Crisi d'Impresa e Insolvenza


Il Caso.it, Sez. Giurisprudenza, 24081 - pubb. 11/01/2020

Situazione d'insolvenza e pactum de non petendo

Cassazione civile, sez. I, 08 Febbraio 1989, n. 795. Pres. Scanzano. Est. Caturani.


Stato d'insolvenza - In sede civile - Pactum de non petendo tra imprenditore e creditori - Proroga delle originarie scadenze dei debiti - Sopravvenienza di tali scadenze - Insolvenza - Configurabilità - Esclusione



Un "pactum de non petendo", che risulti accertato fra l'imprenditore e tutti i suoi creditori, per la proroga delle originarie scadenze dei debiti, osta alla configurabilità di una situazione d'insolvenza, al sopraggiungere di dette originarie scadenze anche al fine della dichiarazione di fallimento. (massima ufficiale)


Massimario Ragionato



 


Svolgimento del processo

Con sentenza del 21 ottobre 1980 il Tribunale di Roma dichiarava d'ufficio il fallimento della S.r.l. Petrasso.

Con citazione del 14 novembre 1980, la S.r.l. Petrasso proponeva opposizione alla sentenza assumendo la mancanza dello stato di insolvenza e che, comunque, l'accertamento dell'insolvenza avrebbe dovuto essere compiuto con riferimento non alla singola società, ma all'intero gruppo di cui questa faceva parte, che tra la stessa società e l'ICCRI, suo maggior creditore, era intervenuto un pactum de non potendo, che aveva eliminato lo stato di insolvenza, che l'illegittimità riscontra era addebitabile alla inadempienza del Comune di Roma, il quale, rifiutando il pagamento di oltre 29 miliardi di lire alla S.r.l. Siena, non aveva consentito a quest'ultima di pagare il debito verso la S.r.l. Petrasso.

Il Tribunale, con sentenza del 1 aprile 1982, rigettava l'opposizione ed analoga pronunzia veniva emessa dalla Corte d'appello di Roma adita dalla parte soccombente.

Per la cassazione di tale sentenza ricorre la S.r.l. Petrasso in base a quattro motivi; resiste con controricorso il fallimento della Petrasso S.r.l. che ha anche presentato memoria.

 

Motivi della decisione

1) Nell'ordine logico è pregiudiziale l'esame del quarto motivo col quale la ricorrente si duole che la Corte d'appello, incorrendo anche in difetto di motivazione, abbia negato la sospensione del giudizio, ai sensi dell'art. 295 C.P.C., nonostante la pendenza di altro processo avente ad oggetto la esistenza, validità ed efficacia del pactum de non petendo dedotto dalla società a sostegno della sua opposizione alla sentenza dichiarativa di fallimento, attesa la pregiudizialità logico-giuridica di tale accertamento nel presente giudizio.

La censura non è fondata.

La Corte d'appello ha rettamente negato la sospensione necessaria del processo ai sensi dell'art. 295 C.P.C., escludendo che sussistesse nella specie alcun rapporto di pregiudizialità tra la causa vertente tra ICCRI - fallimento dei Camillo Caltagirone ed altri e quella tra le parti del presente giudizio, sul rilievo che tali cause non vertono tra le stesse parti sicché la sentenza resa nel primo giudizio, che avrebbe per oggetto la incidenza del pectum de non petendo su quel fallimento, non potrebbe in nessun caso fare stato in questo giudizio, per i principi che attengono alla efficacia soggettiva della cosa giudicata (art. 2909 c.c.).

3) Iniziando l'indagine (che rifletta la ritenuta insolvenza della società), dal secondo motivo di ricorso, con esso la ricorrente si duole della violazione e falsa applicazione dei principi in materia di "gruppi" di società nonché dell'art. 12 delle preleggi, assumendo che erroneamente la Corte d'appello ha negato la rilevanza giuridica del gruppo in tema di accertamento dell'insolvenza di una società ad esso partecipante e non ha applicato analogicamente la disciplina della legge 3 aprile 1979 n. 95 (C.D. legge Prodi), contenente provvedimenti urgenti per l'amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi, ma sotto entrambi i profili le proposte censure non colgono nel segno.

La figura del "gruppo" di società ricorre allorché il concetto economico di impresa (collettiva) si esaurisce, dal punto di vista giuridico, nella costituzione di una singola società per azioni, ma di fronte ad una impresa soltanto economicamente unitaria, si assiste ad una molteplicità di società le cui azioni appartengono direttamente alle medesime persone. Il fenomeno che ricorre più frequentemente è quello del "gruppo" di società il quale agisce sotto il controllo di una società madre o società capogruppo.

Ciascuna delle società che fanno parte del gruppo esplica una parte dell'attività economica complessiva ovvero agisce in un determinato ambito territoriale, con questa caratteristica che le azioni di ognuna delle società sono in possesso nella totalità o nella maggioranza, di una distinta società (la società madre o capogruppo) detta anche holding.

Essa esercita sempre poteri direttivi sul gruppo e può a seconda dei casi, a sua volta, partecipare o meno al processo produttivo.

I riferimenti normativi al "gruppo" di società sono contenuti nell'art. 2359 c.c. in tema di società controllate e società collegate (i cui rapporti sono stati poi specificatamente regolati dalla legge 7 giugno 1974 n. 216, la quale ha dato una più completa definizione del controllo e del collegamento) nonché nel D.L. 3 gennaio 1979 n. 26 convertito in L. 3 aprile 1979 n. 95 concernente provvedimenti urgenti per l'amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi, la cui disciplina - anche se tende a conseguire un risultato che di per sè non è incompatibile con la distinta soggettività delle società raggruppate, attraverso il coinvolgimento nella medesima procedura concorsuale delle altre società del gruppo di cui fa parte quella ammessa all'amministrazione straordinaria - è comunque ispirata ad esigenze di carattere eccezionale tendenti ad assicurare, in considerazione dello stato di crisi in cui versano determinate imprese, il proseguimento delle attività produttive sostenute anche dai finanziamenti pubblici ed il mantenimento dei livelli occupazionali.

Dalla corrispondente disciplina non è quindi possibile ricavare alcun principio (art. 12 preleggi) che autorizzi una diversa configurazione del gruppo di società nel sistema vigente al di là delle ipotesi eccezionali nelle quali la figura è specificatamente prevista della legge a ben determinati effetti giuridici.

Altrettanto va detto per quanto riguarda la disciplina risultante dal D.L. 24 maggio 1986 n. 218 che ha emanato le norme per la proroga del termine massimo di continuazione dell'esercizio di impresa e per la gestione unitaria di gruppo delle grandi imprese in crisi sottoposte ad amministrazione straordinaria.

Il testo normativo, dopo aver previsto che le varie società costituenti il gruppo sono considerate un solo soggetto, così dispone: "il risultato della gestione viene imputato al momento della chiusura della procedura alle singole imprese e proporzionalmente alle singole masse passive secondo il rapporto esistente alla data di apertura della procedura". Come si è osservato in dottrina, trattasi di una disciplina a carattere eccezionale, determinata da un intreccio inestricabile di rapporti di incerta riferibilità soggettiva tra le varie imprese del gruppo, onde la ragione che ha indotto il liquidatore a derogare al principio, che è rimasto tuttavia fermo al di fuori della peculiare ipotesi considerata, dalla ordinaria distinzione soggettiva delle società costituenti il gruppo.

D'altra parte, la giurisprudenza di questa Corte, con un indirizzo costante che ha avuto inizio con la remota pronuncia n. 45 del 1957, ha sempre affermato la distinta soggettività giuridica delle società aventi ciascuna un proprio patrimonio, propri organi anche rappresentativi, propri diritti ed obblighi, onde si è concluso che giuridicamente sono tante le imprese quante le società partecipanti al gruppo.

Il principio è stato ribadito in tema di rapporti di lavoro (sent. nn. 3945-86; 1567-83; 7005-82; 6560-82; 650-81) nonché a proposito della responsabilità dell'unico azionista per le obbligazioni sociali ex art. 2362 c.c. (sent. n. 2879-85).

La difesa della ricorrente non contesta nè disconosce il principio della distinta personalità giuridica delle società raggruppate, ma afferma che non potevano ignorarsi ai fini dell'accertamento dello stato d'insolvenza della società ricorrente, le innegabili connessioni economiche con le altre società del gruppo Caltagirone, non potendosi prescindere "da una valutazione globale della vicenda per i suoi riflessi sulla situazione economica anche del singolo soggetto giuridico".

La tesi non può essere seguita dal Collegio, in quanto essa accoglie una nozione di soggettività giuridica a senso unico che non trova alcun addentellato nel sistema normativo.

Se si accetta il principio della distinta soggettività delle società partecipanti al "gruppo", ne discende che l'accertamento dell'insolvenza, quale presupposto della dichiarazione di fallimento, va compiuto nei confronti della singola società che si assume versare in una unica situazione di illiquidità, dovendosi ammettere, per la sua distinta personalità giuridica, che la figura dell'imprenditore, ai sensi dell'art. 2082 c.c., è ad essa riferibile e non già al gruppo di cui fa parte.

La tesi criticata non può accogliersi perché urta altresì con la finalità stessa della costituzione del "gruppo" di società.

Com'è noto, essa tende a sottrarre il capitale investito in ciascun ramo di attività che fa capo ad una società del gruppo ai rischi relativi a ciascun altro ramo che si ricollega ad altra società dello stesso gruppo. Le diverse società, essendo fra loro giuridicamente distinte, in coerenza con quella finalità, rispondono solo dei debiti assunti da ciascuna di esse; ne consegue che l'insolvenza che interessa una delle società sarà del tutto indifferente dal punto di vista giuridico (proprio perché incide sul patrimonio di un distinto soggetto) per il patrimonio delle altre società del gruppo.

Deve quindi affermarsi il principio secondo cui, ai fini della dichiarazione di fallimento di una società inserita in un "gruppo di società", l'accertamento dello stato di insolvenza non può essere esteso alle altre società del gruppo di cui fa parte, ma va compiuto con esclusivo riferimento alla situazione economica di detta società, la cui distinta soggettività giuridica le fa acquisire la veste di imprenditore ex art. 2082 c.c. che, ove versi nello stato di insolvenza, deve essere dichiarato fallito.

4) Col terzo motivo la ricorrente sostiene che erroneamente la Corte d'appello, ai fini dell'assoggettamento dell'impresa alla procedura concorsuale, non ha riconosciuto rilevanza al pactum de non petendo intervenuto con tutti i creditori il quale è idoneo ad evitare la dichiarazione di fallimento.

La prova orale richiesta sul punto doveva quindi ritenersi ammissibile; nè erano applicabili i limiti di ammissibilità della prova per testi previsti dagli artt. 2721 e 2723 c.c..

Le censure non sono fondate.

È esatto, in linea di principio, quel che osserva la difesa della ricorrente, che cioè è ammissibile un accordo stragiudiziale tra il debitore ed i creditori diretto ad evitare la dichiarazione di fallimento (Cfr. la sentenza n. 1562-79); ed è quindi erronea la motivazione con cui la Corte d'appello ha escluso l'ammissibilità del pactum de non petendo intervenuto con tutti i creditori, integrante una moratoria nei pagamenti, al fine di pervenire ad una definizione stragiudiziale delle pendenze debitorie.

La Corte di merito, nel negare il suddetto principio, non ha tenuto presente che il pactum de non petendo intervenuto con i creditori sposta nel tempo la stessa scadenza delle obbligazioni, onde in sua presenza non può non escludersi lo stato di insolvenza del debitore con riferimento alla scadenza originariamente prevista dagli obblighi assunti.

La critica della ricorrente non esplica, tuttavia in questa sede alcun effetto decisivo, posto che la Corte d'appello con autonoma motivazione, ha poi rettamente negato rilevanza ed ammissibilità ala prova per testi che la società ricorrente aveva formulato per dimostrare l'avvenuta stipulazione del patto.

Al riguardo, anche se non può condividersi la tesi dell'impugnata sentenza che ha applicato il limite di ammissibilità della prova testimoniale di cui all'art. 2721 c.c., quando il valore del contratto eccede le lire cinquemila, essendo attribuito al giudice, nel giudizio di opposizione alla sentenza dichiarativa di fallimento, un ampio potere di indagine diretto all'accertamento anche d'ufficio dei presupposti per la dichiarazione di fallimento (Cfr. per il principio generale, la sent. n. 1820-80), il quale mal si concilia con la limitazione probatoria accennata, la motivazione con cui la Corte di appello ha ritenuto inammissibile la prova si sottrae in concreto alle proposte censure per quanto riflette la dedotta violazione dell'art. 2723 c.c. (che riguarda la limitazione della prova testimoniale per i fatti posteriori alla formazione del documento).

In proposito la Corte di appello ha difatti osservato giustamente che la prova per testi del pactum de non potendo doveva ritenersi inammissibile in quanto non solo non erano stati indicati i creditori che avrebbero aderito al patto nonché le circostanze di tempo e di luogo in cui l'accordo sarebbe stato concluso, nè - soprattutto - il termine di durata, ma non era altresì verosimile che impegni di così vasta portata potessero essere stati assunti solo verbalmente da banche e imprenditori dopo la stipulazione dei mutui ipotecari.

Questa motivazione, neppure specificamente censurata dalla ricorrente, è idonea a sorreggere il decisum, onde anche questo motivo di ricorso non merita accoglimento.

5) Passando all'esame del primo motivo, con esso si assume che la Corte di appello, incorrendo anche in difetto di motivazione. ha confuso lo stato di insolvenza, presupposto necessario per la dichiarazione di fallimento ai sensi dell'art. 5 L.F., con momentanea difficoltà economica che riguardava direttamente altre società del gruppo ed il socio dominante ed amministratore di fatto della società ricorrente, la quale non versava in una cronica incapacità di adempiere le proprie obbligazioni.

La censura è priva di fondamento.

La Corte d'appello, con motivazione immune da vizi logici e giuridici, ha accertato lo stato di illiquidità e quindi la insolvenza della società ricorrente in base ad una violazione complessiva dei fatti ritenuti rilevanti al fine del decidere (assoluta mancanza di liquidità che non consentiva alla medesima di far fronte ai propri impegni in seguito alla generale chiusura creditizia operata da tutte le banche).

Al riguardo la Corte ha correttamente applicato il principio secondo cui, lo stato di insolvenza di un'impresa commerciale alfine della dichiarazione di fallimento, consiste in una situazione di impotenza economica che si realizza quando l'imprenditore non è più in grado di adempiere regolarmente e con mezzi normali le proprie obbligazioni, essendo venute meno le condizioni di liquidità e di credito necessarie alla relativa attività commerciale, rimanendo irrilevante che l'attivo sia superiore al passivo (sentt. nn. 1980-85; 2055-83; 3095-81; 1067-80; 3198-79).

Le doglianze mosse in questa sede alla sentenza impugnata non sono idonee a scalfire la congruità e correttezza della motivazione adottata dalla Corte di appello.

Anzitutto è da escludere che le ragioni che hanno determinato il dissesto (nella specie, secondo la tesi della ricorrente, la contingente situazione economica di altre società del gruppo), possa essere rilevante neanche sotto questo profilo al fine di disconoscere i presupposti della dichiarazione di fallimento. Dalla disciplina risultante dagli art. 6, 7 e 8 della legge fallimentare risulta, infatti, che, una volta accertato lo stato d'insolvenza dell'imprenditore, il Tribunale è obbligato a dichiararne il fallimento, qualunque sia la ragione che in concreto l'abbia determinata non sussistendo al riguardo valutazioni di opportunità che la legge non prevede (sent. n. 1980-85 cit.).

Inoltre non ha pregio l'assunto secondo cui la Corte d'appello avrebbe omesso di motivare nel punto decisivo che per le società aventi ad oggetto attività edilizia - come appunto la ricorrente - il ciclo produttivo che consente il pagamento dei creditori si realizza normalmente con la vendita degli immobili sociali, i quali erano tutti nel patrimonio della società al momento della sua dichiarazione di fallimento, onde prima di tale vendita poteva ritenersi fisiologica una sua illiquidità.

In contrario si osserva che, come risulta dalla motivazione dell'impugnata sentenza, il programma costruttivo è stato interrotto e non si è potuto concretamente realizzare non in seguito alla dichiarazione di fallimento, ma per uno stato di impotenza economica della società che si era manifestata già prima con la generalizzata chiusura creditizia.

Nè può replicarsi con fondamento che la insussistenza dell'insolvenza sarebbe attestata dal non avere alcun creditore presentato istanza di fallimento, trattandosi di circostanza che - come giustamente osservato dalla Corte di appello - deve ritenersi del tutto irrilevante in base alla disciplina dell'art. 6 L.F. che legittima la procedura di ufficio della dichiarazione di fallimento da parte del tribunale, a seguito della legale conoscenza della situazione di dissesto, indipendentemente dalla iniziativa di parte.

6) In definitiva, sottraendosi la sentenza impugnata alle proposte censure, il ricorso deve essere respinto.

Le spese seguono, come per legge, il criterio della soccombenza (art. 385 C.P.C.).

 

p.q.m.

La Corte: rigetta il ricorso.

Condanna la ricorrente a rimborsare al resistente le spese del giudizio di cassazione che liquida in L. 75.000 oltre a L. 3.000.000 per onorario.

Così deciso in Roma, l'8 giugno 1988.