Diritto Fallimentare


Il Caso.it, Sez. Giurisprudenza, 382 - pubb. 01/01/2007

Nuova revocatoria e interpretazione autentica

Tribunale Mantova, 09 Febbraio 2006. Est. Bettini.


Revocatoria fallimentare – Modifiche introdotte dalla l. 80/2005 – Norma di interpretazione autentica – Esclusione.



Non può riconoscersi alla legge 80/05 natura di legge di interpretazione autentica in relazione al disposto di cui all’art. 67 l.f. sia perché il legislatore non l’ha qualificata in tal modo sia in considerazione della diversità di disciplina fra le due norme, circostanza questa che appare particolarmente evidente in tema di revocatoria delle rimesse in conto corrente. (Franco Benassi) (riproduzione riservata)


 


omissis 

 

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

 

Con atto di citazione ritualmente notificato la curatela fallimentare della B. s.p.a. in liquidazione, in persona del curatore fallimentare, conveniva in giudizio la Banca Popolare Jonica s.p.a., in persona del legale rappresentante pro tempore, chiedendo che fossero revocate tutte le rimesse aventi natura solutoria affluite sui conti correnti n. 101114, n. 120105, n. 120104 e n. 120086 aperti dalla B. s.p.a. presso la filiale di Taranto della banca convenuta nel periodo dal 16/11/94 al 16/11/95 per complessive £. 7.218.242.848.

Sotto il profilo oggettivo affermava la curatela attrice che i pagamenti indicati erano stati eseguiti nell’anno anteriore alla data di ammissione della società fallita alla procedura di amministrazione controllata e che erano tutti affluiti su conti correnti scoperti, integrando così altrettanti pagamenti a favore della banca per i relativi importi.

A nessuno dei conti correnti risultava accedere un contratto di apertura di credito avente data certa anteriore alla dichiarazione di fallimento, e dunque opponibile alla curatela fallimentare, nei limite del quale considerare le singole rimesse un semplice ripristino di disponibilità della somma messa a disposizione della banca e non veri e propri pagamenti a suo favore, prova – quella dell’esistenza di eventuali affidamenti – di cui era comunque onerato l’istituto di credito convenuto.

Sotto il profilo soggettivo affermava che la banca convenuta era a conoscenza dello stato di insolvenza della società poi fallita, circostanza che risultava da molteplici e convergenti indizi.

Anzitutto le notizie di stampa di quel periodo evidenziavano le tensioni finanziarie del gruppo B., di cui la B. s.p.a. faceva parte, e segnatamente di Interklim s.r.l. nei confronti della quale erano stati emessi ben 847 decreti ingiuntivi.

Numerose erano inoltre le revoche degli affidamenti dei conti correnti di B. s.p.a. che la banca convenuta non poteva non conoscere, visto l’accesso alle informazioni della centrale rischi della Banca d’Italia.

Ed ancora nel febbraio del 1993 era stato arrestato il dott. A. B., amministratore delegato della B. s.p.a., nell’ambito dell’inchiesta giudiziaria più comunemente nota come “Mani pulite” e già dall’anno precedente, nel 1992, l’intero ceto bancario aveva iniziato a richiedere garanzie ipotecarie per la concessione dei crediti, garanzie mai richieste prima di allora.

Nel corso del 1995 la situazione finanziaria di B. s.p.a. e dell’intero gruppo era poi progressivamente peggiorata, tanto che la società convenuta si era trovata a pagare le retribuzioni dei dipendenti in ritardo per diversi mesi.

Infine dall’analisi dei bilanci della società e di quelli consolidati del gruppo, e segnatamente da una serie di indici - di disponibilità, di garanzia dei debiti a medio e lungo termine e di indebitamento - emergeva con chiarezza la progressiva criticità delle condizioni finanziarie della B. s.p.a., circostanza che un operatore qualificato come un istituto di credito non poteva non rilevare come indizi di una crisi di liquidità progressivamente ingravescente.

Da tutti questi elementi complessivamente considerati non poteva che risultare la conoscenza dello stato di insolvenza della B. s.p.a. nel periodo considerato da parte della banca pugliese.

Da qui la richiesta di accoglimento delle domande svolte.

Si costituiva in giudizio la Banca Antoniana Popolare Veneta società cooperativa per azioni a responsabilità limitata chiedendo il rigetto della domanda perché infondata in fatto ed in diritto.

Affermava anzitutto di essere succeduta alla Banca Popolare Jonica s.p.a., in seguito a fusione per incorporazione in quest’ultima.

Eccepiva in via pregiudiziale la nullità dell’atto di citazione per essere indeterminato il petitum, non avendo indicato le rimesse revocabili.

Nel merito, affermava che la curatela fallimentare sotto il profilo oggettivo non aveva in alcun modo distinto fra rimesse ed accreditamenti, le prime aventi sì natura solutoria mentre i secondi costituenti finanziamenti non revocabili perché utilizzati dalla società per la gestione dell’impresa.

Aggiungeva inoltre che, sotto il profilo soggettivo, nessun elemento poteva trarsi dalla crisi finanziaria di Interklim s.p.a. perché società diversa dalla B. s.p.a., benché appartenenti al medesimo gruppo, che nessun rilievo potevano avere gli articoli di stampa i quali nulla dicevano delle condizioni finanziarie di B. s.p.a., e che anzi il fatto che la banca avesse continuato a fare credito alla società poi fallita costituiva la prova della sua mancata conoscenza, poiché altrimenti non avrebbe finanziato una società che sapeva essere decotta.

Precisava comunque che le vicende della fusione per incorporazione della Banca Popolare Jonica s.p.a. nella Banca Antoniana Popolare Veneta società cooperativa per azioni a responsabilità limitata restavano irrilevanti a tal fine poiché lo stato soggettivo non poteva che essere riferito alla banca tarantina.

Per tutti questi motivi chiedeva il rigetto della domanda.

La causa era istruita sia documentalmente che a mezzo delle prove per testimoni richieste dalla curatela attrice ed ammesse nei limiti di cui all’ordinanza istruttoria del 21/3/03, all’esito delle quali era disposta una consulenza tecnica d’ufficio per individuare le rimesse compiute sui diversi conti correnti e per stabilire se dall’analisi dei bilanci della società poi fallita la banca avesse potuto desumere la sua reale condizione finanziaria; all’udienza del 18/10/05 la causa era rimessa in decisione, concedendo ad entrambe le parti i termini di cui all’art. 190 c.p.c.

MOTIVI DELLA DECISIONE

 

Deve anzitutto essere rigettata, in via pregiudiziale ed in senso non ostativo alla decisione sul merito, l’eccezione di nullità dell’atto di citazione.

A tale proposito lamenta la banca che la curatela indica nell’atto di citazione il valore complessivo delle rimesse revocabili sui diversi conti correnti, senza indicare le singole rimesse, cosicché la domanda avrebbe carattere essenzialmente esplorativo e, come tale, sarebbe inammissibile.

L’eccezione è infondata.

Da un attento esame dell’atto di citazione, emerge infatti come i due elementi costitutivi dell’azione svolta, petitum e causa petendi, siano chiaramente individuati.

Da un lato risulta che l’azione svolta è quella revocatoria fallimentare ex art. 67/1 R.D. n. 267/42, e dunque la ragione giuridica dell’inefficacia dei pagamenti compiuti sui conti correnti indicati e la loro conseguente restituzione alla curatela è costituita dalla lesione della par condicio creditorum per averli ricevuti in periodo sospetto con la consapevolezza dello stato di insolvenza in cui si trovava la B. s.p.a.

Dall’altro, quanto al petitum, sono esattamente indicati sia i conti correnti su cui le rimesse asseritamente revocabili sono affluite, sia il periodo in cui sono state effettuate, e cioè l’anno anteriore all’ammissione della società all’amministrazione controllata, sia ancora le singole rimesse revocabili, così come indicate analiticamente nei prospetti allegati all’atto di citazione quali documenti (e segnatamente i documenti n. 5, n. 6, n. 7 e n. 8, uno per ciascun conto corrente) da cui risulta la complessiva movimentazione dei conti e dunque i versamenti compiuti su di essi.

Nessuna incertezza può quindi ravvisarsi su quanto richiesto dalla curatela, alla luce di questa complessiva prospettazione, e dunque deve ritenersi possibile l’individuazione per relationem dell’oggetto della domanda, attesa l’idoneità di tale modalità a consentire un’adeguata difesa del soggetto evocato in giudizio (così fra le altre Cass. civ., I, n. 850/99).

L’eccezione di nullità non può che essere rigettata.

Quanto al merito – per chiarezza espositiva e coerenza logica di ragionamento – occorre distinguere fra l’elemento oggettivo e quello soggettivo.

 

L’elemento oggettivo: rimesse revocabili, loro natura solutoria ed onere della prova.

Il codice civile non disciplina espressamente alcun contratto di conto corrente bancario, ma solo operazioni bancarie in conto corrente agli artt. 1852 e seguenti, intese quali operazioni caratterizzate dalla particolare modalità della loro contabilizzazione.

La giurisprudenza della Suprema Corte si riferisce al conto corrente bancario di corrispondenza, intendendo con tale espressione un vero e proprio contratto cui dà il nome – appunto – di conto corrente di corrispondenza, intendendo con esso un unico contratto innominato misto, costituito da una pluralità di elementi riferibili a diversi negozi tipici.

In particolare il suo contenuto è costituito appunto dal sevizio di cassa garantito dalla banca al cliente (già Cass. civ., n. 3637/78); il versamento di somme da parte del correntista e la loro conservazione non rispondono ad un’autonoma funzione, ma assolvono al ruolo della somministrazione dei mezzi necessari per l’espletamento degli incarichi dati alla banca.

Ciò configura un vero e proprio mandato senza rappresentanza (Cass. civ. n. 5325/91) cui la banca è obbligata, tranne che per quegli incarichi che esulino dalle forme d’uso di utilizzazione delle disponibilità esistenti sul conto (Cass. civ., n. 2089/72).

Il conto corrente può poi essere assistito o meno da un’apertura di credito, contratto con cui la banca si obbliga a tenere a disposizione del correntista entro un certo limite.

Ai fini della revocabilità delle rimesse compiute sui conti correnti di corrispondenza, occorre quindi compiere un’ulteriore distinzione, che risulta centrale nella definizione della presente controversia: quella fra conto passivo e conto scoperto.

A fronte dell’esistenza di un contratto di apertura di credito che assista il conto corrente di corrispondenza, la Suprema Corte distingue a seconda che le rimesse sul conto corrente siano state compiute sul conto scoperto e nei limiti dello scoperto oppure siano state compiute su conto affidato e quindi il cliente non avesse utilizzato una somma di denaro superiore al limite massimo dell’ammontare dell’apertura di credito (già Cass. civ., n. 5413/82).

Nel primo caso la somma la rimessa ha natura di pagamento perché la somma prelevata oltre il limite del fido è immediatamente esigibile e quindi il versamento ha natura solutoria, nel secondo la rimessa ha solo la funzione di ripristinare la provvista di cui all’apertura di credito, proprio perché compiuta ancora nei limiti di essa.

Da tale complessiva impostazione deriva la revocabilità ex art. 67 R.D. n. 267/42 delle rimesse compiute sul conto scoperto e solo in quei limiti – e dunque oltre il fido – e la conseguente non revocabilità di quelle compiute entro il fido.

Quando il conto è scoperto o non è affidato le somme sono immediatamente esigibili da parte della banca.

In tali casi la banca che abbia eseguito ordini di pagamento di pagamento al di là dei fondi disponibili (Cass. civ., n. 741/99) o abbia provveduto all’accreditamento di un bonifico su un conto scoperto (Cass. civ., n. 12489/00) diviene creditrice verso il proprio cliente della corrispondente somma, immediatamente esigibile.

D’altra parte, al di là dei singoli casi concreti, il meccanismo può essere spiegato di regola con riferimento alle norme sul mandato, applicabili - come già detto - al contratto de quo.

Se la banca si atteggia quale mandataria del proprio cliente con riferimento alle diverse operazioni bancarie sul conto, essa è tenuta al loro compimento se il mandante, e cioè il cliente, le fornisce i mezzi per il loro compimento ex art. 1719 c.c., e cioè se sussiste la provvista. In caso contrario il mandatario può compierle ugualmente ma il mandante è tenuto all’immediato rimborso delle anticipazioni ex art. 1720 c.c.

Se poi non si ritiene applicabile alla singola operazione tale ultima norma - perché, ad esempio, il cliente preleva direttamente la somma dal conto corrente già scoperto, aumentando la sua esposizione debitoria, e nessun mandato può configurarsi - la somma è ugualmente esigibile immediatamente dallo stesso istituto di credito erogante, e dunque senza alcuna differenza pratica sulla sua disciplina rispetto a quella di cui all’art. 1720 c.c.

Sono questi i casi della cosiddetta tolleranza sullo scoperto bancario: la funzione principale del contratto di conto corrente è il servizio di cassa offerto dalla banca al cliente, nell’ambito del contratto, e tale servizio è senza dubbio agevolato anche dal suo espletamento allo scoperto, in assenza cioè della provvista, fatto che giustifica la condotta della banca in tali casi.

Poiché tali crediti sono immediatamente esigibili il versamento compiuto costituisce pagamento fatto alla banca di un credito liquido ed esigibile e, come tale, revocabile ex art. 67 R.D. n. 267/42.

È poi onere della curatela dare prova della natura solutoria delle rimesse che, peraltro, nel contratto di conto corrente a debito si presume: si tratta infatti di uno dei fatti costitutivi della domanda giudiziale; è invece onere della banca convenuta dare la prova dell’esistenza di un’eventuale apertura di credito, quale fatto impeditivo dei fatti costitutivi posti a base della medesima domanda giudiziale.

Nel caso di specie, per stabilire se i conti correnti erano o meno assistiti da aperture di credito, occorre distinguere fra i vari oggetto di controversia.

Il primo conto corrente, quello n. 101114, risulta concluso il 26/5/90 (documento n. 2 di parte convenuta).

Afferma la banca che sarebbe assistito da un’apertura di credito per £. 2.500.000.000. La prova di esso risulterebbe – a suo dire – dal libro fidi della banca, il cui estratto è stato prodotto in copia conforme convenuta (documento n. 1).

Contesta la curatela che l’estratto del libro fidi possa dare la prova del contratto, poiché trattandosi di contratto bancario la forma scritta della conclusione del contratto è prevista a pena di nullità e quindi la banca è onerata della relativa prova mediante contratto scritto avente data certa anteriore alla dichiarazione di fallimento, mentre nel caso di specie l’annotazione sul libro fidi, comunque insufficiente, sarebbe inoltre mancante di certezza nella data ex art. 2704 c.c.

La difesa è fondata.

Dall’esame del documento prodotto dalla banca convenuta risultano molteplici delibere della banca di aperture di credito su conti correnti della B. s.p.a.; una sola però risulta di ammontare pari a £. 2.500.000.000.

E tuttavia anche tale indicazione non fa riferimento al numero del conto corrente cui si riferisce, e dunque non v’è anzitutto alcuna prova che sia quella la delibera che la banca convenuta vorrebbe riferire al conto corrente oggetto di controversia.

Inoltre l’annotazione nel libro fidi di una banca degli estremi di un affidamento, con riferimento sia al limite dello scoperto sia alla delibera interna di concessione, anche se trova corrispondenza in una situazione di fatto caratterizzata dallo svolgimento di un conto passivo con adempimenti reiterati da parte della banca di ordini di pagamento del correntista - anche in assenza di provvista e nell’ambito dei limiti di rischio dalla stessa banca preventivamente valutati - non dimostra in sé la stipulazione, per fatti concludenti, di un contratto di apertura di credito in conto corrente, con obbligo della banca di eseguire operazioni di credito passive, poiché ciò può costituire una mera tolleranza da parte della banca, che ha la possibilità di controllare la situazione patrimoniale e finanziaria del correntista e fare immediato ricorso a forme sollecito di copertura e tutela (Cass. civ., I, n. 12947/92).

L’estratto del libro fidi dà quindi prova solo dell’avvenuta deliberazione della banca di concedere il fido al correntista cliente, non anche della conclusione del contratto.

Il contratto in parola, inoltre, deve rivestire la forma scritta a pena di nullità.

A tale proposito la banca non indica mai nelle sue difese la data della conclusione del contratto e, anche a tenere ferma la data del libro fidi, e cioè il 7/5/94 (comunque data della delibera, si ripete), essa è successiva a quella di entrata in vigore della L. n. 154/92 che all’art. 4 stabilisce la forma scritta a pena di nullità per i contratti bancari, oggi sostituita dal D.l.vo n. 385/93 che all’art. 117/1 ribadisce il medesimo onere di forma.

Né può invocarsi nel caso di specie la libertà della forma ex art. 3/3 L. n. 154/92, ora art. 117/2 D.l.vo n. 385/93, così come attuato dal decreto 24/4/92 del Ministro del Tesoro e dalla circolare 24/5/92 della Banca d’Italia (ora delibera CICR del 4/3/03).

Anzitutto anche dopo l’entrata in vigore del D.l.vo n. 385/93 tali norme regolamentari sono rimaste in vigore ex art. 161 del citato decreto legislativo, fino all’emanazione della citata delibera del CICR.

Esse, nel ribadire la regola generale secondo la quale i contratti relativi alle operazioni e ai servizi sono redatti per iscritto, prevedono che: “La forma scritta non è tuttavia obbligatoria: .... b) per operazioni e servizi già previsti in contratti redatti per iscritto”.

Ma proprio tale requisito difetta nel caso di specie. Proprio per evitare che il requisito di forma sia vanificato, le citate norme prevedono che il contenuto – sia pure sommario – di tali operazioni e servizi sia contenuto nel contratto scritto di conto corrente, a tutela della forma prevista.

Solo in tal caso può essere ammesso anche un contratto in forma verbale.

Nel caso di specie da un lato nessun contratto scritto di apertura di credito in conto corrente è stato prodotto dalla banca convenuta e, dall’altro, nessuna menzione di tale apertura di credito, indicata nei suoi elementi essenziali, è stata compiuta nel contratto di conto corrente.

Se inoltre la forma è quella scritta, a fronte della contestazione della banca sulla certezza della data della sua stipulazione, esso non si sottrae al regime dettato dall’art. 2704 c.c., nel caso in cui debba essere fatto valere nei confronti del terzo, e tale è nella revocatoria fallimentare il curatore, che agisce per conto della massa.

E nessuna data certa anteriore al fallimento reca non solo il contratto – inesistente – ma nemmeno il libro fidi citato.

L’annotazione della conformità all’originale attestata dal notaio è datata 10/1/02 ed attesta la vidimazione preventiva del Pretore il 25/11/93, che nulla può dire del momento in cui sono state compiute le singole annotazioni sul registro, proprio perché preventiva.

In buona sostanza l’unica prova scritta offerta dalla banca circa il contratto in questione è un’annotazione incompleta, essendo incerta la riferibilità al conto corrente in questione, compiuta su un libro fidi privo di data certa.

Non può certo dirsi che vi sia la prova dell’esistenza di un contratto di apertura di credito avente data certa anteriore al fallimento.

Ma analoghe considerazioni possono essere svolte anche con riferimento ai due contratti di conto corrente n. 120104 e n. 120105, o meglio alle asserite aperture di credito in conto corrente che la banca convenuta afferma esistenti per l’ammontare di £. 1.000.000.000 ciascuno.

I contratti di conto corrente sono stati prodotti dalla banca ed hanno data certa anteriore alla dichiarazione di fallimento della B. s.p.a., 1/6/95 per entrambi (documenti n. 8 e n. 11 di parte convenuta).

Ma anche i due estratti del libro fidi che dovrebbero riferirsi ad essi (documenti n. 9 e 12 di parte convenuta) sono privi di data certa e le annotazioni delle delibere riferite a B. s.p.a. per £. 1.000.000.000 non fanno alcun riferimento al numero del contratto di conto corrente, e dunque - anche a prescindere dall’assenza di certezza della data - non indicano a quali contratti si riferiscano.

Entrambi i contratti di conto corrente, peraltro, recano due diciture, una ciascuno, che recitano “Apertura di credito £. md. 1-c/c 120105/28-Contratto “Brown & Root Sluiskil Stand by” e “Apertura di credito £. md. 1-c/c 120104/27-Contratto “Fluor Daniel Houston”, facendo così riferimento ad un contratto di apertura di credito.

E tuttavia, per le considerazioni sopra svolte, non può ritenersi provata l’esistenza del relativo contratto.

Anzitutto la dicitura è stampata su un contratto di conto corrente di corrispondenza, e non un contratto di apertura di credito, cui la dicitura fa riferimento, senza che tale ultimo contratto sia stato prodotto in giudizio, fra l’altro con atto avente data certa anteriore alla dichiarazione di fallimento.

Entrambi i contratti di conto corrente, inoltre, alla clausola n. 6 fanno riferimento all’apertura di credito in modo solo eventuale nella regolazione del rapporto, segno inequivocabile che non disciplinano di per sé in alcun modo l’affidamento che resta solo eventuale.

E poiché i due contratti di conto corrente recano la data dell’1/6/05 anche i relativi affidamenti avrebbero dovuto rivestire la forma scritta a pena di nullità ex art. 117/1 D.l.vo n. 285/93.

Né possono infine ritenersi sussistenti i presupposti per la deroga al requisito della forma di cui alle norme regolamentari citate.

Di tali contratti è specificato solo l’ammontare complessivo, senza alcuna indicazione del momento in cui sarebbero stati conclusi, se pattuiti a tempo indeterminato o a termine e - in tal caso - fino a quando, con quale interesse debitore addebitabile al correntista.

In assenza di tutti questi elementi non può ritenersi che la loro mera indicazione sui due contratti di conto corrente di corrispondenza integri quella “previsione” di cui alla citata norma regolamentare che avrebbe esonerato le parti dall’onere di forma scritta a pena di nullità.

Poiché quindi gli eventuali contratti di apertura di credito - da concludersi in forma scritta a pena di nullità - non sono stati prodotti in giudizio, nemmeno di essi la banca convenuta ha dato adeguata prova.

Ciò deve infine ripetersi anche per il conto corrente n. 120086, il cui contratto non è stato nemmeno prodotto dalle parti, anche se è incontestata la sua esistenza e comunque desumibile dai relativi estratti conto.

Anche in tal caso, esclusa la sussistenza dei presupposti per la deroga all’onere di forma, nessun contratto di apertura di credito avente data certa anteriore alla dichiarazione di fallimento risulta agli atti del giudizio.

Né possono, conclusivamente sul punto, condividersi le osservazioni compiute dalla banca convenuta nella comparsa conclusionale sulla prova di tali contratti compiuti con l’estratto del libro fidi e con gli estratti dei conti correnti – oltre che con le diciture riportate sui due contratti di conto corrente – da cui emergerebbe la prova certa delle aperture di credito in conto corrente.

Quanto alle annotazioni sul libro fidi, s’è detto.

Gli estratti conto poi sono comunicazioni periodiche al correntista, non sono scritture contabili della banca, quantunque su queste ultime si fondino e dunque non può nemmeno essere invocato il principio dell’inscindibilità delle scritture contabili ex art. 2709 c.c. (Cass. civ., I, n. 17543/03).

D’altra parte la banca convenuta invoca a tale proposito un orientamento giurisprudenziale formatosi prima dell’entrata in vigore della L. n. 154/92 e D.l.vo n. 385/03 che ha onerato le parti della forma scritta ad substantiam di tali contratti, nei limiti di cui s’è detto, sottoponendoli dunque ai limiti di prova, nel processo civile, di cui all’art. 2725 c.c.

Se così è, nessuna valida apertura di credito opponibile alla curatela fallimentare assiste i conti correnti oggetto di giudizio.

 

Ancora l’elemento oggettivo: periodo sospetto, ammontare degli importi revocabili, saldo contabile, giroconti e partite bilanciate, causa delle singole rimesse.

Il periodo cosiddetto sospetto.

Secondo un autorevole orientamento giurisprudenziale che questo giudice ritiene di condividere, nel caso di consecuzione di procedure concorsuali il termine a ritroso per la revoca dei pagamenti compiuti dall’imprenditore decorre dalla data del provvedimento di ammissione alla prima procedura (anzitutto Corte Cost. n. 110/1995 ed ordinanze n. 224/95 e n. 12/97, oltre a Cass. civ., III, n. 7994/96 e Cass. civ., III, n. 5071/97).

Poiché la B. s.p.a. è stata ammessa all’amministrazione controllata con decreto del Tribunale di Mantova del 16/11/95, legittimamente sono state identificate le rimesse compiute nell’anno 16/11/94-15/11/95, né la circostanza è stata oggetto di alcuna contestazione fra le parti.

 

L’ammontare delle rimesse revocabili.

Alla luce della consulenza tecnica disposta risulta che per il periodo in cui le rimesse sono state analizzate, quelle revocabili ammontano complessivamente a £. 5.300.745.973 per il conto corrente n. 101114 e segnatamente di £. 150.000.000 del 16/11/94, £. 150.000.000 del 13/11/94, £. 200.000.000 del 22/12/94, £. 4.378.291 del 23/12/94, £. 2.060.539 del 23/12/94, £. 100.000.000 del 30/12/94, £. 100.000.000 del 5/1/95, £. 150.000.000 del 13/1/95, £. 2.018.597 del 23/1/95, £. 100.000.000 dell’1/2/95, £. 200.000.000 del 16/2/95 £. 100.000.000 del 2/3/95, £. 200.000.000 del 15/3/95, £. 1.595.790.000 del 31/3/95, £. 150.000.000 del 7/4/95, £. 200.000.000 del 20/4/95, £. 5.115.238 del 27/4/94, £. 1.693.701 del 27/4/95, £. 100.000.000 del 2/5/95, £. 200.000.000 dell’11/5/95, £. 150.000.000 del 18/5/95, £. 100.000.000 del 10/7/95, £. 168.180.865 del 12/7/95, £. 2.945.841 del 13/7/95, £. 240.000.000 del 19/7/95, £. 116.450.000 del 16/8/95, £. 345.000.000 del 14/9/95, £. 265.000.000 del 18/9/95, £. 2.112.901 del 7/11/95, £. 200.000.000 del 2/12/94.

Ammonta altresì a £. 556.982.289 sul conto corrente n. 120104, l’unica revocabile per tale importo del 23/10/95.

Nessuna rimessa risulta revocabile sul conto corrente n. 120105.

Nessuna rimessa risulta altresì revocabile sul conto corrente n. 120086.

Non può infatti essere revocata quella di £. 47.304.826 del 12/5/94 su tale conto corrente, pur se astrattamente revocabile, perché non indicata espressamente dalla curatela attrice nell’allegato all’atto di citazione.

È vero che, indicando i conti correnti ed il periodo entro il quale le rimesse sono state compiute, nelle conclusioni chiede la revoca di tutte le rimesse effettuate in quel periodo su quei conti, per un importo che determina in complessive £. 7.218.242.848, facendo salva una diversa quantificazione eventualmente risultante nel corso del giudizio.

Ma è anche vero che il petitum dell’azione non può che essere individuato proprio con riferimento alle singole rimesse asseritamente revocabili, così come individuate per relationem dalla stessa curatela. Se infatti proprio la loro specifica indicazione sottrae l’atto di citazione dalla censura di nullità per indeterminatezza del petitum, quest’ultimo deve ritenersi cristallizzato dalle rimesse espressamente indicate.

Se così è, non può ritenersi che la domanda comprenda anche quella non espressamente indicata ma comunque esistente su uno dei conti correnti indicati e compiuta nel periodo cosiddetto sospetto, non specificatamente indicata dalla curatela.

Le conclusioni come formulate in atto di citazione, e non modificate con la memoria ex art. 183/5 c.p.c., hanno infatti vincolato la curatela all’elenco delle rimesse ritenuto parte integrante della citazione stessa, senza possibilità all’esito del giudizio di allargare la domanda a tutte le rimesse compiute su quei conti correnti in quel periodo anche se non espressamente indicate, quale quella del caso di specie.

E così complessivamente le rimesse revocabili ammontano a complessive £. 5.857.728.262, pari ad €. 3.025.264,17.

D’altra parte gli accertamenti e le valutazioni compiute dal CTU appaiono immuni da vizi logici e coerentemente motivate, oltre che non infirmate da specifiche contestazioni contrarie delle parti, salvo quanto si dirà, e pertanto possono essere fatte proprie da questo giudice.

E tuttavia di alcune scelte da lui compiute appare necessario dare conto, per completezza di discorso.

 

Il saldo contabile.

La determinazione del momento in cui la singola rimessa è stata compiuta è stata determinata con riferimento al saldo disponibile, risultante dalla interpolazione del saldo contabile - per le operazioni a debito e per i versamenti in contanti ed i bonifici - e del saldo per valuta - per gli accrediti di titoli di terzi - fatta salva in tale ultimo caso l’eventuale prova dell’anteriorità dell’incasso rispetto alla valuta o comunque dell’anteriorità della disponibilità da parte del cliente (per tutte Cass. civ., n. 686/99 e Cass. civ., n. 462/98).

Circa i saldi infragiornalieri in assenza di prova fornita da parte della curatela fallimentare dello specifico ordine cronologico delle operazioni, devono essere calcolate prima tutte le rimesse a credito e poi quelle a debito, secondo il criterio più favorevole alla banca convenuta (Cass. civ., n. 10869/94).

Nel caso di specie comunque il consulente si è attenuto a tali criteri già indicati affidandogli le operazioni peritali e nessuna contestazione è stata svolta dalle parti.

 

Gli storni.

Lo storno contabile non è altro che il ripristino della situazione contabile appunto rispetto ad una determinata operazione compiuta per errore. Capita infatti che sul conto corrente – per i più diversi motivi – vengano annotati accrediti erroneamente, senza che sia stato compiuto alcun versamento, che poi vengono stornati appunto, perché relativi ad operazioni che - in realtà - il correntista o la banca non ha compiuto o comunque non avrebbe dovuto compiere.

In tal caso le due annotazioni (di accredito e di storno) si elidono e deve ritenersi che nessun pagamento sia stato compiuta dal correntista alla banca, non risultando in alcun modo ridotta la sua esposizione debitoria verso la banca.

L’operazione si risolve in due annotazioni contabili di segno opposto che nulla mutano del credito della banca verso il correntista.

È per tale motivo che le relative rimesse non devono essere revocate.

Dall’esame degli estratti conto emerge come l’11/5/95 risultino due accrediti sul conto corrente – astrattamente revocabili – poi stornati il 12/5/95, con valuta del giorno precedente, per un pari importo, e segnatamente di £. 38.819.000 e di £. 22.900.000. Legittimamente per i motivi detti non sono stati calcolati fra le rimesse revocabili.

Nessun altro storno risulta compiuto sugli altri conti correnti.

 

I giroconti.

Poiché ex art. 1853 c.c. è consentita la compensazione fra banca e correntista dei saldi attivi e passivi fra più contratti di conto corrente di corrispondenza, a fortiori le operazioni di mero giroconto di fondi fra un conto corrente ed un altro appartenenti al medesimo correntista, non costituiscano rimessa revocabile se relativi a conti correnti entrambi scoperti, e cioè a debito e non assistiti da aperture di credito di conto corrente e dunque relativi a somme il cui pagamento costituirebbe rimessa revocabile.

L’assenza di revocabilità deriva dal fatto che a favore della banca non è compiuto alcun pagamento, poiché alla variazione a debito in un conto corrisponde una variazione a credito in un altro - di pari importo - senza che il credito di restituzione della banca risulti in alcun modo mutato: l’esposizione debitoria del correntista risulta assolutamente invariata.

Dall’esame della consulenza tecnica (pag. 44) emerge che sul conto corrente n. 101114 in data 30/5/95, con valuta 29/5/95, sono stati compiuti due accrediti per £. 1.000.000.000 ciascuno provenienti dai conti correnti n. 120104 e n. 120105, che infatti registrano le medesime operazioni in addebito. Non possono quindi essere revocati.

Ancora emerge (pagg. 44 e 45) che sul conto corrente n. 120105 in data 11/7/95, con valuta del 30/6/95, vi è stato un accredito per £. 10.912.916 con contestuale addebito di pari importo sul conto corrente n. 101114, un altro il 13/7/95, con valuta del 12/7/95, di £. 168.180.865 con contestuale addebito di pari importo sul conto corrente n. 101114 ed un terzo in data 10/10/95, con valuta del 30/9/95, di £. 27.065.474, anch’esso con contestuale addebito di pari importo sul conto corrente n. 101114. Per i motivi detti anche questi tre accrediti non devono essere revocati.

Ancora emerge (pagg. 45 e 46) che sul conto corrente n. 120104 in data 11/7/95, con valuta del 30/6/95, vi è stato un accredito per £. 10.912.916 con contestuale addebito di pari importo sul conto corrente n. 101114 ed un altro in data 10/10/95, con valuta del 30/9/95, di £. 31.682.940, anch’esso con contestuale addebito di pari importo sul conto corrente n. 101114. Per i motivi detti anche questi due accrediti non devono essere revocati.

Infine emerge (pagg. 46 e 47) che sul conto corrente n. 120086 in data 10/1/95, con valuta del 31/12/94, vi è stato un accredito per £. 46.486.002 con contestuale addebito di pari importo sul conto corrente n. 101114 ed un altro in data 3/4/95, con valuta del 29/3/95, di £. 1.618.966.000, anch’esso con contestuale addebito di pari importo sul conto corrente n. 101114. Per i motivi detti anche questi due accrediti non devono essere revocati.

 

Le operazioni cosiddette bilanciate.

Costituiscono operazioni cosiddette bilanciate quegli accrediti sul conto corrente effettuati dal correntista al fine di costituire la provvista per l’esecuzione di specifiche operazioni a debito, quali ordini di pagamento a favore di terzi, accettati ed eseguiti dalla banca (così fra le tante Cass. civ., n. 686/99 e Cass. civ., n. 6558/97).

Con esse la banca non fa credito al correntista ma esegue un incarico ed il cliente non paga un debito ma somministra i mezzi necessari per l’esecuzione del mandato ex art. 1720 c.c.

Anche in tal caso non si verifica nessuna variazione del credito di restituzione della banca e, quindi, il correntista non compie alcun pagamento a suo favore.

Se la natura solutoria del versamento del correntista si presume in presenza di un conto corrente non affidato o comunque scoperto, l’onere di provare la natura bilanciata dell’accredito è a carico della banca convenuta, dovendo dare prova del fatto impeditivo ex art. 2697/2 c.c. e cioè della circostanza che esclude la natura di pagamento, appunto, della rimessa.

E tuttavia non è sufficiente allegare la mera coincidenza cronologica tra le operazioni di versamento e di prelievo poiché deve risultare chiaramente la finalità dell’operazione, con il riscontro effettivo del fatto che le due operazioni siano entrambe sorrette unitariamente da una specifica ed inequivoca volontà del correntista.

Ciò serve a dare prova dell’accordo fra il cliente e la banca nel senso che il versamento sul conto corrente non è volto a ridurre l’esposizione debitoria del correntista verso la banca, ma solo a fornirle la provvista perché possa effettuare con la somma accreditata il pagamento a favore del terzo, effettivo beneficiario dell’operazione.

Se poi tali operazioni sono normalmente contestuali, non può escludersi un lieve sfasamento temporale fra di loro - circostanza comunque da valutarsi caso per caso - purché emerga chiaramente il nesso logico tra le operazioni in termini di volontà.

Nel caso di specie nessuna operazione bilanciata è stata ravvisata dal consulente tecnico che non ha individuato fra le operazioni compiute alcun finalistico legame nel senso sopra descritto. Le sue conclusioni anche in tal caso non possono che essere condivise poiché non risulta dai documenti prodotti tale legame.

Né tale inesistenza è stata specificamente contestata dalla banca convenuta.

Invero sia nella comparsa di risposta come negli altri atti difensivi la banca si limita ad invocare l’esistenza di accreditamenti costituenti finanziamenti non revocabili perché utilizzati dalla società per la gestione dell’impresa che la curatela non avrebbe distinto dalle rimesse revocabili. Deve ritenersi che con tale espressione la banca abbia fatto riferimento alle partite cosiddette bilanciate, sia pure non chiamandole mai espressamente così.

E tuttavia non le ha mai specificatamente individuate.

Solo il suo consulente tecnico, nella sua relazione, ne ipotizza due, fra l’altro a titolo di esempio.

Afferma a tale proposito che sul conto corrente n. 101114 il 22/12/94 la B. s.p.a. riceve £. 200.000.000 da un proprio conto corrente presso un’altra banca e lo stesso giorno dispone sei pagamenti per complessive £. 233.477.000, senza che né la settimana precedente né quella successiva sia stato compiuto alcun prelievo su quel medesimo conto.

Ancora il 15/3/95 la B. s.p.a. riceve altri £. 200.000.000 provenienti da un altro suo conto corrente presso un’altra banca e lo stesso giorno sono disposti quattro pagamenti a favore di terzi per complessive £. 199.103.515; anche in tal caso non è stato effettuato alcun prelievo né nei dodici giorni precedenti né negli otto successivi.

Appare evidente – a suo dire – che i due versamenti da £. 200.000.000 ciascuno erano volti al pagamento dei successivi prelievi e dunque tali partite non possono che ritenersi bilanciate.

La difesa, pur suggestiva, appare infondata.

Anzitutto non è del tutto vero, almeno nel primo caso, che le operazioni evidenziate siano temporalmente isolate, come indicato dal consulente tecnico di parte. Sul conto corrente vengono accreditati due bonifici il 23/12/94, sia pure per importi molto bassi rispetto a quello del giorno precedente.

Ma in ogni caso, seppure una certa consequenzialità logica dai movimenti del conto corrente non può essere negata in entrambi i casi, manca proprio la prova di quel legame finalistico di cui s’è già detto, non essendovi agli atti del giudizio alcun documento che dia prova che il versamento sia stato compiuto proprio per compiere quei pagamenti così come indicato dalla banca convenuta, e non per pagare la stessa banca.

Ed infatti anche le distinte di pagamento che attestano la provenienza del denaro (documenti n. 19 di parte convenuta) da un lato, almeno a maggioranza, si riferiscono a conti correnti diversi da quelli oggetto del giudizio e, dall’altro, quelli rilevanti non indicano in alcun modo una coincidenza fra la causale degli accrediti e quella degli addebiti (peraltro inesistenti) in modo che possa essere verificata la consequenzialità logico-finalistica delle operazioni compiute che resta affidata al dato temporale solo indiziario e come tale insufficiente a dare prova della natura bilanciata dell’operazione, e dunque della sua non revocabilità.

È per tutti questi motivi che le rimesse revocabili sono quelle indicate, così come individuate dal consulente tecnico nel suo elaborato peritale.

Circa poi il pregiudizio che tali pagamenti hanno comportato per la massa dei creditori, esso si presume dalla semplice lesione della par condicio determinato da un atto che incida sulle possibilità satisfattive della massa dei creditori: la sua revocabilità fa sì che esso vada a comporre la massa dei crediti su cui tutti i creditori possono concorsualmente soddisfarsi (fra le altre Cass. civ., III, n. 3878/00).

 

La causa delle rimesse.

Lamenta ancora la banca convenuta - invero in modo esplicito per la prima volta nella comparsa conclusionale - che le rimesse e gli accrediti che ordinariamente affluiscono sul conto corrente non perdono la loro individualità ed il loro collegamento con i negozi che li hanno generati.

Lamenta poi che la curatela non abbia chiesto la revocatoria di tali negozi affermando che ora non può invocare la revocabilità dei relativi pagamenti.

Anche tale difesa è infondata.

Ed infatti se l’apertura di credito si risolve nella messa a disposizione a favore del correntista di una determinata somma di denaro cosicché, come già detto, i versamenti entro tale limite non hanno natura solutoria ma solo quella di ripristinare la disponibilità a favore del correntista, non così avviene con le altre forme di finanziamento, quali ad esempio lo smobilizzo dei crediti o l’anticipo su fatture che rappresentano solo il limite entro cui la banca è facoltizzata ad accettare tali operazioni (così Cass. civ., n. 5634/00).

Il correntista non acquista alcuna disponibilità della somma accordata ed eventuali versamenti entro quel limite costituiscono pagamenti a favore della banca, come tali revocabili.

E le somme che affluiscono sul conto corrente, se scoperto, hanno inevitabilmente natura solutoria, per quanto già detto, a prescindere dal negozio da cui traggono origine; esse infatti non entrano nella disponibilità del correntista ma riducono la sua esposizione debitoria nei confronti della banca e quindi costituiscono altrettanti pagamenti.

 

L’elemento soggettivo.

Ex art. 67/2 R.D. n. 267/42 non ogni pagamento di un debito liquido ed esigibile è revocabile dalla curatela fallimentare, ma solo quelli in relazione ai quali chi l’ha ricevuto era a conoscenza dello stato di insolvenza del solvens poi fallito.

Per conoscenza dello stato di insolvenza si intende la consapevolezza della crisi finanziaria di chi ha compiuto il pagamento che non era in grado di adempiere regolarmente le proprie obbligazioni, secondo la definizione dell’art. 5 R.D. n. 267/42.

D’altra parte la ratio della citata norma è evidente: non ogni pagamento è in sè revocabile, ma solo quelli ricevuti da chi era consapevole del dissesto finanziario dell’impresa poi fallita.

Poiché il pagamento costituisce in sé un atto lecito perché dovuto, esprimendo l’adempimento del debitore alla propria obbligazione, colpiti sono solo quelli ricevuti da chi conosceva il dissesto finanziario che poi ha portato al fallimento.

Solo in tal caso il pagamento deve ritenersi inefficace rispetto alla massa dei creditori e può essere revocato andando a ricostituire il patrimonio del fallito – nelle forme dell’attivo fallimentare – consentendo così la soddisfazione concorsuale dei creditori rimasti insoddisfatti, anche in conseguenza della revoca dei pagamenti ricevuti.

E se l’art. 67/1 R.D. n. 267/42 pone una presunzione di conoscenza dello stato di insolvenza, e dunque di sussistenza dell’elemento soggettivo, che giova a favore della curatela attrice, onerando la parte convenuta che ha ricevuto il pagamento di dare la prova del contrario, e dunque in buona sostanza della sua inscientia, nel caso dei pagamenti di cui all’art. 67/2 citato nessuna presunzione opera a favore dell’attore, dovendo dare quindi prova non solo degli avvenuti pagamenti ma anche del fatto che chi li ha ricevuti conosceva lo stato di insolvenza del solvens.

Se infatti quelli del primo comma della citata norma sono pagamenti compiuti con mezzi “anormali” e dunque consentono di ritenere sussistente la presunzione citata per la modalità stessa con cui sono stati compiuti, non così quelli di cui al secondo comma che onerano la curatela fallimentare attrice della relativa prova secondo i principi generali ex art. 2697 c.c.

Trattandosi poi di uno stato soggettivo ben difficilmente può essere data direttamente, per esempio a mezzo di una confessione, usualmente deve essere inferita da una pluralità di circostanze integranti le presunzioni di cui all’art. 2729 c.c. che quindi devono assumere complessivamente considerate i caratteri della gravità, della precisione e della concordanza.

La Suprema Corte suole poi ripetere a questo a proposito, con un orientamento tanto costante quanto condivisibile, che non di conoscibilità astratta si deve trattare ma di conoscenza concreta sulla base della molteplicità delle circostanze, peraltro desunta con ragionevole certezza da essa secondo una valutazione di fatto rimessa al prudente apprezzamento sulla base degli elementi di prova concretamente offerti.

Ciò consente di sgombrare subito il campo da un equivoco e, al tempo stesso, di fare una precisazione. Nel caso in cui convenuta sia una banca non si può per la sua sola natura desumere la conoscenza dello stato di insolvenza dei pagamenti ricevuti, anche se per la sua qualità di operatore qualificato devono essere valutate in maniera rigorosa le diverse circostanze, trattandosi di un operatore economico dotato di speciale sensibilità critica e in condizione di valutare elementi che magari non avrebbero significato per altri operatori.

La banca rileva con più attenzione e con più prudenza di altri operatori economici gli elementi che possono denotare una crisi imprenditoriale perché deve preoccuparsi di recuperare il credito erogato, ma anche perché, svolgendo un servizio di cassa, ha a disposizione i bilanci delle società e può valutare prima e meglio di altri quella difficoltà finanziaria e dunque quelle condizioni di illiquidità che consentano di desumere lo stato di insolvenza di chi ha effettuato il pagamento (Cass. civ., n. 1719/01, Cass. civ., n. 656/00 e Cass. civ., n. 11369/98).

Nel caso di specie una pluralità di indizi consente di ritenere sussistente il suddetto stato di insolvenza in capo alla banca convenuta.

 

Anzitutto l’analisi dei bilanci.

Come previsto dalle istruzioni di vigilanza della Banca d’Italia e dall’art. 53 D.l.vo n. 385/93 la banca convenuta ha richiesto annualmente alla B. s.p.a. i suoi bilanci d’impresa e quelli consolidati del gruppo cui apparteneva.

La curatela ha prodotto i bilanci del 1992, 1993, 1994 e 1995 della B. s.p.a. e quelli e consolidati del gruppo B. del 1992 e del 1993.

L’accertamento peritale compiuto è stato finalizzato al loro esame per analizzare gli indici in essi contenuti e verificare se da essi fosse desumibile la situazione di tensione finanziaria che caratterizzava la società, su cui la curatela attrice fonda la conoscenza dello stato di insolvenza della banca convenuta.

Dall’esame della consulenza tecnica emerge anzitutto che il bilancio maggiormente significativo a tale proposito è quello del 1993.

Ed infatti la possibilità di confrontare lo stato patrimoniale della B. s.p.a. nel 1992 con quelli del 1993 e del 1994 è scarsamente significativa in conseguenza del conferimento nella società poi fallita, di parte delle attività e delle passività della B. I. s.p.a. e della B. I. M. s.r.l., come risulta dalla nota integrativa al bilancio del 1993, con effetto dal 31/12/93.

Per converso il bilancio del 1994 è verosimilmente entrato nella disponibilità dell’Istituto di credito solo nell’estate del 1995, quando una parte non piccola delle rimesse oggetto di controversia era già stata compiuta.

Quello del 1995, infine, è stato conosciuto dalla banca l’anno successivo, quando la B. s.p.a. era già in amministrazione controllata e, quindi, non può essere ritenuto in alcun modo significativo a tal fine, se non a conferma di un trend di crisi finanziaria che in quell’anno diviene drammatica, tanto che la società è ammessa dal Tribunale di Mantova alla procedura concorsuale.

Alla luce di tale premessa il consulente tecnico ha analizzato i bilanci determinando i principali indici, e segnatamente quelli di liquidità, di indebitamento, di garanzia dei debiti a medio e lungo termine, evidenziando composizione della liquidità, della struttura finanziaria e della redditività e riscontrando la rispondenza o meno degli indici accertati rispetto a quelli che sono ritenuti gli standard di normalità.

A tale proposito occorrono due precisazioni.

Da un lato non può ritenersi la consulenza tecnica sotto questo aspetto meramente esplorativa come adombrato dalla banca convenuta nelle sue difese e segnatamente nella memoria istruttoria.

Ed infatti la curatela attrice, come già detto, ha depositato ritualmente in giudizio i bilanci su cui compiere l’analisi e dunque il consulente tecnico non ha dovuto in alcun modo acquisire degli elementi di prova ma limitarsi a dare una valutazione sul piano tecnico di quelli già esistenti.

Nessuna inammissibilità della consulenza tecnica può essere ritenuta sotto questo profilo.

Dall’altro l’analisi tecnica demandata al consulente è stata disposta sul presupposto che la banca convenuta – quale operatore economico qualificato – avesse un bagaglio tecnico-conoscitivo tale da compiere un’analoga analisi per valutare la possibilità/opportunità di concedere/rinnovare il credito alla B. s.p.a.

Il suo ufficio fidi aveva infatti l’onere di compiere un’analisi dei bilanci delle società con cui i rapporti bancari erano intrattenuti per conoscere quelle informazioni relative alla realtà imprenditoriale essenziali per le decisioni relative alla concessione del credito in modo da avere chiaro il quadro circa l’efficienza, la redditività, la liquidità e la consistenza patrimoniale dei diversi clienti.

Se si pensa nel caso specifico alle dimensioni della B. s.p.a., al numero dei conti correnti accesi presso la banca convenuta, all’esposizione debitoria complessiva della società verso la banca, alle movimentazioni dei conti non è verosimile che il rapporto sia stato gestito dalla banca convenuta senza compiere alcuna analisi dei bilanci, in considerazione del fatto che – come già detto – il relativo ufficio fidi aveva ragionevolmente tutte le competenze necessarie compiere tali operazioni.

Dall’esame della consulenza tecnica emerge che il metodo più diffuso per trarre dai bilanci le valutazioni indispensabili circa le condizioni finanziarie delle imprese l’analisi per indici, calcolando cioè rapporti tra valori ed altre quantità tratte dallo stato patrimoniale e dal conto economico in precedenza rielaborati.

Nel caso di specie l’analisi ha condotto alle seguenti conclusioni:

1) il capitale circolante netto, pari alla differenza fra attività correnti e passività correnti, indica la capacità dell’impresa di far fronte ai propri debiti scadenti nei successivi dodici mesi con le risorse della gestione corrente; nel caso di specie esso è negativo per 19 miliardi di lire nel 1992 e di 138 miliardi di lire nel 1993 e positivo per soli 5 miliardi di lire nel 1994; ciò significa i debiti a breve superavano i crediti a breve e le rimanenze, mentre perché vi sia equilibrio finanziario dovrebbe essere assolutamente positivo;

2) il margine di tesoreria, pari alla differenza tra le attività correnti al netto del magazzino e le passività correnti, se negativo segnala difficoltà finanziarie dell’impresa nel breve periodo, evidenziando l’incapacità della liquidità e dei crediti a breve di coprire i debiti a breve; nel caso di specie è sempre negativo;

3) l’indice di disponibilità (current ratio), che esprime il rapporto tra attività correnti e passività correnti e corrisponde la capitale circolante netto, dovrebbe sempre presentare valori fra 1,5 e 2; nel caso di specie i valori sono di 0,63 nel 1992, 0,88 nel 1993, 1,01 nel 1994, solo quest’ultimo si avvicina al minimo tollerato che è pari ad 1,2;

4) l’indice di liquidità (acid test), che esprime il rapporto fra la somma delle liquidità immediate e dei crediti a breve e le passività correnti e corrisponde al margine di tesoreria, dovrebbe sempre presentare valori non troppo più bassi di 1; nel caso di specie sono 0,55 nel 1992, 0,69 nel 1993 e 0,74 nel 1994, dunque sempre sensibilmente inferiori all’unità;

5) il margine di struttura di primo livello, pari alla differenza fra patrimonio netto ed attivo fisso, evidenzia la parte di attivo immobilizzato non coperta dagli investimenti durevoli e dunque se v’è necessità di ricorrere a finanziamenti esterni; nel caso di specie i valori negativi sono assai rilevanti (a parte il primo), e precisamente + 40,7 miliardi di lire nel 1992, - 344,7 miliardi di lire nel 1993, - 299,5 nel 1994;

6) il margine di struttura di secondo livello, pari alla somma fra patrimonio netto e passività fisse al netto dell’attivo fisso; in una struttura patrimoniale equilibrata l’attivo fisso, e cioè gli impieghi durevoli, dovrebbe essere finanziato da fonti a medio/lungo termine, cioè dal patrimonio netto e dalle passività fisse; nel caso di specie i bilanci evidenziano valori squilibrati, soprattutto nel 1993: - 18,7 miliardi di lire nel 1992, - 138,8 miliardi nel 1993, + 5 miliardi di lire nel 1994, con un sostanziale equilibrio solo in quell’anno;

7) l’indice di indebitamento, pari al rapporto fra patrimonio netto e totale delle attività moltiplicato per cento, che esprime il peso percentuale del capitale proprio sul totale dell’attivo e quindi su quello dei finanziamenti, si presenta lontano dagli standard di normalità, dimostrando una elevata dipendenza della società dai finanziamenti di terzi; se è vero infatti che il fenomeno della scarsa capitalizzazione è assai diffuso tra le imprese italiane, è anche vero che i valori in esame sono comunque di molto inferiori alle medie nazionali;

8) l’indice Debt/Equity, pari al rapporto fra la differenza di debiti finanziari e crediti finanziari ed il patrimonio netto; anche tale indice, come il precedente, analizza l’indebitamento della società e la sua composizione; un elevato valore di tale indice superiore ad 1 indica un elevato ricorso dell’impresa al finanziamento oneroso di terzi rispetto al finanziamento con mezzi propri, fatto che comporta difficoltà nel reperimento di ulteriori finanziamenti da terzi, e segnatamente dal sistema bancario; nel caso di specie sono stati determinati due distinti valori di tale indice: nel primo la voce “crediti finanziari” comprende i soli crediti denominati in bilancio “crediti finanziari”; nel secondo la voce “crediti finanziari” comprende anche i crediti iscritti tra le immobilizzazioni finanziarie. In entrambi i casi i valori sono alti, e precisamente 1,68 e 1,35 nel primo caso e 1,17 e 0,88 nel secondo e solo tale ultimo valore (0,88) rientra entro limiti tollerabili;

9) l’indice di garanzia dei debiti a medio e lungo termine, pari al rapporto fra attivo fisso e passività fisse, che indica la possibilità dell’impresa di reperire ulteriore credito a medio e lungo termine, e dovrebbe avere un valore intorno ad uno; nel caso di specie esso è pari a 2,98 nel 1992, 2,40 nel 1993 e 1,79 nel 1994 e dunque con valori ben al di sopra della condizione di equilibrio finanziario;

10) l’indice di copertura delle immobilizzazioni, pari al rapporto fra l’attivo fisso e la somma di patrimonio netto e passività fisse, indica il rapporto esistente fra impieghi e fonti a medio e lungo termine come quoziente, anch’esso esprime valori squilibrati nel 1992, nel 1993 e nel 1994;

11) il R.O.E. o redditività del capitale proprio, pari al rapporto fra utile d’esercizio e patrimonio netto, che indica, in buona sostanza, la redditività del capitale proprio, cioè quello investito nella società dai soci; per essere conveniente il valore dell’indice dovrebbe essere almeno pari al tasso rappresentato dal costo del denaro a breve termine ed esente da rischi, come ad esempio i titoli di stato che in quel periodo però fruttavano rendimenti nettamente superiori;

12) il R.O.I. o redditività del capitale investito, pari al rapporto fra reddito operativo ed il totale delle attività, che esprime la redditività operativa del complesso del capitale investito nella società, sia quello proprio che quello di terzi; nel caso di specie i valori accertati sono molto bassi, segno che la redditività dell’impresa era in quel periodo praticamente nulla.

Circa inoltre i bilanci consolidati del gruppo, il capitale circolante netto risulta ampiamente negativo; il margine di tesoreria è sempre negativo; l’indice di liquidità secca o acid test e l’indice di disponibilità o current ratio, per l’intero biennio esaminato, presentano valori al di sotto degli standard di normalità; il margine di struttura di primo livello assume valori negativi assai rilevanti; nel 1992 su 644,1 miliardi di lire di attivo immobilizzato solo 179,7 di lire sono coperti da patrimonio netto: la parte non coperta da patrimonio netto è pari a 464,4 miliardi di lire; nel 1993 su 743,4 miliardi di lire di attivo immobilizzato solo 208 sono coperti da patrimonio netto: la parte non coperta da patrimonio netto è pari a 535,4 miliardi di lire; il margine di struttura di secondo livello esprime valori fortemente squilibrati, e segnatamente 270,9 miliardi di lire nel 1992 e 159,8 miliardi di lire nel 1993; l’indice di indebitamento, per l’intero biennio esaminato, riflette valori lontani dagli standard di normalità; l’indice “Debt/Equity” presenta valori assai elevati, nettamente superiori a quelli riscontrati nella B. s.p.a. e nessuno di essi può essere considerato entro limiti accettabili; l’indice di garanzia dei debiti a medio e lungo termine presenta sempre valori lontani da quelli che caratterizzano una struttura equilibrata; il R.O.E. è inferiore al minimo ed il R.O.I. tende ad approssimarsi alla soglia accettabile.

Afferma in buona sostanza il consulente tecnico, a conclusione della sua lunga analisi, che la redditività di B. s.p.a. è estremamente bassa, a fronte di una redditività positiva per il gruppo, la capitalizzazione era talmente inferiore alla media da risultare modesta; vi era uno squilibrio patologico fra fonti ed impieghi, poiché la durata delle fonti era perennemente superiore a quella degli impieghi; vi era infine un forte squilibrio finanziario evidenziato dai valori del margine di tesoreria e del capitale circolante netto.

A fronte di ciò un operatore economico di media capacità del settore creditizio non avrebbe avuto alcuna difficoltà o dubbio ad individuare la situazione di squilibrio nella liquidità, nella struttura finanziaria in quella patrimoniale e nella redditività, e dunque ad individuare tutte le negatività della situazione finanziaria della B. s.p.a. in quel periodo.

Ed alla luce della complessiva analisi compiuta le conclusioni del consulente tecnico non possono che essere condivise.

D’altra parte gli accertamenti e le valutazioni compiute dal CTU appaiono immuni da vizi logici e coerentemente motivate, oltre che non infirmate da specifiche contestazioni contrarie delle parti, e, pertanto, possono essere fatte proprie da questo giudice.

 

Le ipoteche.

A tali elementi occorre ancora aggiungere che la curatela fallimentare ha dato prova di una pluralità di ipoteche iscritte sui beni della fallita, elemento da cui in via presuntiva può desumersi la difficoltà finanziaria della società (così Cass. civ., n. 699/97).

 

Gli articoli di stampa.

Dall’esame dei documenti prodotti emerge che in quel periodo vi erano allarmanti notizie di stampa, riportate soprattutto da quotidiani, anche in data anteriore alle rimesse oggetto di controversia.

Anzitutto alcuni quotidiani nazionali (Corriere della Sera, Il Giorno, L’Unità) anche finanziari (Il Sole 24 Ore e Milano Finanza) pubblicarono in moltissime occasioni articoli in cui rilevavano le tensioni finanziarie della società e del gruppo, le relative preoccupazioni del sistema bancario, la stessa incapacità della B. s.p.a. nell’estate del 1995 di pagare regolarmente le retribuzioni dei dipendenti sia di Mantova che di Taranto, la valutazione del ceto bancario di rimediare all’indebitamento del gruppo attraverso l’affidamento dell’incarico all’advisor Vitale e Borghesi di redigere un piano di ristrutturazione industriale e finanziario.

E ciò a tacere delle stesse notizie riportate dalla stampa locale di Mantova e a Taranto ove si trovavano gli stabilimenti della B. s.p.a. e dove le proteste dei dipendenti, anche in conseguenza del mancato pagamento delle retribuzioni si erano fatte sentire in molti modi: manifestazioni sindacali dentro e fuori gli stabilimenti, scioperi, interventi delle amministrazioni locali.

Non è francamente pensabile che la banca convenuta, che aveva sede proprio a Taranto, non si sia resa conto dell’intera situazione che – si ripete – per la diffusione che aveva assunto nella realtà cittadina assurgeva ormai, e purtroppo per la locale economia, a fatto notorio.

I citati articoli danno la prova dell’evidente risonanza dei fatti nella realtà tarantina, percepibile dall’intera collettività e tale da assumere la natura di notorio, proprio per il contenuto delle notizie riportate.

Esse non si riferiscono infatti ad episodi isolati e rimasti ignoti ai più ma danno concretamente l’idea della peculiarità della vicenda, delle sue dimensioni e della sua gravità, che non poteva che coinvolgere – quanto a conoscenza – l’intera comunità cittadina.

In particolare le notizie riportate non potevano non destare allarme nei creditori della società, soprattutto se esposti per grosse somme, come la banca convenuta.

 

L’intervento dell’advisor.

Nel maggio del 1995 alcune banche estere che operavano con il gruppo B. si erano rivolte alla Vitale Borghesi & C. s.p.a. quale società di consulenza in ambito finanziario perché redigesse un piano di intervento che proponesse una soluzione percorribile per uscire dalla crisi del gruppo e segnatamente di B. s.p.a.

Presi i contatti con tutte le banche con cui il gruppo operava, fra cui la convenuta, il 2/8/95 organizzò una riunione in Milano tra tutti le banche per riferire sommariamente in ordine ai primi riscontri effettuati.

Nell’occasione era stata rappresentata la fragilità finanziaria del gruppo e le difficoltà che incontrava nel proseguire l’attività industriale.

Poiché inoltre il tempo per la redazione del piano di ristrutturazione era stato insufficiente l’advisor aggiornò la riunione a settembre ove, accanto al piano industriale, fu presentato anche quello finanziario in forza del quale solo con interventi di finanza straordinaria, a cui avrebbe dovuto partecipare il maggior numero possibile di banche, si sarebbe potuta tentare la prosecuzione dell’attività altrimenti condannata a cessare: la proposta di risanamento – nella riunione di settembre – fu presentata in termini ultimativi con riferimento alla sua necessità.

Tutte queste circostanze sono state raccontate in modo esaustivo e credibile dai testimoni Arnaldo Testoni e Bruno Salvato.

 

Le garanzie reali.

La curatela fallimentare ha altresì prodotto documenti attestanti una pluralità di ipoteche iscritte sui beni della fallita (documenti n. 21 di parte attrice), proprio a garanzia delle esposizioni bancarie, segno della crescente sfiducia del sistema creditizio nella solvibilità della società (così Cass. civ., n. 699/97).

 

Infine la situazione del gruppo B. s.p.a.

Il gruppo B. svolgeva un’attività di fornitura e montaggio di impianti industriali di grandi dimensioni quali centrali elettriche convenzionali e centrali nucleari, piattaforme petrolifere, impianti petroliferi e petrolchimici.

Ciò avveniva attraverso contratti di appalto per opere commissionate sia in Italia che all’estero.

Ciascuna società aveva piena autonomia giuridica e patrimoniale ma il fitto intreccio di legami gestionali, economici e finanziari tra B. H. s.p.a. e le società operative, fra cui la B. s.p.a., legava a doppio filo, per così dire, le sorti di ciascuna società a quella delle altre, così esponendo ciascuna alla crisi delle altre.

E ciò a tacere del fatto che era la stessa famiglia B. che controllava l’intero gruppo.

Questo collegamento tra le società era necessariamente noto alla banca convenuta, sia attraverso i bilanci della B. s.p.a. e quelli consolidati sia attraverso le stesse notizie di stampa che spesso evidenziavano il legame fra le vicende della B. s.p.a. e del complessivo gruppo cui apparteneva.

In particolare a tale proposito meritano di essere sottolineate le notizie relative al gruppo Interklim, uno dei due rami del gruppo B., che già nel 1994 versava in una situazione di pesante crisi, tanto che anche la Interklim Sistemi S.r.l. nel 1995 fu ammessa al concordato preventivo.

Anche tale elemento non può non essere considerato nella valutazione complessiva della conoscenza dello stato di insolvenza in capo alla banca convenuta (sulla rilevanza del gruppo Cass. civ., n. 4473/97 e Cass. civ., n. 6285/95).

In definitiva tutti questi elementi complessivamente considerati costituiscono altrettanti presunzioni gravi precise e concordanti ex art. 2729 c.c. da cui inferire la conoscenza dello stato di insolvenza in capo alla banca convenuta.

In particolare a fronte di un conto corrente costantemente passivo per importi miliardari, delle evidenti difficoltà nel pagamento delle retribuzioni, riscontrabile - almeno per gli stabilimenti di Taranto - anche dalla banca convenuta, di bilanci che rappresentano una situazione societaria e di gruppo finziariamente compromessa in modo che non lascia spazio a dubbi e di notizie giornalistiche sempre più allarmate ed allarmanti, deve ritenersi che l’ufficio fidi della banca convenuta, non potesse non avere contezza della precarietà della situazione finanziaria ed economica della società poi fallita.

Né può rilevare che la banca non abbia ritenuto di risolvere il rapporto, nonostante la consapevolezza della gravità della crisi in cui la B. s.p.a.

Tale circostanza, infatti, ha infatti un significato di per sé equivoco che non necessariamente indica la fiducia della banca nelle prospettive dell’impresa e la sua inscientia circa le condizioni patologiche della cliente (così Cass. civ., n. 4759/02).

Può infatti trovare fondamento proprio in una valutazione lucida della gravità della situazione nella certezza che in assenza di ulteriore liquidità la debitrice sarebbe destinata al fallimento con inevitabile perdita di tutto credito concesso fino a quel momento.

Nessun argomento può infine trarsi dal fatto che il Tribunale di Mantova il 16/11/95 ammettendo la B. s.p.a. alla procedura di amministrazione controllata ha evidenziato la possibile soluzione positiva della crisi dell’impresa, definendola in temporanea difficoltà.

Sia la Suprema Corte (Cass. civ., n. 10792/99) che la stessa Corte Costituzionale (Corte Cost., n. 110/95, confermata nelle ordinanze n. 224/1995 e n. 12/1997) hanno più volte sottolineato che l’amministrazione controllata ed il fallimento si distinguono tra loro principalmente nel giudizio prognostico in ordine alla possibile reversibilità della crisi in cui versa l’impresa parzialmente diverso nei due casi.

Insolvenza e temporanea difficoltà divergono solo per l’aspetto quantitativo, poiché qualitativamente la temporanea difficoltà non è diversa dall’insolvenza, sostanziandosi anch’essa nella stessa incapacità dell’impresa di far fronte regolarmente alla proprie obbligazioni.

La valutazione della conoscenza dello stato di insolvenza da parte della convenuta non può che attenere alla sua consapevolezza circa lo stato patologico in cui si trovava l’impresa, anche a prescindere dal fatto che fosse sanabile, al momento in cui ha compiuto il pagamento oggetto del giudizio.

È vero infatti che presupposto indefettibile per l’ammissione alla procedura concorsuale minore dell’amministrazione controllata è la semplice temporanea difficoltà e che essa presuppone un giudizio positivo circa la possibilità di risanamento dell’impresa nel biennio successivo, ma è anche vero che tale condizione costituisce un quid pluris rispetto all’insolvenza, un presupposto ulteriore che la arricchisce, essendovi pur sempre in entrambi i casi l’incapacità dell’impresa di adempiere alle proprie obbligazioni.

Ciò consente di ravvisare un indiscutibile nucleo comune fra le due situazioni e non è dunque ostativo a far ritenere sussistente la conoscenza dell’insolvenza pur in presenza dell’ammissione dell’impresa alla procedura concorsuale minore.

Se così non fosse, infatti, un’impresa incapace di adempiere la proprie obbligazioni ma rispetto alla quale la prognosi circa il suo risanamento superasse l’arco temporale dei due anni, da un lato non potrebbe essere ammessa all’amministrazione controllata, che richiede appunto che il superamento della temporanea difficoltà possa avvenire entro quel termine, dall’altro non potrebbe essere dichiarata fallita perché non insolvente.

È evidente che così non può essere e che in realtà, in assenza della possibilità di superamento della temporanea difficoltà entro il termine biennale, o perché l’impresa è irrimediabilmente decotta o perché il risanamento richiede un termine più lungo, di essa può essere dichiarato il fallimento.

Ma ciò è possibile proprio perché la temporanea difficoltà è già insolvenza e solo se rimediabile nel breve termine di due anni dà diritto all’ammissione alla procedura concorsuale minore (così Cass. civ., I, n. 9581/97, Cass. civ., n. 1612/97 e Cass. civ., n. 10792/99).

La pluralità delle circostanze esposte costituiscono quindi indizi gravi, precisi e concordanti della scientia decoctionis in capo alla società convenuta: deve ritenersi provato l’elemento soggettivo dell’azione revocatoria.

In presenza di tutti i suoi elementi, oggettivo e soggettivo, la domanda non può che essere accolta, peraltro nei limiti sopra precisati.

In conseguenza di ciò devono essere revocati i pagamenti già indicati di complessivi €. 3.025.264,17 compiuti dalla B. s.p.a. a favore della Banca Popolare Jonica s.p.a., ora Banca Antoniana Popolare Veneta s.p.a. e condannata la convenuta alla restituzione dell’importo indicato, oltre agli interessi legali dalla domanda al saldo.

Nulla spetta a titolo di rivalutazione monetaria, poiché il negozio oggetto di azione revocatoria fallimentare ha causa lecita e la sua inefficacia sorge solo per effetto dell’accoglimento dell’azione, che ha natura costitutiva.

Se dunque quest’ultima ha ad oggetto una somma liquida di denaro, il relativo debito restitutorio ha natura di debito di valuta, su cui devono essere calcolati i soli interessi in misura legale dalla domanda giudiziale, salva la prova del maggior danno ex art. 1224 c.c. (Cass. civ., I, n. 690/98).

E dunque nel caso di specie gli interessi dalla domanda al 28/12/01 possono essere quantificati nella misura del 4,77%; avendo la curatela fallimentare dato prova per tale periodo della redditività dei depositi attivi del fallimento; per il periodo successivo e fino al saldo sono dovuti quelli legali, in assenza di elementi di prova circa il maggior danno subito.

Un’ultima notazione, per completezza di discorso.

La banca convenuta invoca l’applicazione dell’art. 67 R.D. n. 267/42 come riformulato dalla L. n. 80/05, trattandosi di legge di interpretazione autentica.

La prospettazione non può essere condivisa.

Anche a prescindere dal fatto che il Legislatore non l’ha qualificata in quel modo, la diversità di disciplina fra le due norme appare evidente in molteplici ipotesi, a cominciare proprio da quella relativa alle rimesse in conto corrente, e perciò non si può in alcun modo affermare che la nuova norma si sia limitata ad esplicitare un significato già contenuto in quella (solo apparentemente) precedente, avendo al contrario voluto innovare – e significativamente – l’intera materia.

È per questo motivo che nella decisione della presente controversia è stato applicato l’art. 67 citato nella previgente formulazione, applicabile ratione temporis al caso de quo.

Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate come in dispositivo; sono definitivamente poste a carico della banca convenuta quelle della CTU liquidate come da separato decreto, in atti.

 

omissis