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Il Caso.it, Sez. Giurisprudenza, 24311 - pubb. 07/10/2020.

Rilievo del difetto di potestas iudicandi del collegio arbitrale


Cassazione civile, sez. I, 31 Luglio 2020. Pres. Maria Cristina Giancola. Est. Lamorgese.

Collegio arbitrale - Difetto di "potestas iudicandi" - Rilevabilità d'ufficio anche in sede di giudizio di cassazione - Condizioni e limiti


Il difetto di "potestas iudicandi" del collegio decidente, comportando un vizio insanabile del lodo, può essere rilevato di ufficio nel giudizio di impugnazione, anche in sede di legittimità, con il solo limite del giudicato, indipendentemente dalla sua precedente deduzione nella fase arbitrale (soltanto) qualora derivi dalla nullità del compromesso o della clausola compromissoria. (massima ufficiale)

 

Fatto

A.B. impugnava il lodo arbitrale che, su domanda avanzata nei suoi confronti con atto notificato il 13 marzo 2007, lo aveva condannato a corrispondere Euro 116.755,27 agli eredi di A.B., socio di D.A. nella società D C. snc., a titolo di liquidazione della quota sociale.

L'impugnazione del D.A. veniva decisa dalla Corte d'appello di Roma, con sentenza del 20 maggio 2014, che rigettava i motivi che denunciavano, da un lato, la "improcedibilità e/o improponibilità dell'arbitrato" per difetto di potestà decisoria degli arbitri, sul presupposto che gli eredi non potessero avvalersi della clausola compromissoria, essendo terzi rispetto alla compagine societaria nella quale non erano subentrati, e, dall'altro, la "contraddittorietà nelle disposizioni (del lodo)", in relazione ai criteri di calcolo delle somme dovute. Sulla prima questione, la corte osservava che gli eredi, non subentrati nella società per mancato consenso del socio superstite, avevano correttamente attivato il giudizio arbitrale "sulla scorta del chiaro tenore letterale della clausola" di cui all'art. 11 dello statuto. La seconda questione, ad avviso della corte, implicava la valutazione di questioni di fatto sottratte al controllo del giudice dell'impugnazione.

Avverso questa sentenza il D.A. propone ricorso per cassazione, illustrato da memoria, cui resistono gli eredi P. con controricorso.

 

Motivi

Il primo motivo denuncia nullità della sentenza impugnata per violazione dell'art. 111 Cost., comma 2 e art. 101 c.p.c., lamentando il ricorrente che la domanda arbitrale degli eredi gli era stata notificata in proprio e quale socio superstite, ma non in rappresentanza della società E Cero snc, non evocata nel giudizio arbitrale, sicchè egli non era legittimato a contraddire sulla domanda degli eredi P..

Il motivo è infondato alla luce del consolidato principio, di cui la sentenza impugnata ha fatto corretta applicazione, secondo cui nel giudizio volto alla liquidazione della quota sociale di una società in nome collettivo, quest'ultima è legittimata passiva, ma l'unico socio superstite può essere convenuto in lite sia in nome della società che in proprio, al fine di fare valere la sua responsabilità illimitata per le obbligazioni sociali (Cass. n. 8222 del 2020), come nell'analogo caso in cui siano convenuti in giudizio tutti i soci, quando l'attore abbia inteso agire per far valere il proprio credito verso la società (Cass. n. 5248 del 2012).

A sostegno del secondo motivo, che denuncia violazione del D.Lgs. n. 5 del 2003, art. 34, - secondo cui gli atti costitutivi delle società possono prevedere la devoluzione agli arbitri delle controversie aventi ad oggetto diritti disponibili relativi al rapporto sociale, insorgenti tra i soci o tra i soci e la società, ad esclusione di quelle nei confronti degli eredi -, il ricorrente osserva che il citato art. 34 è applicabile ratione temporis, essendo entrato in vigore il 1 gennaio 2004, e prevalente sull'art. 11 dello statuto, che prevede una clausola compromissoria non adeguata alla nuova disposizione di legge e insuscettibile di essere interpretata in senso estensivo fino a ricomprendere gli eredi del socio defunto, non entrati a far parte della compagine sociale (per il mancato consenso da parte del socio superstite).

Il motivo è infondato.

Premesso che la clausola statutaria, trascritta nel ricorso, è di limpida chiarezza nel consentire la compromettibilità in arbitri di "qualsiasi controversia dovesse insorgere tra i soci oppure tra alcuni di essi e/o tra loro eredi e la società circa l'interpretazione e l'esecuzione del presente statuto e delle deliberazioni assunte ai sensi dello stesso", dunque anche nei confronti degli eredi del socio per la liquidazione della quota, non è condivisibile l'opposta tesi che fa leva sulla lettera dell'art. 34, comma 1, per dedurne l'inapplicabilità nelle controversie tra la società o i soci e gli eredi, atteso che le suddette controversie sono implicitamente incluse in quelle compromettibili per legge, in via intrinsecamente consequenziale a quelle "tra i soci ovvero tra i soci e la società che abbiano ad oggetto diritti disponibili".

Per la medesima ragione può essere confutato il profilo argomentativo svolto fugacemente nel motivo in esame, con il quale il ricorrente deduce il mancato adeguamento dello statuto societario al D.Lgs. n. 5 del 2003, art. 34, per dedurre l'inapplicabilità - e dunque l'invalidità - della clausola statutaria per contrasto con la nuova norma, la quale, tuttavia, come si è detto, non esclude di per sè la compromettibilità delle liti societarie nei confronti degli eredi.

E' solo nella memoria che il ricorrente sviluppa la questione della sopravvenuta invalidità della clausola sotto il profilo delle modalità di nomina degli arbitri, prevista nello statuto con modalità (nomina di due arbitri dalle parti e del terzo arbitro di comune accordo delle parti o dal presidente della Camera di commercio) non più compatibili con il D.Lgs. 2003, art. 34, comma 2, (che prevede la nomina da parte di soggetto estraneo alla società o, in mancanza, dal presidente tribunale) (cfr. Cass. n. 21422 del 2016).

La questione assume rilievo nell'ottica della eventuale rilevabilità d'ufficio del difetto della potestas iudicandi del collegio arbitrale, in fase di impugnazione (Cass. n. 21215 del 2014, n. 10729 del 2013, n. 9604 del 1991) e anche in sede di legittimità (Cass. n. 21100 del 2014).

E' noto, tuttavia, il principio che preclude al giudice dell'impugnazione di rilevare d'ufficio la nullità negoziale, la cui validità sia stata, anche implicitamente, statuita nel processo con efficacia di giudicato (Cass. n. 10132 del 2006), come accaduto nella specie.

Ed infatti, nel giudizio impugnatorio davanti alla corte d'appello il ricorrente aveva eccepito la improcedibilità o improponibilità dell'arbitrato in ragione dell'asserita impossibilità per gli eredi, non entrati a far parte della compagine societaria, di avvalersi della clausola compromissoria, che assumeva contrastante con la proposta interpretazione del D.Lgs. n. 5 del 2003, art. 34, comma 1, nel senso della compromettibilità delle sole controversie tra i soci e la società o tra i soci. La diversa opzione interpretativa seguita dalla corte d'appello ha trovato conferma in questa sede, con conseguente formazione del giudicato interno sulla validità della clausola, senza possibilità di rimetterla in discussione in sede di legittimità per un profilo diverso, non introdotto nel giudizio di merito e, comunque, implicante nuove valutazioni di elementi fattuali dai quali possa desumersi l'esistenza dell'invalidità (Cass. n. 8478 del 2000).

Con specifico riferimento alla questione della nomina degli arbitri, questa Corte ha anche precisato che la clausola compromissoria contenuta nello statuto di una società di persone con modalità divergenti dall'art. 34, comma 2, è affetta da nullità sopravvenuta, rilevabile d'ufficio "ove non fatta valere altra e diversa causa di illegittimità in via d'azione" (Cass. n. 3665 del 2014), come nel caso in esame, in cui il ricorrente nel giudizio impugnatoti ha denunciato (infondatamente) una diversa causa di inesistenza della potestas iudicandi degli arbitri, dunque di illegittimità o inoperatività della clausola, in relazione al profilo del difetto di legittimazione degli eredi ad avvalersene.

In conclusione, il ricorso è rigettato.

Le spese seguono la soccombenza e si liquidano in dispositivo.

 

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente alle spese, liquidate in Euro 4200,00, oltre accessori di legge.

Dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, ai sensi delD.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, nel testo introdotto dallaL. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, in misura pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, il 22 giugno 2020.

Depositato in Cancelleria il 31 luglio 2020.