Crisi d'Impresa e Insolvenza


Il Caso.it, Sez. Giurisprudenza, 26891 - pubb. 11/01/2021

Posizione dell’INPS rispetto al piano di riparto

Cassazione civile, sez. IV, lavoro, 14 Marzo 1992, n. 3148. Pres. D'Alberto. Est. Prestipino.


Previdenza (assicurazioni sociali) - Contributi assicurativi - Riscossione - Posizione creditoria dell'Inps nei confronti del datore di lavoro fallito anche per l'aliquota a carico dei lavoratori - Mezzi di tutela - Impugnazione del piano di riparto - Inammissibilità - Limiti - Condizioni



La posizione creditoria dell'Inps nei confronti del datore di lavoro fallito, in ordine sia alla quota dei contributi posta a carico del medesimo sia alla quota dei contributi gravante sui lavoratori, è tutelabile mediante domanda di ammissione al passivo, tempestiva (ex art. 93 legge fall.) o tardiva (ex art. 101 legge fall.), e non anche con l'impugnazione, ai sensi degli artt. 26 e 110 legge fall., del piano di riparto, ancorché questo preveda il soddisfacimento dei crediti dei lavoratori senza effettuazione della ritenuta della quota contributiva a carico dei medesimi, salva per l'Inps - come qualsiasi altro creditore in presenza del depauperamento della massa attiva - la legittimazione ad impugnare il piano nel caso di previa allegazione e dimostrazione del nocumento derivante dal non poter ottenere, in sede di successiva distribuzione, l'integrale soddisfacimento delle proprie ragioni. (massima ufficiale)


Massimario Ragionato



 


REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

 

Composta dagli Ill.mi Sigg. Magistrati:

Dott. Michelangelo D'ALBERTO Presidente

" Gaetano BUCCARELLI Consigliere

" Giuseppe MOSCATO "

" Massimo GENGHINI "

" Giovanni PRESTIPINO Rel. "

ha pronunciato la seguente

 

SENTENZA

sul ricorso proposto

da

ISTITUTO NAZIONALE DELLA PREVIDENZA SOCIALE - INPS - in persona del Presidente pro-tempore elett.te dom.to in Roma, Via della Frezza n. 17, presso gli Avv.ti Aldo Bartoli, Gianni Romoli ed Antonio Salafia che lo rappresentano e difendono per procura speciale in calce al ricorso;

Ricorrente

contro

FALLIMENTO S.a.s. "CARTIERA S. ANTONIO", in persona del legale rappresentante;

Intimato

avverso il provvedimento del Tribunale di Lucca emesso in data 8.11.1989 (R.G. n. 4061-89);

udita nella pubblica udienza tenutasi il giorno 22.1.1991 la relazione della causa svolta dal Cons. Rel. Dott. Prestipino;

udito il P.M. nella persona del Sost. Proc. Gen. Dott. Francesco Simeone che ha concluso per il rigetto del ricorso.

 

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Reso esecutivo con decreto del giudice delegato del Tribunale di Lucca un piano di riparto parziale del fallimento della S.a.s. Cartiera S. Antonio, con il quale venivano interamente soddisfatti i crediti dei lavoratori dipendenti, l'Istituto Nazionale della Previdenza Sociale, ai sensi dell'art. 26 R.D. 16 marzo 1942 n. 267, impugnava il provvedimento davanti al Tribunale, lamentando che il curatore del fallimento non avesse effettuato la ritenuta della quota di contributi previdenziali posta dalla legge a carico dei lavoratori, con conseguente attribuzione a costoro di una somma di importo superiore a quella dovuta.

Con decreto dell'8 novembre 1989 il Tribunale rigettava il reclamo, osservando che la pretesa dell'INPS, inerente ai contributi assicurativi dovuti dal datore di lavoro, anche per la quota posta a carico del lavoratore, non poteva essere fatta valere se non mediante l'insinuazione del credito al passivo del fallimento. Avverso questo decreto ha proposto ricorso per cassazione l'INPS, che ha dedotto un unico motivo.

Non si è costituito il fallimento della società Cartiera S. Antonio.

 

MOTIVI DELLA DECISIONE

Con l'unico motivo dell'impugnazione il ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 47 R.D.L. 4 ottobre 1935 n. 1827 e 19 L. 4 aprile 1952 n. 218, in relazione all'art. 12 L. 30 aprile 1969 n. 153 e con riferimento all'art. 360 n. 3 c.p.c., e sostiene che, contrariamente a quanto ha deciso il Tribunale, il curatore del fallimento è tenuto ad effettuare sulle retribuzioni erogate ai dipendenti le trattenute previdenziali poste dalla legge a carico dei medesimi. A detta dello stesso ricorrente, infatti, nel piano di riparto deve essere indicata la somma oggetto della retribuzione al netto delle trattenute in questione, dato che, in caso contrario, l'omessa trattenuta si risolve in un aumento della retribuzione, con la conseguenza che su tale incremento retributivo l'Ente previdenziale, atteso il suo diritto di ottenere i contributi nella misura di legge, ben potrebbe insinuare nello stato passivo del fallimento questo suo ulteriore credito.

Il motivo è infondato.

A parte quanto si dirà in seguito in ordine alle vere ragioni che impediscono l'accoglimento del ricorso, la tesi dell'INPS riposa su un errato presupposto, consistente nel ritenere che, se con la ripartizione (parziale o finale), effettuata in sede fallimentare a norma degli artt. 113 e 117 R.D. 16 marzo 1942 n. 267, vengano distribuite le retribuzioni spettanti ai lavoratori dipendenti al lordo della parte di contributi che la legge pone a carico dei lavoratori medesimi, la somma ricevuta da costoro, per questa parte, si traduca automaticamente in un aumento della retribuzione. Al contrario, fermo restando che in base al combinato disposto degli artt. 47, comma 2, R.D.L. 4 ottobre 1935 n. 1827 e 19, comma 1, L. 4 aprile 1952 n. 218 il datore di lavoro è responsabile del pagamento dei contributi anche per le quote a carico dei lavoratori, nulla vieta di ritenere che il curatore - che nella procedura fallimentare rappresenta (anche) il debitore fallito - possa, in caso di omessa trattenuta, esercitare la rivalsa; con la conseguenza che la possibilità stessa dell'esercizio di tale diritto, salvo che non si dimostri che il curatore vi abbia espressamente rinunciato (v. Cass.6 giugno 1979 n. 3218), impedisce di considerare le quote suddette alla stregua di veri e propri aumenti retributivi, come tali soggetti a contribuzione. Come ha già avuto modo di affermare questa Corte, infatti, la disposizione contenuta nell'art. 19, comma 2, della legge n. 218 del 1952 - secondo cui il contributo a carico del lavoratore deve essere trattenuto sulla retribuzione - non esclude l'azione di rivalsa nei confronti del medesimo lavoratore, essendo tale azione impedita, a parte l'ipotesi della preventiva rinuncia, soltanto dall'inadempimento imputabile al datore di lavoro (Cass. 2 luglio 1988 n. 4399 e 12 gennaio 1985 n. 23); dovendosi, peraltro, anche in quest'ultimo caso ritenere che la somma in più versata al dipendente non assume il carattere di un aumento della retribuzione, dato che l'unica conseguenza che deriva dal colpevole inadempimento del datore di lavoro è quella prevista dall'art. 23 della stessa legge n. 218 del 1952, in forza del quale la quota contributiva a carico del lavoratore grava esclusivamente sul debitore moroso come debito suo proprio.

Nella specie, poiché il ricorrente non ha mai dedotto che da parte del curatore del fallimento della società Cartiera S. Antonio vi sia stata una espressa rinuncia all'esercizio dell'azione di rivalsa, si deve escludere che l'attribuzione ai lavoratori della quota di contributi posta a loro carico dalla legge possa tradursi in un aumento della retribuzione. Il che, anche a voler seguire il ragionamento dell'INPS, che indica, in sostanza, questo elemento come il presupposto idoneo a provare la sua legittimazione ad agire nel processo di che trattasi, dimostra che tale presupposto non sussiste. Il vero è, però, che la tesi del ricorrente, in ragione della necessaria legittimazione ad agire, si rivela infondata soprattutto sotto un diverso profilo.

Si deve premettere che non possono sussistere dubbi sul fatto che il credito contributivo dell'INPS comprenda non solo la quota posta a carico del datore di lavoro, ma anche quella che grava sul lavoratore; e parimenti non è dubbio che della relativa obbligazione, considerata nella sua interezza, debba rispondere, nel caso in esame, il fallimento, trattandosi di un debito dell'imprenditore fallito sorto in epoca anteriore all'apertura del procedimento concorsuale.

Affermato questo elementare principio, si deve tuttavia rilevare che la ragione creditoria dell'Ente previdenziale, nel senso onnicomprensivo appena indicato, è tutelata dalle disposizioni del R.D. 16 marzo 1942 n. 267 che regolano la procedura di accertamento dello stato passivo e non da quelle previste dal combinato disposto degli artt. 26 e 110 del medesimo testo legislativo, che disciplinano il reclamo avverso il decreto con il quale il giudice delegato rende esecutivo il piano di riparto. Come ha giustamente affermato il Tribunale, ha tutela della posizione creditoria dell'INPS può trovare attuazione soltanto con la domanda (tempestiva) prevista dall'art. 93 del R.D. n. 267 del 1942 o mediante l'insinuazione tardiva di cui al successivo art. 101: per mezzo di tali domande, infatti, l'Istituto può ottenere l'ammissione nello stato passivo dell'intero suo credito, comprensivo delle due distinte quote contributive, senza che in sede di successivo riparto, parziale o finale, possa essergli detratta la quota posta a carico dei lavoratori in base al rilievo che tale quota è stata a costoro già attribuita.

Si deve aggiungere che, quand'anche, errando, si ritenesse fondato il suddetto presupposto su cui fa leva il ricorrente - e cioè se fosse vero che il di più attribuito ai lavoratori debba risolversi in un aumento della retribuzione - la conclusione non potrebbe essere diversa, dal momento che per tale ulteriore credito contributivo l'INPS dovrebbe insinuarsi al passivo del fallimento. Anche in questa ipotesi, quindi, l'Istituto non sarebbe legittimato ad impugnare il piano di riparto.

Una tale legittimazione, viceversa, dovrebbe essere certamente ravvisata qualora fosse provato che dall'operato del curatore l'INPS, alla stregua di qualsiasi altro creditore, possa subire un pregiudizio delle sue ragioni creditorie.

Considerata, in ipotesi, l'illegittimità del comportamento del curatore, che si risolve, in definitiva, nell'attribuire a una determinata categoria di creditori somme di ammontare superiore a quelle loro spettanti (di dubbia recuperabilità), un tale comportamento potrebbe essere astrattamente ritenuto pregiudizievole per l'intero ceto creditorio, ben potendo dallo stesso derivare un depauperamento della massa attiva in danno di quest'ultimo. In concreto, però, l'INPS, come qualsiasi altro creditore già ammesso nello stato passivo (di grado privilegiato successivo a quello dei lavoratori o chirografario), sarebbe legittimato ad impugnare il piano di riparto soltanto previa allegazione (e necessaria dimostrazione) del nocumento che gliene deriva, per non potere ottenere, in sede di successiva distribuzione, il soddisfacimento delle proprie ragioni in modo pieno o, comunque, in misura superiore alla somma che effettivamente gli sarà attribuita.

Al riguardo, sia che la nozione di interesse ad agire si voglia configurare, secondo la tradizionale elaborazione dottrinaria, come una condizione dell'azione - consistente in una situazione oggettiva derivante da un fatto lesivo di un diritto che può essere eliminata mediante il processo - sia che la si consideri, conformemente all'opinione espressa da un'altra parte della dottrina, come intimamente collegata all'istituto della legittimazione attiva - intesa quest'ultima come la manifestazione stessa del diritto soggettivo leso - è evidente che l'impugnazione del piano di riparto può essere proposta soltanto da colui, che, lamentando la suddetta lesione, ne dia poi in concreto, a norma dell'art. 2697, comma 1, c.c., idonea dimostrazione.

Nel caso in esame, peraltro, a parte un fugace accenno fatto dalla difesa del ricorrente nel corso della discussione orale davanti a questa Corte, una tale questione non è stata minimamente prospettata nè nel reclamo avverso il decreto del giudice delegato ne' nel ricorso per cassazione. E questa mancata allegazione impedisce di ritenere che l'INPS fosse legittimato ad impugnare il piano di riparto, con la conseguenza che il provvedimento emanato dal Tribunale, nella cui motivazione sono state sostanzialmente individuate le ragioni che non consentivano l'accoglimento del reclamo, deve essere tenuto fermo.

Attesa la mancata costituzione dell'intimato fallimento, non deve essere emessa alcuna decisione in ordine alle spese del presente giudizio di legittimità.

 

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso; nulla per le spese.

Così deciso in Roma il 22 gennaio 1991.