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Il Caso.it, Sez. Giurisprudenza, 24085 - pubb. 11/01/2020.

Irrilevante ogni indagine sull'imputabilità o meno all'imprenditore medesimo delle cause del dissesto


Cassazione civile, sez. I, 21 Novembre 1986, n. 6856. Pres. Scanzano. Est. Lipari.

Fallimento - Effetti - Sugli atti pregiudizievoli ai creditori - Stato di insolvenza - Nozione


Lo stato d'insolvenza dell'imprenditore commerciale, quale presupposto per la dichiarazione di fallimento, si realizza in presenza di una situazione d'impotenza, funzionale e non transitoria, a soddisfare regolarmente e con mezzi normali le proprie obbligazioni, a seguito del venir meno delle condizioni di liquidità e di credito necessario alla relativa attività, mentre resta in proposito irrilevante ogni indagine sull'imputabilità o meno all'imprenditore medesimo delle cause del dissesto, ovvero sulla loro riferibilità a rapporti estranei all'impresa, così come sull'effettiva esistenza ed entità di un determinato credito, incluso quello di chi ha proposto l'istanza di fallimento, qualora la sua eventuale Mancanza o minore entità non varrebbe comunque ad escludere la indicata situazione. (massima ufficiale)

 

Svolgimento del processo

Con citazione notificata il 31 maggio 1979 S. L. si opponeva, davanti al Tribunale di Ferrara, alla dichiarazione del proprio fallimento, effettuata con sentenza 11 maggio 1979 dal medesimo Tribunale.

L'opposizione, dopo che era stata disposta l'integrazione del contraddittorio nei confronti del creditore istante s.p.a. Industrie Liquori C.-L., veniva respinta con sentenza 9 marzo - 10 aprile 1981.

La Corte d'appello, su gravame del L., confermava la decisione dei primi giudici sulla base delle considerazioni qui di seguito riassunte.

Si trattava di stabilire se esistesse o meno lo stato di insolvenza, lamentando sostanzialmente l'opponente che il tribunale avesse scambiato per "insolvenza" una transitoria, giustificata difficoltà economica.

Nel precedere al relativo esame occorreva muovere dal carattere singolare dei rapporti intercorsi fra l'attività personalmente svolta dal L., che gestiva un supermercato alimentare, e quella facente capo alla società, a carattere familiare, C.-L., di cui il L. era stato unico amministratore, amministrandola in modo che residuasse costantemente una cospicua liquidità (talvolta di centinaia di milioni, neppure depositati in banca e quindi a sua immediata disposizione), utilizzata a vantaggio del proprio commercio personale, mentre veniva preso a mutuo il denaro occorrente alla società, gravata conseguentemente da rilevanti interessi passivi e dalla quale l'imprenditore individuale prelevava le merci con cui rifornire il proprio supermercato (circa l'80% del totale), pagandole costantemente in ritardo, senza corrispondere interessi, presentando lo scoperto verso detta società una media di cento milioni.

Nonostante i vantaggi derivati da tale situazione l'azienda di S. L. venne a trovarsi in situazione deficitaria, essendosi accertato, dopo la dichiarazione del fallimento, un passivo di L. 1.588.466.855 di fronte ad un attivo acendente a circa la metà di detta somma. Contro le risultanze dello stato passivo l'opponente obiettava che gran parte dei crediti insinuati era stata contestata: ma, nonostante la contestazione, il credito verso il fallito, vagliato dal giudice in quanto ammesso al passivo, è suscettibile di per sè di evidenziare lo stato di insolvenza; nella specie il credito della società istante per il fallimento (s.p.a. Industrie Liquori C. L.) di L. 944.335.863 si basava, fra l'altro, sul dato pacifico degli interessi non corrisposti e sui prelievi di merci per rifornire il supermercato. Ma anche ad escludere i crediti contestati, residuava pur sempre il debito complessivo di L. 372.148.992, al quale non giovava contrapporre l'attivo, essendo noto che lo stato di insolvenza dell'imprenditore è costituito dalla impossibilità di far fronte regolarmente alle proprie obbligazioni e ciò indipendentemente dalla consistenza dell'attivo che, per quanto cospicuo, non valga ad ovviare a tale situazione.

Nè, infine, giovava addurre la causa di forza maggiore della insolvenza causata dall'arresto dell'attività del supermercato per circa un mese, includente il periodo immediatamente precedente le festività pasquali, determinato dalla apposizione di sigilli a seguito del fallimento della società C.-L.. Era esatto che, per un deprecabile errore data la contiguità della sede della società e del supermercato, era stata sottratta temporaneamente al L., a seguito di tale opposizione, la disponibilità della sua impresa; ma tale circostanza, in ordine alla quale il danneggiato avrebbe potuto far valere nelle opportune sedi eventuali diritti, non assumeva decisivo rilievo nella fattispecie, non sussistendo il preteso nesso di causalità con l'insolvenza sicuramente preesistente. Se, infatti, l'appellante aveva un debito costante, e di entità prevalente, nei confronti della società, ormai da anni; se, nonostante i vantaggi ricavati dalle manovre finanziarie ai danni della società ed a proprio favore, era stato accertato un passivo imponente di varie centinaia di milioni, anche a voler tener conto delle contestazioni, in gran parte infondate, se ne doveva dedurre che il danno provocato dall'ingiusta chiusura del supermercato non era stato determinato, ma aveva solo aggravato un dissesto già notevole e risalente ad alcuni anni prima.

Ricorre per cassazione il L., formulando un unico mezzo di gravame, illustrato da memoria.

Resistono, con separati controricorsi, il fallimento di L. S. e quello della società "Industria Liquori C.-L.".

 

Motivi della decisione

1. Denunciando, con l'unico mezzo, la violazione e falsa applicazione dell'art. 5 della legge fallimentare (r.d. 16 marzo 1942 n. 267); l'omesso, illogico e contraddittorio esame delle risultanze processuali; l'omessa insufficiente e contraddittoria motivazione su punti decisivi della controversia, il fallimento si duole che sia stata rigettata l'opposizione alla propria dichiarazione di fallimento, riconoscendo la sussistenza dello stato di insolvenza; e sostiene che, avendo la stessa sentenza impugnata riconosciuto che egli aveva a disposizione una notevole liquidità, a prescindere dalla fonte della medesima, avrebbe dovuto essere escluso il presupposto per l'apertura della procedura concorsuale. Nè, a contrastare siffatto assunto, sarebbe valso invocare l'ammontare del passivo accertato nella misura di L. 1.588.466.855, in quanto alla formazione dello stesso concorreva in modo determinante il credito vantato dalla società L.-C., il quale, a prescindere dalle contestazioni sull'entità, non si sarebbe dovuto imputare al L., quale imprenditore singolo, ma quale amministratore della società. Sempre la medesima qualità veniva in considerazione circa il credito per IVA vantato dalla finanza. In definitiva sarebbe residuato un debito di L. 75.119.803 verso la società fallita, dal cui mancato versamento derivava l'istanza che aveva portato alla dichiarazione di fallimento; ma poiché tale inadempimento era dipeso esclusivamente dalla chiusura del negozio per illegittima apposizione di sigilli, in occasione della dichiarazione di fallimento della società, non sussistevano gli estremi dall'insolvenza che la Corte avrebbe dovuto escludere se avesse individuato le esatte poste del passivo riguardanti l'impresa individuale, tenendo conto della transitoria difficoltà in cui l'imprenditore versava per effetto della forzosa chiusura, da contrapporre alla costante liquidità, dell'impresa per il passato, dalla stessa sentenza riconosciuta. 2. Il ricorso è infondato.

Sulla nozione di stato di insolvenza dell'impresa commerciale, presupposto per la dichiarazione di fallimento, ai sensi dell'art. 5 del r.d. 16 marzo 1942 n. 267 (c.d. legge fallimentare), la giurisprudenza è univoca, nel senso che tale presupposto si realizza in presenza di una situazione di impotenza economica che non consente più all'imprenditore di adempiere regolarmente, e con mezzi normali, le proprie obbligazioni, essendo venute meno le condizioni di liquidità e di credito necessarie alla relativa attività commerciale, rimanendo irrilevante la circostanza che l'attivo risulti superiore al passivo (Cass. 2055-83, 1067-80, 3198-79, 1274-78, 1118-78, 3371-77), essendo determinate il rilievo che in difetto di liquidità e di credito il passivo potrebbe essere estinto solo a prezzo e nel concorso di incerte ed anormali operazioni di finanziamento e di realizzo (Cass. 3223-73).

Tale stato di insolvenza, che deve essere valutato nella sua obiettività, va ritenuto sussistente anche se le cause che l'hanno determinato non siano imputabili all'imprenditore (Cass. 4351.80, 3371-77 cit., 547-75, 267-75) riferendosi eventualmente a rapporti estranei all'impresa (Cass. 1918-84; 547-75 cit.).

Il significato oggettivo dell'insolvenza, che è quello rilevante agli effetti dell'art. 5 della legge fallimentare, deriva da una valutazione circa le condizioni economiche necessarie (secondo un criterio di normalità) all'esercizio di attività economiche, e l'insolvenza di identifica con uno stato di impotenza funzionale non transitoria a soddisfare le obbligazioni inerenti all'impresa, e si esprime, secondo una tipicità desumibile dai dati della esperienza economica, nell'incapacità di produrre beni con margine di redditività da destinare alla copertura delle esigenze di impresa (prima fra tutte l'estinzione dei debiti), nonchè nell'impossibilità di ricorrere al credito a condizioni normali, senza rovinose decurtazioni del patrimonio.

Il convincimento espresso dal giudice di merito circa la sussistenza dello stato di insolvenza costituisce apprezzamento di fatto, incensurabile in cassazione, se sorretto da motivazione esauriente e giuridicamente corretta (Cass. 3371-77 cit.).

Consistendo lo stato di insolvenza nella oggettiva impossibilità di cui l'imprenditore si trovava al momento della dichiarazione di far fronte alle proprie obbligazioni con mezzi ordinari di pagamento, ne consegue che le circostanze inerenti alla concreta sussistenza o meno di una o più obbligazioni rimaste inadempiute, al loro ammontare, al rapporto fra passivo ed attivo dell'impresa, alla possibilità o meno di estinguere i debiti dopo la dichiarazione di fallimento, senza far ricorso a liquidazione di attività, se non possono considerarsi decisive, singolarmente esaminate, al fine dell'affermazione o negazione dello stato di insolvenza, costituiscono, d'altra parte, elementi presuntivi idonei ad evidenziare, ove valutati nel loro insieme, la ricorrenza o meno dell'indicata obiettiva incapacità dell'imprenditore a fronteggiare i propri impegni (Cass. 2055-83, 1224-78).

Parimenti l'eventuale inesistenza del credito di chi ha proposto istanza per la dichiarazione di fallimento non osta alla dichiarazione medesima, nè può comportarne successiva revoca, ove non sia tale da far escludere il presupposto per l'instaurarsi della procedura concorsuale, cioè l'impossibilità del debitore di fronteggiare tempestivamente i propri obblighi con mezzi normali di pagamento (Cass. 3095-81, 1332-78). 3. Sostiene il ricorrente che lo stato di insolvenza doveva essere escluso nella specie, avendo la stessa sentenza impugnata dato atto di una rilevante liquidità dell'imprenditore.

Ma in realtà, e lo stesso ricorrente lo riconosce, tale liquidità era stata evidenziata come modalità di gestione della società C.-L., di cui il S. L., era amministratore, attingendovi per la necessità del proprio commercio (esercizio di un supermercato alimentare).

La Corte d'appello ha sottolineato, a premessa della motivazione della sentenza, il "carattere singolare" della situazione venutasi a creare per la doppia qualità rivestita dal L. di amministratore della società e di gestore di un negozio in proprio, pervenendo, peraltro, alla conclusione che, nonostante i "notevoli vantaggi" conseguiti grazie all'anomalo comportamento dell'amministratore della società, l'impresa individuale, sommersa da un ingentissimo passivo, si presentava con i connotati manifesti della decozione.

Osservano al riguardo i giudici di secondo grado che, nonostante la società fosse stata "gestita in modo da avere costantemente un residuo di liquidità molto rilevante", "utilizzata nel commercio personale" il L., quale imprenditore individuale, si era venuto a trovare in stato di insolvenza in quanto sussisteva "un debito costante, e di entità rilevante, nei confronti della società", ed era stato "accertato un passivo imponente di varie centinaia di milioni", anche a voler tener conto delle contestazioni "in parte palesemente infondate".

Ne risulta, con sicurezza, che la liquidata viene postulata dalla Corte d'appello con riferimento alla gestione della società e quindi come qualità esclusiva di essa (poi evidentemente venuta meno se sopravvenne il fallimento).

Nè regge la deduzione del ricorrente che, dimenticando significativamente la "mala gestio", sostiene che qualunque fosse stata la fonte della liquidità, ad essa egli aveva attinto attraverso i "vasi comunicanti" della società, e dell'imposta individuale da lui gestita.

In effetti se tale comunicazione avesse funzionato la liquidità avrebbe assistito sia l'impresa individuale che quella sociale; la circostanza che entrambe siano state dichiarate fallite dimostra che essa in realtà non era risultata sufficiente, probabilmente proprio per l'indebita comunicazione, nè per l'una nè per l'altra.

La liquidità che consente di escludere l'insolvenza si manifesta nella correntezza del credito goduto dall'impresa in via generale e con mezzi ordinari, atteggiandola a fonti lecite in conformità alla legge; se invece quella che appare essere una disponibilità di danaro è frutto di operazioni illecite, e si realizza in ipotesi attraverso la violazione dei doveri inerenti alla (corretta) amministrazione dell'ente, è evidente che non può invocarsi in giudizio tale disponibilità, non fisiologica, ma patologica, per assumere la carenza dei presupposti per il fallimento.

Nel caso di specie questa distorsione nell'amministrazione della società, deviando il flusso di liquidità della società stessa all'impresa individuale, ha comportato per un verso lo stato di decozione dell'ente sociale, e non ha impedito dall'altro la "crisi" dell'impresa personale del L., il quale una volta intervenuto il fallimento della società ed essendo stato privato dei poteri di amministrazione, non ha potuto continuare ad utilizzare quell'irregolare flusso di denaro (pur non suscettibile di essere assunto di per sè ad indice di normale liquidità) che gli consentiva di esercitare il commercio, e non ha potuto fare fronte agli impegni debitori, in primis a quelli verso la società principale fornitrice delle merci; evidenziando la esiguità del credito posto a base della istanza fallimentare la fondamentale circostanza che l'imprenditore non godeva affatto di credito bancario, non essendo stato in grado di saldare l'importo debitorio "costante" verso la società che si presentava evidentemente come condicio sine qua non per la sopravvenienza dell'impresa.

Molto esattamente, perciò, il tribunale aveva sottolineato che la liquidità del L. "era soltanto fittizia, poiché derivava dall'esistenza di un debito più o meno rilevante, ma sempre esistente, nei confronti della società," evidenziando gli effetti di questo comportamento del L. che portò al dissesto della società dissanguata per consentire il commercio personale dell'amministratore non corretto: e, nel momento stesso in cui venne, a seguito del fallimento della società, a cessare quel flusso di "falsa" liquidità, provocò il fallimento anche del S. L. in proprio che si trovò nella impossibilità, persino, di pagare una somma relativamente modesta, come quella richiestagli dalla società fallita, a sicura riprova che egli non godeva di alcun credito, nè presso le banche, nè presso i privati. 4. Il ricorrente cerca di volgere a suo vantaggio la commistione tra affari della società ed uffici della impresa individuale per ridimensionarne il passivo.

A parte il rilievo che, come si è messo in evidenza, richiamando i principi di diritto interferenti sulla presente controversia, addirittura la stessa inesistenza del credito dell'istante per il fallimento è compatibile con l'obiettivo riconoscimento dello stato di insolvenza, accertato ineccepibilmente dai giudici di merito, la tesi del ricorrente, secondo cui i giudici del merito, avrebbero confuso situazioni di pertinenza del fallimento della società, con situazioni di pertinenza dell'impresa, è del tutto priva di riscontri obiettivi, e si presenta, comunque, con il carattere della novità.

Si sostiene che il credito per interessi non corrisposti alla società sulle merci prelevate a favore del proprio esercizio commerciale avrebbe dovuto essere imputato al L. quale amministratore della società, non potendo concorrere a formare il passivo del suo fallimento personale.

La tesi è palesemente priva di fondamento giuridico.

Posto che il L. ha pagato la merce utilizzata per rifornire il proprio supermercato con ritardo, senza corrispondere interessi, è palese che il relativo debito grava sul suo patrimonio personale, e quindi sul fallimento che lo colpisce quale imprenditore individuale.

La circostanza che l'accumularsi del debito di interessi sia stato facilitato dalla sua qualità di amministratore della società creditrice, con abuso delle funzioni svolte, potrà in astratto configurare una azione di responsabilità. della società verso di lui, ma non influisce in alcun modo sulla riconducibilità di quel debito alla gestione della sua impresa personale, inerendo all'acquisto di merci per il rifornimento del supermercato.

Quanto alla deduzione relativa ad un preteso credito IVA vantato dalla finanza nei confronti della società, e che avrebbe dovuto essere insinuato nel passivo della società, mentre venne posto a carico del L. quale imprenditore, la novità è del tutto manifesta, non essendovi traccia di una deduzione siffatta nelle precedenti deduzioni difensive. Comunque, attesa la globalità della valutazione resa in punto di insolvenza, resterebbe operante l'enunciato principio circa l'irrilevanza della contestazione su taluno dei crediti insinuati al passivo.

Se poi, come adombra la difesa del fallimento della società C.-L., nel contrapporre debiti del L. quale amministratore della società a debiti del medesimo quale imprenditore commerciale, il ricorrente abbia voluto sostenere che i primi, in quanto estranei alla diretta gestione del supermercato, non si sarebbe potuto tenere conto ai fini della relativa dichiarazione di fallimento, è agevole rispondere ad abundantiam in linea di diritto, a prescindere da preclusivi rilievi di ordine fattuale, che per la sussistenza dello stato d'insolvenza dell'imprenditore commerciale, al fine della dichiarazione di fallimento, è del tutto irrilevante la natura e l'origine dei debiti del soggetto dichiarato fallito, anche se sono inerenti ad attività non commerciali, sia per quelli verso i creditori istanti, sia per quelli successivamente accertati nella formazione dello stato passivo (Cass. 1981-84).

Infine la sottolineatura del carattere obiettivo dello di insolvenza toglie radicalmente rilievo alla invocazione della "forza maggiore" (apposizione erronea dei sigilli anche al supermercato in occasione della dichiarazione di fallimento della società) quale causa dello stato di insolvenza riscontrato dai giudici del merito.

In questa sede di legittimità, è sufficiente osservare che non vi è contraddizione, o irrazionalità, nel ragionamento della Corte la quale, muovendo dal dato dello storno della liquidità della società a favore dell'impresa individuale di S. L., pervenne alla argomentata (e per ciò stesso insindacabile) conclusione che "ciononostante" la gestione del supermercato.

Comunque, in punto di fatto, con esauriente motivazione, la Corte d'appello ha escluso il preteso nesso di causalità.

In conclusione il ricorso, essendo risultato giuridicamente infondato, deve essere respinto.

Le spese vanno poste a carico del ricorrente soccombente e si liquidano come in dispositivo.

 

p.q.m.

La Corte di Cassazione - I Sez. civ. 1. rigetta il ricorso; 2. condanna il ricorrente S. L. a rivalere delle spese della presente fase di cassazione il fallimento di S. L., e quello; della s.p.a. Industrie Liquori C.-L.; 3. liquida tali spese nella misura di lire 1.066.000 di cui L. 1.000.000 per onorari di difesa nei confronti del Fallimento L. S., e nella misura di L. 1.571.000 di cui L. 1.500.000 per onorari di difesa nei confronti del Fallimento della s.p.a. Industrie Liquori C. e L..

Così deciso in Roma il 3 giugno 1986.