva patrimoniale della società e sui quali, di conseguenza, le perdite avrebbero dovuto incidere prima ancora di poter intaccare il capitale ordinario, che non avrebbe dovuto quindi essere azzerato; 2) il riporto a nuovo di una parte delle perdite non avrebbe potuto esser disposto, stante la previsione dell'art. 2446 c.c.; 3) le deliberazioni in esame erano state assunte sulla base di una situazione patrimoniale non sufficientemente aggiornata, nella quale ingiustificatamente si era omesso di tener conto del valore dell'avviamento aziendale; 4) l'ordine del giorno contenuto nell'avviso di convocazione dell'assemblea difettava di specificità;
5) l'assemblea aveva deliberato con il voto favorevole del rappresentante del Ministero del tesoro, il quale però versava in situazione di conflitto di interessi, o aveva comunque abusato del proprio voto; 6) il finanziamento operato dal socio pubblico configurava un aiuto di Stato, incompatibile con il rispetto del Trattato istitutivo dell'Unione europea.
Nessuno di tali rilievi fu condiviso dal tribunale, il quale, con sentenza del 25 febbraio 1998, rigetto la domanda. Siffatta decisione fu poi confermata, a seguito di gravame, anche dalla Corte d'appello di Napoli, con sentenza depositata il 15 febbraio 2002. La corte napoletana, anzitutto, osservò che i versamenti effettuati dal Ministero del tesoro a norma dell'art 4 della legge n. 218 del 1990, del d.lgs. n. 358 del 1990 e della ulteriore legislazione speciale che ne era derivata costituivano riserve unicamente destinate ai futuri aumenti di capitale della società bancaria, riserve utilizzabili esclusivamente a tale scopo e solo dopo che un aumento di capitale fosse stato deliberato, onde un siffatto vincolo ne impediva un eventuale diverso utilizzo a fine di copertura delle perdite; ne' ciò implicava l'attribuzione al socio pubblico di un inammissibile privilegio, giacché gli effetti del suindicato vincolo normativo ben avrebbero potuto essere perseguiti anche direttamente dalla volontà negoziale delle parti. Aggiunse poi che il riporto a nuovo di una percentuale minima delle perdite in precedenza registrate, di per sè comunque inidoneo a ledere interessi degni di tutela, non poteva dirsi illegittimo, essendo anzi necessitato dall'esigenza di accorpare le preesistenti azioni di risparmio con quelle di nuova emissione assicurandone il pari valore nominale, come prescritto dall'art. 15 della legge n. 216 del 1974. Quanto alle ulteriori questioni solevate dall'appellante, la corte territoriale affermò che l'intervallo di quattro mesi, intercorso tra la data di riferimento della situazione patrimoniale sottoposta all'assemblea e la data delle deliberazioni conseguentemente assunte, non esorbitava dai fisiologici limiti legali, non essendo neppur provato che nel frattempo detta situazione patrimoniale si fosse sensibilmente modificata; che il riferimento operato dall'ordine dei giorno ai provvedimenti previsti dall'art. 2446 c.c. e dal d.l. n. 293 del 1996 appariva nella specie sufficiente a rendere edotti i soci di ciò su cui l'assemblea era chiamata a deliberare; che nessun abuso di posizione dominante era imputabile al socio pubblico, i cui comportamenti erano vincolati dal dettato normativo, ne' poteva configurarsi una significativa contrapposizione tra l'interesse del Ministero e quello del Banco di Napoli, a vantaggio del quale l'intera operazione era destinata; che correttamente la già citata situazione patrimoniale non aveva tenuto conto del valore dell'avviamento, in conformità a quanto in proposito dispone l'art. 2426, n. 6, c.c; che la Commissione della Comunità Europea, con deliberazione del 29 luglio 1998, vincolante per il giudice nazionale, aveva riconosciuto la legittimità degli aiuti di Stato realizzati attraverso il meccanismo normativo sopra descritto, siccome rientranti in una delle deroghe previste dall'art. 92, paragrafo 3, del Trattato, e che, comunque, faceva difetto nel socio impugnante ogni interesse a far dichiarare l'asserita nullità della deliberazione di aumento del capitale per contrarietà ai vincoli comunitari, giacché ciò avrebbe avuto solo l'effetto di rendere ancor più radicale l'azzeramento del capitale sociale. Avverso tale sentenza il curatore del fallimento della So.Ges.Co. ha proposto ricorso per Cassazione articolato in sette motivi. Il Banco di Napoli ha resistito con controricorso.
Entrambe le parti hanno successivamente depositato memorie ed il difensore della curatela ricorrente, al termine dell'udienza di discussione, ha anche presentato brevi osservazioni scritte in replica alla conclusioni del pubblico ministero.
MOTIVI DELLA DECISIONE
1. Il primo motivo di ricorso solleva la questione se sia stato o meno legittimo, da parte dell'assemblea del Banco di Napoli, ridurre il capitale per perdite senza tener conto delle riserve costituite dai versamenti in precedenza eseguiti dal Ministero del tesoro a norma dell'art. 1 del d.l. n. 163 del 1996.
1.1. Per la comprensione del problema è indispensabile premettere che, nel quadro della ristrutturazione degli istituti di credito di diritto pubblico, l'art. 4 della legge 30 luglio 1990, n. 218, espressamente contemplò l'erogazione di fondi del Ministero del tesoro in favore di detti istituti e delegò il Governo a dettare più specifiche disposizioni al riguardo, prevedendo che, a fronte dei versamenti, fossero "costituite, da parte degli istituti destinatari, apposite riserve denominate con riferimento alla presente legge e da utilizzare entro due anni per la costituzione o l'aumento del capitale delle società per azioni di cui all'art. 1, comma 1" (ossia delle società bancarie derivanti dalla trasformazione o dalla fusione dei predetti istituti creditizi di diritto pubblico). Le relative azioni avrebbero dovuto essere attribuite al Ministero del tesoro. In attuazione dell'anzidetta delega fu poi emanato il d. lgs. 20 novembre 1990, n. 358, col quale, tenuto conto delle esigenze patrimoniali connesse all'organizzazione ed allo sviluppo dei menzionati enti di diritto pubblico, venne tra l'altro stabilito quali fondi dovessero essere erogati a beneficio del Banco di Napoli, in anni compresi tra il 1990 ed il 1994, e fu ribadito sia l'obbligo di far confluire tali fondi in apposite riserve, denominate con riferimento alla citata legge n. 218 del 1990, sia il fatto che tali riserve avrebbero dovuto essere utilizzate per la costituzione o l'aumento di capitale delle società per azioni sopra richiamate, con attribuzione delle relative azioni al Ministero del tesoro. Nel solco di tale legislazione si sono collocati, pur con qualche variante, una serie di decreti legge emanati nell'anno 1996 ed esplicitamente volti a finalità di risanamento, ristrutturazione e privatizzazione del Banco di Napoli (decreti n. 163, n. 293 e n. 394 del 1996), che non furono convertiti in legge ma i cui effetti vennero poi espressamente fatti salvi dalla legge 19 novembre 1996, n. 588, che convertì un ulteriore decreto emanato nel precedente mese di settembre (decreto n. 497 del 1996). In particolare fu previsto - per quanto in questa sede interessa - che il Ministero del Tesoro potesse sottoscrivere uno o più aumenti di capitale del Banco di Napoli, per un ammontare determinato con successivi decreti dello stesso ministero, tenuto conto delle finalità sopra ricordate e dell'assunzione di impegni finanziari anche da parte di banche ed investitori istituzionali (art. 1, commi 1 e 3, del citato d.l. n. 163/96); e che gli eventuali versamenti già effettuati dal Ministero del tesoro e destinati ad aumento di capitale venissero imputati a capitale dopo che si fosse proceduto, entro il 30 giugno di quell'anno, ad accertare la situazione patrimoniale della banca, riferita alla data del precedente 31 marzo, e ad adottare i relativi provvedimenti di adeguamento del capitale sociale (art cit. comma 6, in relazione al successivo art. 3, comma 1, lett. a).
L'impugnata sentenza riferisce che, in attuazione di tali disposizioni, il Ministero del tesoro eseguì versamenti in favore del Banco di Napoli, nel gennaio 1995 e nel marzo 1996, per il complessivo importo di L. 283.758.333.000; che, nella situazione patrimoniale della società, riferita alla data del 31 marzo 1996, tali versamenti furono contabilizzati, tra le riserve, come conferimenti del suindicato ministero; che l'assemblea del 30 luglio 1996, dopo avere approvato la suddetta situazione patrimoniale, dispose la riduzione del capitale per perdite, senza tener conto delle riserve da conferimento sopra menzionate, le quali furono invece utilizzate nell'ambito del contestuale aumento del medesimo capitale, con attribuzione delle corrispondenti azioni al Ministero del tesoro.
Di ciò, appunto, la ricorrente si duole, sostenendo che quelle riserve, proprio perché definite tali nella situazione patrimoniale approvata col voto favorevole dello stesso Ministero del tesoro, erano da ricomprendere tra i mezzi propri della società; e, poiché esse derivavano da versamenti destinati a risanare la situazione deficitaria dell'istituto creditizio, avrebbero dovuto essere anzitutto imputate a copertura delle perdite. Nel considerare viceversa legittima la descritta operazione, la corte d'appello sarebbe dunque incorsa in errore, violando la disposizione dell'art. 2446 c.c. e motivando in modo inadeguato il proprio convincimento. 1.2. La doglianza non appare fondata.
È noto come la disciplina dei cosiddetti versamenti atipici di capitale (in conto copertura perdite, in conto futuro aumento di capitale e simili), da tempo oggetto di dibattito tanto in dottrina quanto in giurisprudenza, sia in larga parte condizionata dall'autonomia delle parti interessate e dal modo in cui esse hanno di volta in volta inteso configurare tali versamenti (si vedano, in argomento, Cass. 19 marzo 1996 n. 2314; Cass. 14 dicembre 1998 n. 12539, e Cass. 6 luglio 2001 n. 9209). Un tale approccio, nondimeno, è scarsamente utile in un caso come quello in esame, essendo da condividere il rilievo della corte d'appello secondo cui la normativa speciale sopra sommariamente riferita definisce la natura e la disciplina dei versamenti in essa previsti, e lo fa in termini che costituiscono per ciò stesso un vincolo alla volontà delle parti. Ora, come si è ricordato, il legislatore ha stabilito espressamente che i finanziamenti erogati dal Ministero del tesoro in attuazione della normativa sul risanamento degli istituti di credito di diritto pubblico dovessero avere come scopo "la costituzione o l'aumento del capitale delle società per azioni" derivanti in vario modo dalla trasformazione di detti istituti e che, a fronte di essi, avrebbero dovuto essere emesse azioni attribuite al medesimo Ministero del tesoro. Ha anche stabilito che detti finanziamenti, ovviamente prima del loro utilizzo per sottoscrizione di capitale, dovessero confluire in una speciale riserva da denominarsi con riferimento alla legge n. 218 del 1990.
La natura giuridica di tale riserva non è espressamente definita dalla legge, ma può convenirsi con la difesa della ricorrente sul fatto che si tratti di un conferimento da ricondurre nell'area del capitale di rischio e non di un'erogazione di credito: quindi non di un versamento cui corrisponda una posta debitoria, connessa ad un obbligo di restituzione a scadenza, bensì, appunto, di una riserva patrimoniale della società. Ed, in termini generali, è certamente vero che le riserve di patrimonio sono destinate a concorrere alla copertura delle perdite, ove queste superino i limiti oltre i quali la legge impone di assumere i provvedimenti indicati dall'art. 2446 c.c., di talché non si potrebbe neppure parlare correttamente di "perdite di capitale" se non nella misura in cui tali perdite eccedano l'ammontare delle riserve che sono destinate a costituire un presidio avanzato del capitale medesimo. È però vero ugualmente che, nel caso in esame, le espressioni adoperate dal legislatore, con specifico riferimento all'utilizzo dei versamenti pubblici di cui si discute, orientano univocamente verso una soluzione diversa, giacché tutte con chiarezza si riferiscono all'utilizzazione di detti versamenti esclusivamente per aumento del capitale sociale, con corrispondente attribuzione di azioni, e non anche per copertura di perdite (ossia "a fondo perduto").
Decisivo in tal senso è, soprattutto, il disposto dell'art. 1, comma 6, del d.l. n. 163 del 27 marzo 1996 (identicamente ripetuto nel successivo d.l. n. 293 del 27 maggio 293, in vigore nel momento in cui fu adottata l'impugnata deliberazione assembleare), a tenore del quale i versamenti effettuati dal tesoro, "destinati ad aumenti di capitale, vengono imputati al capitale dopo che si siano realizzate le condizioni di cui all'articolo 3, comma 1, lettera a)", vale a dire dopo che si sia provveduto "all'accertamento, entro il 30 giugno 1996, della situazione patrimoniale del Banco di Napoli alla data del 31 marzo 1996 e ai relativi provvedimenti di adeguamento del capitale sociale". Il che, contrariamente all'opinione manifestata al riguardo dalla ricorrente, ben lungi dall'implicare la necessità di utilizzare i mezzi pubblici messi a disposizione del Ministero del tesoro per l'aumento del capitale solo nella misura in cui questi non fossero stati già assorbiti dalle pregresse perdite, sta a significare che quei versamenti erano riservati ad un aumento di capitale da realizzare subito dopo lo "adeguamento del capitale" medesimo (ossia la sua riduzione per perdite) e condizionatamente a tale previa deliberazione.
A questo rilievo non vale opporre ne' la generica indicazione del "fine di risanare, ristrutturare e privatizzare il Banco di Napoli", che l'art. 1, comma 1, del citato d.l. n. 163 del 1996 attribuisce alla sottoscrizione degli aumenti di capitale che il Ministero del tesoro era autorizzato ad effettuare, ne' il fatto che la norma parli di versamenti "eventuali". Quest'ultima indicazione non può essere intesa, come vorrebbe la ricorrente, nel senso che all'aumento di capitale fosse da destinare solo quella parte dei versamenti non già incisa dalle pregresse perdite, essendo viceversa evidente che la "eventualità" si riferisce al fatto che i versamenti fossero stati erogati, ed in qual misura, non certo alla loro sorte successiva. Quanto alla richiamata finalità di risanamento, è da rilevare come anch'essa sia esplicitamente riferita ad atti di sottoscrizione di capitale (non di ripianamento di perdite) e, comunque, appaia del tutto compatibile con una nozione economica di "risanamento" implicante la messa a disposizione del capitale necessario perché la società bancaria potesse operare sul mercato in regime concorrenziale. E non pare dubbio che proprio questa fosse l'intenzione del legislatore, desumibile anche dall'intero contesto della normativa speciale in esame: non di utilizzare i fondi pubblici in questione per fronteggiare la cattiva riuscita dell'attività bancaria pregressa, alleviando le perdite destinate naturalmente a gravare sui soci (pubblici o privati) titolari fino a qual momento del capitale sociale, bensì di dotare la banca dei mezzi necessari a riprendere su basi più solide la propria attività futura, così da favorirne la completa privatizzazione.
Deve quindi, in definitiva, approvarsi la conclusione cui è pervenuta sul punto la corte napoletana, secondo cui alle riserve in esame lo stesso legislatore ha ricollegato un vincolo di destinazione specifica ad aumento di capitale. Un vincolo la cui peculiarità si manifesta già nell'esigenza di contrassegnare in contabilità dette riserve con l'esplicito riferimento alla normativa che le ha previste e che, sia pure eccezionalmente, le ha sottratte al regime generale delle riserve di patrimonio, impedendo di adoperarle a copertura di perdite pregresse.
Si può allora magari discutere del modo più corretto nel quale una siffatta situazione dovesse essere rappresentata in bilancio, ma in nessun caso ciò potrebbe incidere sulla conclusione sopra indicata, e non è la correttezza della rappresentazione contabile che forma oggetto della presente causa. Rileva solo, in questa sede, che la deliberazione assunta dall'assemblea del Banco di Napoli in ordine all'utilizzazione dei versamenti di cui s'è detto appare coerente con la loro destinazione e non può dirsi, quindi, contraria alla legge.
È appena il caso di osservare, infine, come l'impianto legislativo sopra descritto non si ponga in contrasto ne' con l'esigenza di garantire l'affidamento dei terzi sulla consistenza e sulla funzione del patrimonio netto di una società azionaria, ne' con il generale divieto dei patti leonini, richiamato dalla difesa di parte ricorrente. La speciale natura della riserva costituita a norma della legge n. 218 del 1990 (e dell'ulteriore legislazione che ne è conseguita) era destinata a risultare dal bilancio, soggetto a pubblicità, onde lo speciale vincolo di destinazione che si è visto inerire a detta riserva era ben percepibile anche da parte dei terzi. H riferimento al divieto dei patti leonini, espresso con valenza generale dall'art. 2265 c.c., non appare pertinente, giacché quel divieto colpisce inammissibili sperequazioni nella sopportazione del rischio tra gli azionisti, ma non può in alcun modo riflettersi sulla posizione di chi, per avere effettuato un versamento destinato a renderlo titolare di azioni non prima che intervenga un futuro aumento del capitale, solo in seguito diverrà azionista e parteciperà al rischio ed all'eventuale funzione degli utili inerente a dette azioni.
2. Il secondo motivo di ricorso propone una questione diversa: quella della legittimità di una riduzione per perdite del capitale sociale, deliberata ai sensi dell'art. 2446 c.c., che implichi un riporto a nuovo di una piccola percentuale delle perdite e, quindi, non possa dirsi propriamente "proporzionale alle perdite accertate", come detta norma richiede.
2.1. La corte d'appello ha ritenuto che, trattandosi della mancata copertura di una frazione assai modesta delle perdite (lo 0,026%), giustificata dall'esigenza di accorpare le preesistenti azioni di risparmio con quelle di nuova emissione in modo da rispettare il dettato dell'art. 15, ult. comma, della legge n. 216 del 1974, nessuna illegittimità sia riscontrabile nella deliberazione in discorso.
Ma non così la pensa la ricorrente, la quale insiste nel sostenere che quella deliberazione era illegittima - e che quindi l'impugnata sentenza è viziata da un errore di diritto (oltre che da difetti di motivazione) - in quanto l'ammontare della perdita non coperta era comunque di per sè rilevante e l'esigenza di assicurare il pari valore nominale delle azioni avrebbe potuto essere soddisfatta ugualmente rinunciando ad attribuire a dette azioni un valore "tondo".
Al che la difesa del banco controricorrente ha replicato facendo notare come, atteso il numero di azioni di risparmio di cui si trattava, una riduzione del capitale perfettamente proporzionale alle perdite accertate avrebbe comportato - ma inammissibilmente - l'emissione di azioni con indicazione di valore nominale approssimato ai centesimi di lira.
2.2. In linea generale si deve senz'altro consentire col principio, chiaramente desumibile dal citato art. 2446 c.c., secondo cui l'assemblea è tenuta a deliberare la riduzione del capitale per perdite in proporzione delle perdite accertate; e ciò sia nel senso che non può ritenersi consentita una riduzione che superi l'ammontare di queste, potendosi altrimenti risolvere la riduzione in un'indebita espropriazione dei soci, privati del valore delle azioni corrispondenti al capitale residuo (in tal senso Cass. 13 febbraio 1969 n. 484), sia nel senso che la riduzione non può essere commisurata soltanto ad una frazione delle perdite, giacché ciò ne consentirebbe il trascinamento nel tempo ben oltre il limite temporale dell'esercizio successivo, l'espressamente indicato dalla menzionata disposizione del codice.
In conformità all'orientamento espresso dalla prevalente dottrina, si deve però anche convenire sulla possibilità di apportare una limitata deroga al suindicato principio nel caso in cui, occorrendo anche procedere al raggruppamento o al frazionamento di azioni, l'applicazione rigorosa della regola di riduzione del capitale in proporzione alle perdite farebbe emergere resti non suscettibili di attribuzione. E tale è, appunto, il caso in esame, che ricade nella previsione dello (all'epoca ancora in vigore) art. 15, ult. comma, della legge n. 216 del 1974, a tenore del quale "le deliberazioni relative alla riduzione e alla reintegrazione del capitale debbono assicurare, mediante i necessari raggruppamenti o frazionamenti, la parità di valore "nominale delle azioni". Nei limiti in cui, dunque, il riporto a nuovo delle perdite sia imposto dall'esigenza contabile sopra richiamata, e purché sia circoscritto a quanto indispensabile per il soddisfacimento di tale esigenza, esso deve reputarsi consentito.
Nella specie, come s'è detto, la ricorrente sostiene che quell'esigenza in realtà non sussisteva, giacché sarebbe stato ugualmente possibile assicurare la parità di valore delle azioni di risparmio, all'esito delle programmate operazioni sul capitale, sol che si fosse loro attribuito un valore non "tondo". Ma appare persuasiva l'obiezione formulata al riguardo dalla difesa di parte controricorrente, la quale fa notare come non fosse all'epoca possibile assegnare alle azioni un valore approssimato ai centesimi di lira, che non avevano corso legale. Nè, per il resto, a fronte dell'accertamento operato in punto di fatto dal giudice di merito, potrebbe questa corte procedere direttamente essa stessa ad un'analisi dei documenti di causa al fine di verificare se davvero sussistessero alternative contabili idonee a consentire, nel medesimo tempo, sia il rispetto della citata disposizione della legge n. 216 sia la copertura rigorosamente integrale delle perdite. Alla stregua di tali considerazioni, anche il secondo motivo di ricorso va quindi disatteso.
3. L'interrogativo sollevato dal terzo motivo di ricorso riguarda l'intervallo temporale che deve intercorrere tra la data di riferimento della situazione patrimoniale sottoposta dagli amministratori all'assemblea a norma dell'art. 2446 c.c., al fine di adottare i provvedimenti conseguenti alla perdita di oltre un terzo del capitale sociale, e la data in cui l'assemblea è convocata per deliberare in proposito.
3.1. La corte d'appello, premesso che l'articolo citato non contiene alcuna disposizione specifica sul punto, limitandosi ad indicare che l'assemblea deve essere convocata "senza indugio", ha stimato che l'intervallo di quattro mesi nel caso di specie non eccedesse i limiti del consentito, tenuto anche conto di altre norme del medesimo codice che ad un tale intervallo si riferiscono per fattispecie analoghe (l'art. 2364, comma 2, in tema di approvazione del bilancio annuale, e l'art. 2501-ter, in tema di procedimento di fusione), nonché del fatto che nessuna prova era stata offerta dell'eventuale emersione di maggiori perdite in epoca successiva a quella indicata nella situazione patrimoniale sottoposta all'assemblea. La ricorrente censura tale conclusione, poiché sostiene che essa non sarebbe adeguatamente motivata ed implicherebbe la violazione del citato art. 2446. La corte territoriale non avrebbe dato infatti adeguato peso all'esigenza di fornire ai soci un'informazione il più possibile aggiornata, così da consentire l'adozione di provvedimenti corrispondenti all'ammontare attuale delle perdite, ed avrebbe trascurato di considerare come le documentate risultanze del bilancio relativo all'esercizio 1996, da cui erano emerse altre assai cospicue perdite, rendevano palese che già nel momento in cui l'assemblea era stata chiamata a deliberare sulla situazione patrimoniale riferita al 31 marzo la società aveva accumulato perdite ben maggiori di quelle ivi denunciate.
3.2. La censura non è condivisibile.
La norma dell'art. 2446 c.c. - che prevede l'obbligo degli amministratori di sottoporre senza indugio all'assemblea una relazione sulla situazione patrimoniale della società, con le osservazioni del collegio sindacale, nonché il deposito di tali atti nella sede della società per gli otto giorni antecedenti l'assemblea - trova la sua ratio nel principio secondo cui l'assemblea, ai fini di una regolare formazione della volontà sociale, in una materia che attiene alla vita stessa della società, dev'essere dettagliatamente ed adeguatamente informata sulla reale situazione patrimoniale della società medesima (si veda Cass. 13 febbraio 1969, n. 484, cit.). Discende da ciò che la relazione, in cui va esposta la situazione patrimoniale della società con i medesimi crismi di chiarezza, correttezza e veridicità imposti per il bilancio d'esercizio dagli artt. 2423 e segg. c.c. (si vedano Cass. 5 maggio 1995, n. 4923, e Cass. 23 marzo 2004, n. 5740), dev'essere il più possibile aggiornata. Si è già ricordato, però, che il legislatore non ha inteso fissare uno specifico termine a tal riguardo. Il grado di aggiornamento richiesto sarà dunque di volta in volta da valutare in relazione a ciascun caso concreto, tenendo conto almeno di due possibili varianti: la dimensione della società e la conseguente complessità dei rilevamenti contabili che la riguardano, in primo luogo, ed, in secondo luogo, l'esistenza di eventuali fatti sopravvenuti idonei a far fondatamente supporre che la situazione patrimoniale, rispetto alla data di riferimento della relazione degli amministratori, possa essere mutata nel frattempo in modo significativo. Ed è appena il caso di aggiungere che si tratta di valutazioni rimesse al giudice di merito, suscettibili di esser portate al successivo esame della cassazione solo per eventuali vizi di motivazione a norma dell'art. 360, n. 5, c.p.c. (cfr. Cass. 4 maggio 1994, n. 4326).
Ciò premesso, non può dirsi che la valutazione operata nel caso di specie dalla corte napoletana sia incongrua o inadeguatamente motivata, ne' da parte ricorrente si deducono elementi di carattere decisivo che l'impugnata sentenza avrebbe trascurato di prendere in esame. Al di là del generico richiamo alla necessità di disporre di una situazione patrimoniale quanto più possibile aggiornata, nessuna specifica censura viene addotta a confutazione degli argomenti logici in base ai quali, facendo anche leva su quanto disposto per analoghe esigenze informative dei soci da altre norme dell'ordinamento, la corte territoriale si è persuasa che non fosse eccessivo l'intervallo di quattro mesi tra la data della situazione patrimoniale e la deliberazione dell'assemblea. Potrebbe aggiungersi - e sarebbe invero argomento di non poco rilievo - che la già ricordata normativa speciale concernente il risanamento del Banco di Napoli aveva espressamente previsto che gli interventi finanziari del Ministero del tesoro fossero condizionati "all'accertamento, entro il 30 giugno 1996, della situazione patrimoniale del medesimo Banco di Napoli alla data del 31 marzo 1996 ed ai relativi provvedimenti di adeguamento del capitale sociale", nonché "alla deliberazione, entro il 30 giugno 1996, da parte degli organi amministrativi del Banco, di un idoneo piano di ristrutturazione...da sottoporre all'approvazione della Banca d'Italia" (art. 3, comma 1, del citato di n. 163 del 1996). Il che palesemente sta ad indicare come il medesimo legislatore avesse stimato necessario un tempo di almeno tre mesi perché gli amministratori potessero svolgere gli accertamenti patrimoniali di loro competenza, e come, di conseguenza, tenuto conto dei tempi di convocazione dell'assemblea di una società bancaria quotata in borsa, la fissazione al 30 luglio della data di convocazione dell'assemblea chiamata ad approvare la situazione patrimoniale riferita al 31 marzo non potesse nella specie considerasi frutto di un atteggiamento illegittimamente dilatorio. L'ulteriore argomento critico, secondo cui si sarebbe nondimeno dovuto tener conto delle ulteriori perdite frattanto sopravvenute, non può trovare ascolto in questa sede. La corte di merito ha escluso che di tali ipotizzate ulteriori perdite fosse stata offerta in causa una qualche prova, ed il richiamo operato dalla ricorrente ai negativi risultati del bilancio d'esercizio chiuso alla fine dell'anno 1996 non è idoneo a scalfire tale valutazione: perché nulla consente di affermare che quei negativi risultati fossero riferibili alla frazione di anno che qui interessa, o che fossero comunque già in quel momento rilevabili.
4. Il quarto motivo di ricorso attiene alla formulazione dell'avviso di convocazione dell'assemblea che ebbe ad assumere le deliberazioni delle quali si discute.
4.1. La corte d'appello, disattendendo le doglianze del socio impugnante, ha reputato che l'ordine del giorno riportato nell'avviso di convocazione ("situazione patrimoniale del Banco di Napoli al 31 marzo 1996 - consequenziali provvedimenti, ai sensi degli artt. 2446 c.c. e del d.l. 27 maggio 1996, n. 293 - conseguenti modifiche statutarie") fosse sufficientemente chiaro e dettagliato ed assolvesse quindi compiutamente alla sua funzione d'informazione preventiva dei soci.
La ricorrente non ne è però persuasa e, richiamandosi alla previsione dell'art. 2366 c.c., insiste nel sostenere che il mero riferimento a disposizioni di legge ed a modifiche statutarie, non meglio precisate, non basta ad assicurare il necessario grado di specificità dell'ordine del giorno. Aggiunge anzi che quell'ordine del giorno era ingannevole, perché non poneva in evidenza il fatto che la perdita di capitale aveva ormai posto la società in condizione di scioglimento, onde ciò su cui l'assemblea era chiamata a deliberare era appunto l'alternativa tra la presa d'atto di una simile situazione, con la conseguente nomina di un liquidatore, oppure la realizzazione di una complessa e costosa operazione di ricapitalizzazione. Ma nulla di tutto questo si sarebbe potuto dedurre dal sintetico ordine del giorno.
4.2. Neppure tale doglianza appare fondata.
In argomento si deve senz'altro ribadire che l'indicazione, nell'avviso di convocazione dell'assemblea dei soci, dell'elenco delle materie da trattare ha la duplice funzione di rendere edotti i soci circa gli argomenti sui quali essi dovranno deliberare, per consentire la loro partecipazione all'assemblea con la necessaria preparazione ed informazione, e di evitare che sia sorpresa la buona fede degli assenti a seguito di deliberazione su materie non incluse nell'ordine del giorno. A tal fine, non però è necessaria un'indicazione particolareggiata delle materie da trattare, ma è sufficiente un'indicazione sintetica, purché chiara e non ambigua, specifica e non generica, la quale consenta la discussione e l'adozione da parte dell'assemblea dei soci anche delle eventuali deliberazioni consequenziali ed accessorie (cfr. tre le altre, Cass. 16 marzo 1990, n. 2198).
Anche a questo riguardo, peraltro, occorre subito aggiungere che la traduzione in atto di tali principi, implicando inevitabilmente una valutazione da compiere caso per caso e da rapportare alla specificità di ogni situazione, si radica profondamente nel giudizio di merito. Pertanto, salvo che il giudice di merito non abbia decisamente inteso discostarsi da essi, così violando o male applicando la norma, o che non abbia motivato in modo manchevole o contraddittorio il proprio convincimento, quella valutazione sfugge al sindacato di legittimità.
Nel caso in esame, la corte d'appello non ha in alcun modo inteso discostarsi dal principio di diritto sopra ricordato, ma ha reputato che il contenuto delle informazioni trasmesse con l'avviso di convocazione fosse tale da consentire quella partecipazione informata e consapevole dei soci all'assemblea che il primo comma dell'art. 2366 c.c. mira a tutelare. E tale valutazione ha formulato motivatamente, argomentando in particolare dal richiamo operato nell'ordine del giorno al d.l. n. 293 del 1996, ossia ad un provvedimento legislativo specificamente riferito al risanamento patrimoniale del Banco di Napoli e nel quale erano già prefigurate le modalità di tale risanamento su cui l'assemblea avrebbe dovuto pronunciarsi. La contraria opinione manifesta sul punto dalla ricorrente non è, di per sè sola, idonea ad evidenziare insufficienze o difetti logici della motivazione, dovendosi anche escludere - come si avrà modo di precisare nel successivo esame del sesto motivo di ricorso - che l'assemblea dovesse in concreto davvero confrontarsi con la prospettiva di un'eventuale liquidazione della società bancaria.
5. Oggetto del quinto motivo di ricorso è il tema del conflitto d'interesse in cui si sarebbe venuto a trovare il socio pubblico e dell'abuso di potere che detto socio avrebbe perpetrato contribuendo col proprio voto determinante ad una deliberazione volta a fargli conseguire la pressoché integrale titolarità del capitale sociale. 5.1. La corte d'appello, nell'impugnata sentenza, ha escluso la configurabilità nella specie tanto dell'una quanto dell'altra figura. Ha infatti osservato: che nel caso in esame difettava il presupposto della discrezionalità del comportamento tenuto dal rappresentante del Ministero del tesoro in assemblea, giacché tale comportamento era invece già predeterminato dalla legislazione speciale sopra ricordata; che di nessun abuso i soci privati potevano dirsi vittime, essendo stato pienamente rispettato il loro diritto di opzione (che l'appellante aveva liberamente scelto di non esercitare); che l'interesse del Ministero del tesoro a ricapitalizzare la società era congruente, e non certo in conflitto, con quello della società medesima.
La ricorrente, tuttavia, insiste nel sostenere l'esistenza dei denunciati vizi, definendo lacunose ed incerte le motivazioni dianzi riferite.
5.2. Il motivo di ricorso così prospettato appare, però, infondato e, per alcuni aspetti, inammissibile.
Esso, infatti, sostanzialmente si risolve nella riproposizione di tesi ed argomentazioni già avanzate nel precedente grado di giudizio, sulle quali la corte territoriale si è già motivatamente espressa. Avrebbe dovuto la ricorrente, allora, sottoporre a critica le ragioni per le quali quel giudice si è pronunciato in senso sfavorevole alla ricorrente medesima. Ma ciò ella non fa, limitandosi a definire lacunose ed incerte dette ragioni, senza però in alcun modo confrontarsi con esse. Nel che, appunto, si manifesta il profilo d'inammissibilità della doglianza, non essendo l'impugnazione per Cassazione rivolta a provocare una rinnovazione del giudizio, bensì ad individuare eventuali vizi logici o giuridici della sentenza impugnata.
È bensì vero che la denuncia di siffatti vizi potrebbe, per alcuni aspetti, ritenersi implicita nel fatto che già nel primo motivo la ricorrente aveva contestato l'interpretazione della normativa speciale dalla cui vincolatività la corte d'appello ha desunto l'infondatezza degli addebiti mossi al comportamento assembleare del socio pubblico. Ma è sufficiente rinviare a quanto prima osservato proprio con riguardo al primo motivo di ricorso per comprendere come, sotto questo profilo, anche il quinto motivo sia da ritenersi privo di fondamento.
6. Il sesto motivo di ricorso si riferisce ai criteri con i quali è stata redatta la situazione patrimoniale sottoposta all'esame dell'assemblea, sulla scorta della quale si è proceduto alle già descritte operazioni sul capitale. L'attenzione della ricorrente si sofferma, in particolare, sulla mancata iscrizione, in detta situazione patrimoniale, del valore di avviamento dell'azienda bancaria, la cui registrazione avrebbe implicato un risultato assai diverso.
6.1. Anche tale questione ha naturalmente già formato oggetto di esame in sede di merito, e la corte territoriale ha opinato che correttamente l'avviamento non fosse stato inserito nella situazione patrimoniale anzidetta, non trattandosi di avviamento acquistato a titolo oneroso (bensì "autoprodotto") e dovendo perciò trovare applicazione quanto al riguardo prevede, in tema di redazione del bilancio di esercizio, l'art. 2426, n. 6, c.c..
La ricorrente non è d'accordo ed insiste nel sostenere che, viceversa, la particolare situazione in cui versava il Banco di Napoli e le specifiche finalità cui era diretta la situazione patrimoniale in discorso avrebbero reso necessario evidenziare il suindicato valore di avviamento.
6.2. L'opinione della ricorrente non può esser condivisa. Le operazioni sul capitale di una società per azioni rese necessarie da perdite rilevanti a norma del più volte citato art. 2446 presuppongono che tali perdite siano accertate in base ad una situazione patrimoniale che, come già sopra s'è accennato, va redatta nel rispetto delle regole dettate dal legislatore per il bilancio d'esercizio. Il principio di continuità dei bilanci e l'ovvio riflesso che le operazioni sul capitale sono destinate ad avere sul bilancio dell'esercizio successivo non consentono dubbi al riguardo, ne' del resto la stessa configurazione delle perdite di capitale, che costituiscono il presupposto delle anzidette operazioni, potrebbe immaginarsi se non per effetto dell'applicazione delle ordinarie regole di contabilità, di cui quelle sulla redazione del bilancio sono parte integrante.
La disposizione, di evidente ispirazione prudenziale, per la quale nella redazione del bilancio di una società per azioni non è consentito iscrivere all'attivo un valore di avviamento se non lo si sia acquistato a titolo oneroso (art. 2426, n. 6, c.c.) è perciò naturalmente destinata a trovare applicazione anche nella redazione della situazione patrimoniale richiesta dall'art. 2446 c.c.. Nè a diversa conclusione può guidare la circostanza che, applicando tale criterio, la società si trovi ad aver perduto il proprio capitale, laddove l'ipotizzata valorizzazione dell'avviamento potrebbe viceversa smentire (o contenere) tale perdita. È principio acquisito, infatti, che la deroga ai criteri legali di redazione del bilancio (e dunque, di riflesso, della situazione patrimoniale ex art. 2446) è si consentita dal quarto comma dell'art. 2423 c.c., ma solo in quanto ci si trovi in presenza di eventi eccezionali ed obiettivamente riferibili non già alla società, bensì ai beni oggetto di iscrizione in bilancio; non anche, quindi, per mere esigenze di copertura delle perdite di esercizio (cfr. in tal senso, tra le altre, Cass. 8 febbraio 2005, n. 2538; e Cass. 7 luglio 2000, n. 9068).
Che poi, nella specie, la peculiare situazione in cui si trovava il Banco di Napoli avrebbe dovuto indurre ad applicare non le regole di redazione del bilancio d'esercizio bensì quelle di un bilancio di liquidazione è affermazione che non può essere in alcun modo condivisa. Non può esserlo in termini generali, perché implicherebbe lo scardinamento dei principi sopra ricordati in tutti i casi nei quali la perdita del capitale sociale raggiunga i limiti indicati dall'art. 2447 c.c., norma che va invece letta in coerenza con quella del precedente art. 2446, sicché anche in una siffatta evenienza la situazione patrimoniale da sottoporre all'assemblea va certamente redatta secondo i criteri legali del bilancio d'esercizio;
e tanto meno può esser condivisa nella specifica ipotesi qui considerata, in relazione alla quale l'art. 3, comma 3, del citato d.l. n. 163 del 1996 (reiterato nel successivo d.l. n. 293 del 1996) aveva espressamente sospeso gli effetti degli artt. 2447 e 2448, comma 1, n. 4, c.c., proprio all'evidente scopo di escludere nell'immediato ogni eventuale prospettiva liquidatoria del Banco di Napoli.
7. L'ultimo motivo di ricorso concerne l'asserita violazione, ad opera della normativa speciale cui dianzi si è fatto ripetuto riferimento, dell'art. 92 del Trattato istitutivo della Comunità europea, nonché l'interesse a far valere siffatta violazione. 7.1. La corte d'appello, nel disattendere il motivo di gravame formulato a tale riguardo, ha sviluppato due distinte argomentazioni. Prima di tutto ha osservato che il 29 luglio 1998 la Commissione europea si è espressamente pronunciata in proposito e, con decisione da ritenersi vincolante per il giudice nazionale, pur ravvisando nelle misure normative in esame degli aiuti di Stato, li ha reputati compatibili con il mercato comune, perché rientranti in una delle deroghe previste dall'art. 92, paragrafo 3, del Trattato. In secondo luogo, la medesima corte ha considerato che l'appellante (ed odierna ricorrente) difetterebbe comunque di un idoneo interesse a far valere l'asserita nullità della deliberazione impugnata per violazione di norme comunitarie, giacché il venir meno degli aiuti di Stato avrebbe il solo effetto di aggravare le conseguenze della perdita di capitale della società di cui l'appellante è socia.
La ricorrente contesta entrambe tali argomentazioni. La prima, perché non sarebbe esatto che la riferita decisione della Commissione europea è vincolante per il giudice nazionale, trattandosi, per di più, di una decisione che non avrebbe tenuto conto del complesso procedimento in cui nel caso in esame l'intervento dello Stato si è materializzato e dell'effettiva portata di esso. La seconda, perché la corte d'appello, oltre a trascurare l'interesse del socio alla certezza dei rapporti giuridici facenti capo alla società, non avrebbe considerato che il venir meno degli aiuti di Stato e la conseguente mancata ricapitalizzazione del Banco di Napoli avrebbe aperto la strada alla liquidazione della società ed avrebbe perciò consentito al socio di recuperare il valore pieno della sua partecipazione, comprensivo del valore dell'avviamento.
7.2. Neppure questa volta la censura coglie nel segno. Già in precedenti occasioni questa corte ha avuto modo di precisare che le decisioni adottate dalla Commissione delle comunità europee, nell'ambito delle funzioni conferitele dal Trattato Ce, ai sensi dell'art. 211 (ex art. 155), sull'attuazione e lo sviluppo della politica della concorrenza nell'interesse comunitario, ai sensi degli art. 88 e 87 (ex art. 93 e 92) dello stesso trattato, ancorché prive dei requisiti della generalità e dell'astrattezza, costituiscono fonte di produzione di diritto comunitario, anche con specifico riguardo alla materia degli aiuti di stato, e quindi vincolano il giudice nazionale nell'ambito dei giudizi portati alla sua cognizione (Cass. 4 marzo 2005, n. 4769; e Cass. 10 dicembre 2002, n. 17564). È vero che nei casi esaminati in dette sentenze si trattava di decisioni nelle quali la Commissione ha ravvisato la denunciata violazione, tali cioè da comportare la disapplicazione di norme nazionali in contrasto con le prescrizioni del Trattato; ma il principio di vincolatività per il giudice nazionale ivi affermato è applicabile anche al presente caso, in cui viceversa la Commissione ha escluso che quel contrasto vi fosse, dovendosi ribadire che si verte in una materia che rientra nella competenza esclusiva della medesima Commissione (cfr. anche, in tal senso, le pronunce della Corte di Giustizia 21 novembre 1991, C-354/90, ed 11 luglio 1996, C- 39/94), onde neppure è consentito al giudice nazionale, nell'ambito di un rinvio pregiudiziale ex art. 234 del Trattato, interrogare la Corte di Giustizia sulla compatibilità con il mercato comune di un aiuto di Stato o di un regime di aiuti (Corte di Giustizia 24 luglio 2003, C-297/01). Nè va taciuto che la questione non potrebbe comunque esser posta nei termini astratti in cui il ricorso la mette, limitandosi cioè a contestare che la decisione della Commissione vincoli il giudice nazionale e ad affermarne la non condivisibilità, ma senza addurre alcun argomento specifico che valga a dimostrare perché quella decisione - ormai fatta propria anche dalla corte d'appello - fosse, in concreto, sbagliata e da disattendere. Non può questa corte tener conto dell'ulteriore censura concernente la violazione che si sarebbe avuta, nel presente caso, del cosiddetto obbligo di standstill, ossia dell'obbligo, posto dall'ultimo paragrafo dell'art. 88 (ex 93) del Trattato, di non dare concretamente corso all'intervento dello Stato prima che la Commissione di sia pronunciata. Si tratta infatti di una censura espressa solo nella memoria depositata dalla ricorrente a norma dell'art. 378 c.p.c. (e reiterata nelle note d'udienza in replica al pubblico ministero), il cui contenuto è però ulteriore e diverso rispetto a quanto forma oggetto del motivo di ricorso, unicamente volto - come s'è detto - a contestare che la decisione della Commissione sia vincolante per il giudice nazionale ed a ribadire l'interesse della ricorrente a far valere l'asserita violazione delle regole comunitarie in tema di aiuti di Stato. Ma le memorie di cui al citato 378 possono esser destinate esclusivamente ad illustrare ed a chiarire i motivi dell'impugnazione, o a confutare le tesi avversarie, non invece a dedurre nuove censure, a sollevare questioni nuove (che non siano rilevabili d'ufficio), ne' comunque ad ampliare il contenuto dei motivi originari di ricorso (cfr., ex multis, Cass. 7 luglio 2003, n. 10683).
Resta in ciò assorbita ogni considerazione in tema di interesse della ricorrente a denunciare la pretesa violazione del divieto di aiuti di Stato, trattandosi di un argomento cui l'impugnata sentenza si è riferita solo di rincalzo, avendo comunque prima già escluso che quella denuncia fosse fondata e potesse condurre all'accoglimento delle domande proposte dall'appellante.
8. Il ricorso, dunque, deve essere rigettato.
La complessità delle questioni trattate e la novità di molte di esse suggeriscono tuttavia di compensare tra le parti le spese del giudizio di legittimità.
P.Q.M.
La corte rigetta il ricorso e compensa tra le parti le spese del giudizio di legittimità.
Così deciso, in Roma, il 12 ottobre 2005.
Depositato in Cancelleria il 17 novembre 2005