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Il Caso.it, Sez. Giurisprudenza, 24079 - pubb. 11/01/2020.

Insolvenza e liquidazione coatta amministrativa


Cassazione civile, sez. I, 17 Marzo 1989, n. 1321. Pres. Granata. Est. Sgroi.

Liquidazione coatta amministrativa - Stato di insolvenza - Momenti rilevanti


Lo stato d'insolvenza dell'impresa sottoposta a liquidazione coatta amministrativa, che l'art. 202 della legge fallimentare contempla come oggetto di accertamento giudiziale, ai fini del successivo art. 203, indipendentemente dal fatto che detta procedura sia stata disposta per insufficienza d'attivo, deve essere riscontrato con riferimento alla data del decreto di messa in liquidazione e si traduce nel venir meno delle condizioni di liquidità e di credito necessarie per l'espletamento della specifica attività imprenditoriale, a prescindere dal verificarsi o meno dell'inadempimento di obbligazioni. Tali principi trovano applicazione pure con riguardo alle banche, la cui liquidazione non è rivolta a scopi di conservazione dell'impresa e resta soggetta alle citate norme, le quali abrogano le Disposizioni incompatibili contenute nel R.d.l. 12 marzo 1936 n. 375, convertito in legge 7 marzo 1938 n. 141 (legge bancaria), ivi incluso l'art. 68, nella parte in cui fa riferimento, per il suddetto accertamento, alla "cessazione dei pagamenti". (massima ufficiale)

 

Svolgimento del processo

In data 17 giugno 1982 il Consiglio di amministrazione del Banco Ambrosiano S.P.A. deliberò di richiedere, ai sensi dell'art. 57 primo comma lett. c) del r.d.l. 12 marzo 1936 n. 375, conv. in L. 7 marzo 1938 n. 141 (legge bancaria) lo scioglimento degli organi amministrativi e la conseguente nomina di un Commissario. Il Ministero del Tesoro, con decreto del 17 giugno 1982, disponeva lo scioglimento degli organi amministrativi del Banco Ambrosiano e la sua sottoposizione ad amministrazione straordinaria. Con decreto del 6 agosto 1982 il Ministero del Tesoro revocava l'autorizzazione all'esercizio del credito al Banco ambrosiano e lo poneva in liquidazione coatta amministrativa (art. 67 legge cit.).

Su ricorso dei Commissari liquidatori, con sentenza 25-26 agosto 1982, il Tribunale di Milano dichiarava lo stato d'insolvenza della banca, ai sensi dell'art. 202 legge fall., e con sentenza del 5 aprile 1984 rigettava l'opposizione proposta da E. C., R. C., C. R., G. di M., G. P., G. P. M. D., E. P., R. M., M. V. M., A. M., A. R., M. P., L. R., F. G. S., E. A., O. B., C. P., L. G., E. Z., S. Z., S.P.A. Italmobiliare ed I.O.R..

Avverso la predetta sentenza proponeva appello la S.p.A. Italmobiliare, nonché il R., il B., il P., il M. D., il M., il P., il V. M., il M., l'A., il G. S., il Di M., il P., il R..

I Commissari liquidatori chiedevano il rigetto degli appelli.

Con sentenza 27 dicembre 1985 la Corte d'appello di Milano confermava la sentenza impugnata e condannava gli appellanti in solido a pagare ai Commissari liquidatori del Banco Ambrosiano le spese del giudizio d'appello, così motivando:

1. La questione concernente l'illegittimità del decreto di liquidazione coatta (dedotta dal R.) non poteva esser presa in esame, perché essa non era stata sollevata con l'atto d'appello, ma era stata prospettata per la prima volta in comparsa conclusionale; nel giudizio d'impugnazione, il thema decidendum è fissato e delimitato dai motivi di gravame formulati con la citazione d'appello, e non può essere ulteriormente ampliato nel corso del processo.

2. Non poteva essere condivisa la tesi secondo cui il Tribunale avrebbe dovuto accertare, a norma dell'art. 68 legge bancaria, se il Banco Ambrosiano versava in stato di cessazione dei pagamenti, perché l'accertamento di cui agli artt. 195 e 202 legge fall. riguarda lo stato d'insolvenza dell'impresa e le disposizioni delle leggi speciali incompatibili con quelle dei menzionati articoli della legge fall. sono state abrogate dall'art. 194 secondo comma stessa legge.

3. L'insolvenza si concreta in una situazione di impotenza economica, determinata dall'incapacità dell'imprenditore di far fronte regolarmente, e con mezzi normali, alle proprie obbligazioni per il venir meno delle condizioni di liquidità e di credito in cui si sarebbe dovuto trovare; gli inadempimenti e gli altri fatti esteriori rilevano come sintomi del dissesto e perciò stesso non possono essere considerati come requisiti essenziali e costitutivi dello stato d'insolvenza, per quanto nella specie non mancavano fatti esteriori che denotavano lo stato di decozione della Banca.

4. Le circostanze rilevanti ai fini del giudizio venivano così accertate dalla Corte d'appello: "Scomparso, fra il 12 ed il 13 giugno 1982, il Presidente R. C., il 17 giugno si è riunito il Consiglio di amministrazione del Banco Ambrosiano che ha deliberato di richiedere lo scioglimento degli organi amministrativi, a norma dell'art. 57 legge bancaria. La deliberazione è stata proposta dal Vice Presidente R. che ha indicato nella particolare situazione in cui versava il Banco Ambrosiano Andino una delle principali ragioni dell'iniziativa, spiegando che le consociate estere avevano un'esposizione nei confronti di entità facenti capo allo I.O.R. dell'ordine di 1.100 milioni di dollari e nei confronti dello I.O.R. direttamente di circa 200 milioni di dollari; che, relativamente al Banco Andino, l'esposizione era stata rifinanziata, per circa 250 milioni di dollari, dal Banco Ambrosiano, il quale era stato chiamato a sostituire il Banco Ambrosiano Andino ed altre consociate estere in seguito ai noti avvenimenti giudiziari che avevano coinvolto lo scorso anno il Presidente C., a cui erano seguite difficoltà per il Banco Ambrosiano Holding e le sue partecipate ad ottenere fondi sul mercato internazionale; che il Banco Ambrosiano era esposto nei confronti delle consociate per circa 379 milioni di dollari; che era stata richiesta allo I.O.R. l'assicurazione che avrebbe fatto fronte agli impegni assunti, ma che il comportamento dello I.O.R. aveva ingenerato forti perplessità, avendo esso accennato a lettere a firma del Presidente e proposto unicamente un rimborso in linea capitale. Nella stessa occasione era stata prospettata l'urgente necessità di disporre, per evitare decadenze dal beneficio del termine su altri prestiti in capo ad altre consociate estere, di circa 15 milioni di dollari per il Banco Andino entro la fine di giugno. Uno dei Consiglieri aveva fatto rilevare che quel giorno era stata rinviata per eccessivo ribasso la quotazione delle azioni del Banco e che sussisteva il pericolo di una corsa ai prelevamenti, ed infatti, fra il 17 ed il 24 giugno vi era stato un deflusso dei depositi della clientela per lire 319,929 miliardi; successivamente il fenomeno era proseguito ed alla data del 6 agosto 1982 i depositi risultavano diminuiti di Lire 676,871 miliardi rispetto al 17 giugno 1982; in particolare, i prelievi effettuati fra il 2 ed il 6 agosto 1982 ammontavano a Lire 100,744 miliardi. Il calo interessava anche i depositi in valuta che, nel periodo dal 21 giugno al 6 agosto erano diminuiti di 462,4 milioni di dollari U.S.A., al netto dei depositi costituiti con somme provenienti dalla Banca d'Italia, dall'UIC e dalle Banche del pool, ammontanti a 349,3 milioni di dollari U.S.A. Inoltre, nel giugno 1982, l'amministrazione delle Dogane ha richiesto la sostituzione di fideiussioni rilasciate dal Banco Ambrosiano ed a fine luglio ha rifiutato polizze fideiussorie emesse dallo stesso Banco.

In una riunione del 1 luglio 1982 fra i Commissari straordinari, il Comitato di Sorveglianza e funzionari della Banca d'Italia, i Commissari avevano esposto la situazione debitoria del gruppo verso il sistema bancario internazionale e le conseguenze che sarebbero derivate al Banco Ambrosiano da un'insolvenza delle dipendenze estere, consistenti sia nella perdita di ingenti crediti (circa 800 milioni di dollari) sia nelle ripercussioni sull'indebitamento diretto del Banco nei confronti di banche all'estero (circa 1.450 milioni di dollari); i Commissari precisavano di aver fatto fronte sia alle scadenze di propri impegni nei confronti delle Banche, sia alle scadenze delle collegate estere mediante anticipazioni alle collegate medesime, ma che la situazione di liquidità del Banco non consentiva di far fronte ulteriormente a tali impegni e che la prosecuzione dei pagamenti rendeva necessario un intervento finanziario di terzi, non solo a sostegno della liquidità del Banco ma anche ad integrazione dei mezzi patrimoniali del Banco. I componenti del Comitato di sorveglianze avevano espresso il convincimento che, in difetto di interventi dall'esterno, una proposta di procedura liquidatoria pareva proporsi come sola alternativa legale, nel caso in cui la risposta dello IOR dovesse essere negativa o dilatoria.

Il 2 luglio 1982, i Commissari si erano incontrati con gli esponenti dello I.O.R. che avevano affermato che lo I.O.R. non aveva alcun interesse personale nelle diverse posizioni che risultavano da esso patrocinate, che le dichiarazioni rilasciate dallo IOR nei confronti di enti controllati dal Banco Ambrosiano erano solo di favore, come risultava da una lettera che era stata indirizzata allo IOR dal C.; che pertanto lo IOR non sarebbe intervenuto per regolarizzare posizioni debitorie di cui disconosceva la pertinenza. In conseguenza di ciò, i Commissari straordinari, il 5 luglio, avevano disposto il fermo di qualsiasi operazione intesa ad incrementare l'esposizione dell'Ambrosiano nei confronti delle proprie collegate estere.

In una riunione del 2 luglio col Governatore della Banca d'Italia è stata ipotizzata la cessione delle attività e passività del banco Ambrosiano (escluse quello verso lo Holding di Lussemburgo e le consociate estere) ad una nuova banca, appositamente costituita da un pool di banche, nel caso che l'istituto fosse posto in liquidazione coatta a seguito dell'accertamento dell'irrecuperabilità o difficile recuperabilità dei suoi crediti verso le consociate estere, a causa dell'irrecuperabilità o difficile recuperabilità dei crediti di queste nei confronti dei propri debitori e dell'esistenza di perdite patrimoniali di eccezionale gravità in capo all'Ambrosiano; l'eventuale perdita della società cessionaria per il suo intervento in favore dei depositanti sarebbe stata risarcita col meccanismo di cui al D.M. 29 settembre 1974. Il 6 luglio i Commissari straordinari prospettavano al Governatore della Banca d'Italia la prevedibile necessità di una ricapitalizzazione del Banco, dell'ordine di 400-600 miliardi di lire. Secondo le dichiarazioni del Ministero del Tesoro alla Camera nella seduta dell'8 ottobre 1982, fra il 2 ed il 9 luglio 1982 erano stati presi contatti fra la Banca d'Italia, l'A.B.I. e l'Associazione nazionale aziende ordinarie di credito per esplorare la possibilità dell'intervento del sistema o della categoria in vista della congrua ricapitalizzazione, ma le riunioni si erano concluse escludendo la disponibilità delle banche ad intervenire con una ricapitalizzazione del Banco in bonis ed individuando nella liquidazione la condizione necessaria per un'operazione di salvataggio. Il 9 luglio, sei Istituti bancari (poi divenuti 7) avevano espresso la disponibilità a fornire immediatamente ai Commissari un volume di mezzi finanziari in lire ed in valuta adeguato a fronteggiare le eventuali necessità a breve termine del Banco Ambrosiano S.P.A.. e manifestato alle autorità monetaria la loro disponibilità ad interventi atti a garantire gli interessi dei depositanti e la continuità dell'esercizio del credito. I predetti Istituti di credito, fra il 14 ed il 30 luglio, deliberavano di aderire ad un'iniziativa avente lo scopo di intervenire, a condizioni di economicità e nell'eventualità di una liquidazione coatta amministrativa del banco Ambrosiano, nella costituzione di una nuova Banca (il Nuovo Banco Ambrosiano) in forma di società per azioni che, a garanzia degli interessi dei depositanti, nonché per la tutela della clientela in generale del banco Ambrosiano e dell'occupazione dei dipendenti, chieda di subentrare nell'esercizio di tutti gli sportelli dell'attuale azienda bancaria e di rilevare le attività e passività del Banco Ambrosiano s.p.a., fatta eccezione per la partecipazione nella "Ambrosiana Holding" e per altre partite riguardanti i rapporti con le consociate estere del Banco Ambrosiano, il tutto nell'ambito del D.M. 27 settembre 1974 per la copertura degli eventuali oneri derivanti alla nuova banca per effetto della cessione.

I predetti Istituti di Credito, fra il 9 luglio ed il 6 agosto 1982, hanno somministrato al Banco Ambrosiano mezzi liquidi, in l ire ed in valuta, per il complessivo ammontare di 530 miliardi di lire; il Banco Ambrosiano si è procurato altri mezzi liquidi con le seguenti operazioni: a) fra il 21 giugno ed il 6 luglio ha ottenuto da Cambital cessioni di valuta, pronto contro termine per 120 milioni di dollari, per far fronte agli impegni sull'estero;

b) in data 23 giugno la Banca d'Italia ha consentito, in via eccezionale, lo svincolo anticipato di 140 miliardi di lire dal deposito vincolato a riserva obbligatoria;

c) il 7 luglio la Banca d'Italia ha concesso un'anticipazione a scadenza fissa, della durata di 22 giorni, con un credito aperto di 97 miliardi, contro deposito di titoli a garanzia;

d) il 14 luglio il Banco Ambrosiano ha ottenuto dal Ministero Commercio estero l'autorizzazione allo svincolo di depositi infruttiferi di L. 42,477 miliardi;

e) in data 28 luglio la Banca d'Italia ha concesso un aumento di lire 126 miliardi del credito aperto sull'anticipazione già in essere, aderendo alla richiesta dei Commissari straordinari, per il fatto che il saldo giornaliero della stanza risultava da tempo negativo per un importo di lire 8-10 miliardi.

In data 29 luglio 1982, il comitato di sorveglianza ha affermato che il capitale sociale del Banco appariva totalmente perduto e che lo sbilancio patrimoniale era determinabile, a seconda che si tenesse conto, o meno, delle plusvalenze potenziali, in Lire 205 miliardi o in Lire 507 miliardi, tenendo conto, al passivo, di fondi rischi sull'estero (a fronte di crediti verso le consociate e lo IOR ed a fronte di crediti verso banche estere per depositi c.d. reciproci), su partecipazioni estere, per infrazioni valutarie.

Secondo i Commissari straordinari invece, lo sbilancio minimo doveva essere determinato in lire 480,5 miliardi.

Il 3 agosto, le Banche del "pool" comunicavano alla Banca d'Italia la loro indisponibilità a proseguire nell'erogazione di ulteriori fondi, non potendo attuare altri interventi, in eccedenza ai limiti fissati dai rispettivi Consigli di amministrazione. Con nota del 5 agosto 1982 la Banca d'Italia proponeva al Ministero del Tesoro di porre in liquidazione coatta amministrativa il Banco Ambrosiano, precisando che si sarebbe favorito, come di consueto, un intervento nei confronti dei depositanti e dei creditori dell'Ambrosiano da parte di altra azienda di credito (il costituendo Nuovo Banco Ambrosiano) che sarebbe subentrata negli sportelli del Banco in liquidazione coatta e ne avrebbe rilevato attività e passività, nell'ambito del d.m. 27 settembre 1974, per cui, a fronte degli oneri che la nuova banca avrebbe sostenuto a seguito dell'intervento (sbilancio fra attività e passività) sarebbero state concesse dalla Banca d'Italia anticipazioni all'1 per cento, di ammontare e durata tali da consentire la produzione di utili differenziali pari agli oneri medesimi.

Il 6 agosto, contemporaneamente, il Banco Ambrosiano è stato posto in liquidazione coatta amministrativa ed è stato costituito il Nuovo Banco Ambrosiano, al quale, in data 8 agosto, il Commissari liquidatori hanno ceduto attività e passività del Banco Ambrosiano, fatta eccezione per fondi liquidi dell'ammontare di lire 2 miliardi, per la partecipazione al capitale del Banco Ambrosiano Holding S.A. di Lussemburgo, per i rapporti con la stessa Holding e per quelli con le consociate estere, con lo IOR e con banche estere per i depositi c.d. reciproci.

L'art. 3 dell'atto di cessione stabiliva le modalità per la determinazione dell'eventuale conguagli a carico della liquidazione ovvero della cessionaria".

5) Sulle basi delle suddette premesse di fatto, la Corte d'appello osservava che la Banca si era trovata in grave situazione di illiquidità: le ripetute e motivate denunce dei Commissari Straordinari e del Comitato di sorveglianza, gli interventi delle banche del pool - sollecitati dalle autorità monetarie, in considerazione dello stato in cui versava l'Ambrosiano e per finalità di tutela del sistema creditizio all'interno ed all'esterno -, le sovvenzioni e le deroghe eccezionali concesse dalle stesse autorità, dimostravano che - prima di essere posto in liquidazione - il Banco aveva potuto compiutamente far fronte, alle scadenze stabilite, ai propri obblighi (non con mezzi attinti nel normale svolgimento dell'attività d'impresa, ma) grazie ad una serie di interventi di emergenza, quali quelli delle banche del pool, che avevano somministrato liquidità per complessivi 530 miliardi di lire, oltre all'utilizzazione delle anticipazioni della Banca d'Italia, per circa 140 miliardi di lire.

La Corte osservava che, tenendo conto degli afflussi in valuta provenienti da soggetti diversi dalle Banche del pool e dalle autorità monetarie, risultava però evidente che, senza quegli interventi, il Banco Ambrosiano non avrebbe potuto adempiere le proprie obbligazioni, in quanto le disponibilità acquisite erano pari a 494,4 milioni di dollari contro 621,2 da restituire. Non era ipotizzabile che la continua ricerca di mezzi liquidi e le richieste di intervento - da parte dei Commissari straordinari,- non rispondessero ad effettive esigenze del Banco: le difficoltà incontrate dal gruppo nel procacciamento di fondi sul mercato internazionale, l'urgente necessità di disporre di circa 15 milioni di dollari per il Banco Andino, il calo in misura patologica dei depositi, il deterioramento della fiducia dei terzi verso il banco (significativa era la richiesta di sostituzione delle fideiussioni avanzata dalla Dogana), i saldi giornalieri negativi della stanza di compensazione, erano realtà che dimostravano come le iniezioni di liquidità dall'esterno fossero indispensabili per la prosecuzione dell'attività del Banco e perché questo potesse far fronte ai propri impegni. Era vero che dopo il 29 luglio 1982 non erano state più effettuate somministrazioni in valuta da parte delle banche del pool, ma queste avevano somministrato altri fondi in Lire, per l'ammontare complessivo di 317 miliardi di cui non meno di 180 miliardi dopo il 28 luglio. Poiché risultava che i Commissari straordinari avevano stimato in una cifra compresa fra i 100 ed i 25o miliardi di Lire la liquidità necessaria alla gestione del 28 luglio al 6 agosto, pareva chiaro che il Banco aveva fatto fronte ai propri impegni solo perché aveva ricevuto il sostegno delle altre banche, che non poteva essere considerato come manifestazione di fiducia e di credito nei confronti del Banco Ambrosiano e quindi come indice di vitalità dell'impresa. Secondo l'insegnamento della Cassazione (sent. 21 luglio 1978 n. 3615) non si può configurare lo stato d'insolvenza dell'impresa se l'imprenditore gode di credito, sempre che questo venga accordato nel presupposto ed in considerazione della correntezza del sovvenuto e non come misura di salvataggio od a costo dell'alterazione degli equilibri fondamentali della struttura aziendale. Nella specie, gli interventi di sostegno costituivano misure di emergenza (a tutela, innanzi tutto, del sistema creditizio) ed erano stati attuati non certo in vista e nel presupposto della correntezza dell'impresa, ma solo perché era in ogni caso garantito il rimborso delle somme anticipate, anche mediante il meccanismo di cui al d.m. 27 settembre 1974.

La Corte aggiungeva che le iniezioni di liquidità avevano avuto un costo (dal 20 al 28%) superiore al costo della raccolta ordinaria (15% in media) ed avevano perciò provocato un ulteriore decremento patrimoniale, sicché il Banco aveva potuto far fronte ai suoi impegni con un circuito vizioso ed in virtù di mezzi che, per il loro costo, non potevano essere annoverati fra quelli normali (perché il ricorso, in condizioni di illiquidità, all'indebitamento a condizioni estremamente onerose non è un modo normale di procurarsi i mezzi per adempiere).

Secondo la Corte, gli interventi di emergenza avrebbero potuto avere rilevanza se avessero determinato un radicale mutamento della situazione del Banco; ma lo stato di illiquidità era rimasto immutato e le cause che lo avevano procurato non erano state rimosse: il credito verso le consociate estere non era stato smobilizzato; non si era arrestato il deflusso dei depositi sia della clientela che di quelli interbancari; erano continuate le manifestazioni di sfiducia verso il Banco (richieste citate dell'Amministrazione Doganale); fino alla messa in liquidazione il Banco, per poter operare e far fronte ai suoi impegni, aveva avuto bisogno degli interventi esterni di sostegno.

La Corte esaminava i dati emergenti dal raffronto fra le situazioni patrimoniali al 17 giugno, al 30 luglio ed all'8 agosto 1982: le poste passive, concernenti i depositi ed i c-c clienti, che al 17 luglio ammontavano a Lire 2.823,923 miliardi, si riducevano al 30 luglio a Lire 2.222,030 miliardi (con calo del 21,45%) ed al 9 agosto a Lire 2.061.851 miliardi (con un calo del 27%); quelle concernenti i corrispondenti bancari esteri, che al 17 giugno ammontavano a Lire 1.789,486 miliardi, si riducevano al 30 luglio a Lire 1.134,698 miliardi, con un calo del 36,59%) ed all'8 agosto 1982 a Lire 1.131,164 miliardi, con un calo complessivo del 36,78%; quelle concernenti i corrispondenti bancari italiani, che al 17 giugno ammontavano a Lire 484,633 miliardi, risultavano di Lire 789,181 miliardi al 30 luglio e di Lire 826,921 miliardi all'8 agosto; se si considerava che in detti importi erano comprese le somme anticipate dalle banche del pool (530 miliardi) si doveva concludere che anche in questo caso le poste avevano subito un drastico calo; era aumentata invece l'esposizione verso la Banca d'Italia, passata da Lire 5,121 miliardi al 17 giugno a lire 134,603 miliardi al 30 luglio ed a lire 143,541 miliardi all'8 agosto. I dati suddetti evidenziavano come la Banca aveva perduto la capacità di sostituire debiti a debiti (e cioè la capacità di procurarsi liquidità da terzi, nel normale esercizio di attività di impresa bancaria) e come il deflusso dei depositi, per la sua imponente entità, era un fenomeno sicuramente irreversibile. Ciò significa che per poter continuare ad operare il Banco non avrebbe potuto fare a meno del sostegno delle banche del pool, che però era venuto meno, avendo le banche chiarito fin dal 3 agosto 1982 che non intendevano proseguire nei loro interventi (ed ai fini della decisione non avevano rilevanza i motivi che avevano potuto indurre gli istituti di credito ad assumere l'indicato atteggiamento), per cui al 6 agosto 1982 permaneva lo stato di illiquidità del Banco e questo non era in grado di far fronte regolarmente alle proprie obbligazioni.

La Corte esaminava - a questo punto - la deduzione degli appellanti secondo cui gli indicatori di liquidità del Banco erano in linea con quelli delle altre banche, se non migliori, e nel luglio era aumentato l'ammontare dei fidi alla clientela, e rilevava che gli indici indicati facevano riferimento al normale esercizio dell'attività bancaria, ma diventano privi di significato in situazioni di emorragia di depositi, cui il Banco aveva potuto far fronte solo perché e finché erano stati attuati straordinari interventi esterni di sostegno; mentre sul secondo punto rilevava che nel periodo dal 17 giugno all'8 agosto gli scostamenti sui crediti per conti correnti ed anticipazioni erano di modestissima entità e che doveva tenersi conto della legittima preoccupazione dei Commissari straordinari di mantenere l'operatività con la clientela presso gli oltre cento sportelli e poter contribuire alla tutela del valore aziendale nell'interesse degli azionisti, dei risparmiatori e dei dipendenti.

6. La Corte d'appello esaminava - poi - la situazione patrimoniale del Banco, osservando che gli organi della gestione straordinaria e della liquidazione coatta erano giunti alla conclusione che l'Ambrosiano aveva perduto totalmente il capitale e che esisteva uno sbilancio patrimoniale dell'ordine di diverse centinaia di miliardi.

Per i Commissari liquidatori, il risultato negativo (perdita di Lire 1.191,288 miliardi, all'8 agosto 1982) comprendeva, fra le poste passive, un fondo rischi crediti esteri per lire 900 miliardi, che la Corte d'appello riteneva giustificata, in base ad una serie di considerazioni in ordine alle caratteristiche dei rapporti con le consociate estere, per cui concludeva che il capitale della Banche era interamente perduto (anche considerando le plusvalenze delle partecipazioni e gli immobili) e che questo era un ulteriore elemento che contribuiva a lumeggiare la reale situazione dell'Ambrosiani.

In ordine alla censura degli appellanti, secondo cui non si era tenuto conto del valore di avviamento, nè degli importi incassati nel maggio 1984 (versa dallo I.O.R.), la Corte d'appello esponeva alcune considerazioni in forza delle quali, malgrado il riconoscimento dell'avviamento, delle plusvalenze e dei versamenti dello I.O.R. (ottenuti, questi ultimi, dopo quasi due anni dalla messa in liquidazione coatta) esistevano perdite che avevano completamente assorbito il capitale e le riserve, determinando l'indicativo sbilancio.

7. La Corte d'appello confermava il giudizio del tribunale in ordine all'irrilevanza dell'atto di cessione, stipulato dopo che era stata disposta la liquidazione coatta del Banco, osservando che per l'art. 202 legge fall. il giudice deve stabilire se l'impresa, al tempo in cui ne è stata ordinata la liquidazione, si trovava in stato d'insolvenza, per cui l'esistenza o meno dello stato di insolvenza deve essere riferita alla data del decreto di liquidazione e non potevano influire vicende successive ed atti compiuti dai liquidatori e che costituivano un momento della liquidazione.

Secondo la Corte d'appello, non si poteva adottare una diversa conclusione per il fatto che la cessione era stata programmata già nel corso dell'amministrazione straordinaria, perché nessun elemento di giudizio consentiva di affermare che essa sarebbe stata realizzata anche in mancanza della messa in liquidazione dell'impresa.

Inoltre, la tesi degli appellanti secondo cui la cessione aveva sanato od addirittura prevenuto l'insolvenza, doveva essere respinta anche per altri motivi:

a) la cessione non aveva eliminato le passività del Banco, perché nei confronti dei creditori operava l'art. 54 ult. comma legge bancaria, e restava che, in base all'art. 3 dell'atto di cessione, l'eventuale eccedenza delle poste passive rispetto a quelle attive dava luogo ad un credito della cessionaria nei confronti della liquidazione (e presumibilmente il credito esisteva);

b) la cessione era stata attuata come intervento nell'ambito del d.m. 27 settembre 1974 e cioè sul presupposto che operasse la garanzia del meccanismo risarcitorio prevista da detto decreto, in funzione non del soccorso dell'imprenditore, ma della tutela dei depositanti e del sistema creditizio, dopo che era stata disposta la liquidazione coatta, quando ormai erano state separate le sorti dell'imprenditore da quella dell'impresa (ora affidata ai liquidatori) sicché il salvataggio dell'azienda non poteva mutare e lasciava inalterate la posizione e la situazione dell'imprenditore al momento della liquidazione.

La Corte concludeva, osservando che la cessione (ancorchè programmata nel corso dell'amministrazione straordinaria, ma sempre per il caso che il Banco Ambrosiano venisse posto in liquidazione coatta) non poteva valere, in alcun modo, a sanare l'insolvenza della Banca.

8. Rigettando la richiesta di alcuni degli appellanti di disporre una C.T.U., la Corte d'appello ne riteneva la superfluità su gran parte dei quesiti (inerenti alla liquidità e solvibilità); e, per quanto concerneva i crediti in sofferenza, premesso che l'accertamento del grave stato di illiquidità dell'Ambrosiano (e della conseguente incapacità della banca di far fronte ai propri impegni) costituiva elemento sufficiente per la dichiarazione di insolvenza e che la situazione patrimoniale era stata considerata solo come ulteriore elemento di valutazione, rilevava che occorreva stabilire se, nella situazione descritta in sede di esame dello sbilancio, fosse doveroso costituire al passivo un adeguato fondo rischi. A tale quesito la Corte d'appello dava risposta positiva, in base al principio di prudenza che deve informare la redazione dei bilanci ed all'osservazione che si erano verificate perdite che avevano determinato un grave sbilancio patrimoniale.

Avverso la suddetta sentenza hanno proposto ricorso per cassazione:

1 ) G. P., E. P. e M. V. M., con unico atto (n. 2977-86);

2 ) O. B. (n. 3404-86);

3 ) A. M. (n. 34306-86);

4 ) L. R. (n. 3647-86);

5 ) R. R. (n. 3765-86).

Il Banco Ambrosiano s.p.a. in liquidazione coatta amministrativa ha resistito con controricorsi a ciascuno dei suddetti ricorsi, ed ha depositato memoria.

Anche il B., il M., il P., il P. ed il V. M. hanno depositato memorie.

 

Motivi della decisione

I cinque ricorsi, proposti avverso la medesima sentenza, devono essere riuniti ai sensi dell'art. 335 c.p.c..

Ricorso n. 2977-86.

1 ) Avverso il suddetto ricorso, il Banco Ambrosiano in liquidazione coatta amministrativa ha proposto un'eccezione dell'inammissibilità, per difetto di interesse, perché la sentenza impugnata ha fondato la sua pronuncia su due autonome e distinte ragioni, ciascuna delle quali sufficiente - indipendentemente dall'altra - a costituire base della decisione, sul presupposto indiscusso che lo stato d'insolvenza di un'impresa può fondarsi sia sull'accertamento di un passivo superiore all'attivo (c.d. sbilancio patrimoniale), sia sul venir meno delle condizioni di liquidità e di credito necessarie all'attività commerciale (c.d. stato di illiquidita). Secondo il banco Ambrosiano, la Corte d'appello ha preso in esame ed accertato entrambi i suddetti presupposti dell'insolvenza, ciascuno dei quali è sufficiente per la corrispondente declaratoria. I ricorrenti, pertanto, avrebbero dovuto censurare entrambe le rationes decidendi, mentre entrambi i motivi del ricorso riguardano esclusivamente quella parte della sentenza che si è occupata dello stato di illiquidità, mentre non censurano l'altra parte nella quale la Corte milanese ha dato ragione dell'esistenza di un notevolissimo sbilancio patrimoniale, che aveva condotto alla perdita del capitale e delle riserve, con uno sbilancio passivo di alcune centinaia di miliardi.

L'eccezione di inammissibilità è infondata.

L'indagine non va condotta in astratto (e cioè con riguardo all'affermazione teorica se lo sbilancio patrimoniale, da solo, sia sufficiente ad integrare lo stato d'insolvenza, il che - come è noto - è rifiutato dalla quasi unanime dottrina e giurisprudenza), ma in concreto, allo scopo di accertare se la Corte d'appello abbia accolto la suddetta nozione di insolvenza e l'abbia ritenuta esistente soltanto in base alla sussistenza dello sbilancio patrimoniale, indipendentemente dallo stato di illiquidità.

La risposta è nettamente negativa, perché la Corte d'appello, a conclusione dell'indagine sullo sbilancio patrimoniale, ha affermato che esso era un ulteriore elemento, che contribuiva a lumeggiare la reale situazione dell'Ambrosiano; e successivamente, nell'esaminare la richiesta di C.T.U., ha testualmente affermato:

"l'accertamento del grave stato di illiquidità dell'Ambrosiano costituisce elemento sufficiente per la dichiarazione d'insolvenza; e la situazione patrimoniale è stata presa in considerazione solo come ulteriore elemento di valutazione". Il Collegio rileva che un argomento ulteriore o rafforzativo non è di per sè sufficiente a sorreggere compiutamente (e da solo) una motivazione, in quanto, anche eliminandolo, la sentenza resta poggiata sulla motivazione di base o fondamentale. Quindi, se l'impugnazione investe l'argomento ulteriore, essa è irrilevante, se nel contempo non investe quello fondamentale. Per converso, se l'impugnazione non lo investe, ma è diretta contro l'argomento di base (nella specie, contro l'accertamento dell'illiquidità), la sentenza sarebbe travolta dall'accoglimento dell'impugnazione, non essendo sufficiente a mantenerla ferma l'argomento secondario non impugnato.

Pertanto, la giurisprudenza citata dalla controricorrente (che è ferma nel ritenere che quando la sentenza impugnata sia fondata su più ragioni distinte ed autonome, ciascuna delle quali idonea a sorreggere da sola la decisione, l'omessa impugnazione di un di tali ragioni rende inutile, per difetto d'interesse, l'esame delle censure relative alle altre ragioni, dato che la decisione dovrebbe restar ferma, in base alle argomentazioni non censurate) non è applicabile alla presente impugnazione.

2 ) Col primo motivo del ricorso dell'avv. P., di E. P. e di M. V. M., si denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 5 e 202 legge fall., nonché omessa o insufficiente motivazione su un punto decisivo della controversia, per avere i giudici dichiarato l'insolvenza, laddove questa - in base ai fatti - doveva essere esclusa (art. 360 n. 3 e 5 c.p.c.), ricordando, in punto di fatto, che i Commissari liquidatori del Banco avevano ceduto l'azienda del Banco Ambrosiano alla s.p.a. Nuovo Banco Ambrosiano in data 8 agosto 1982, in base ad una direttiva della Banca d'Italia del 7 agosto 1982; e che tale cessione, lungi dall'essere un'iniziativa autonoma dei liquidatori era stata preparata dalle sette banche che avevano dato vita all'acquirente S.P.A. Nuovo Banco Ambrosiano; le quali banche avevano previsto la liquidazione coatta, di concerto col Ministero del Tesoro, come premessa dell'acquisto. Inoltre, in fatto, a fronte della cessione dell'attivo italiano del Banco, l'acquirente subentrava nei debiti correnti del Banco verso terzi.

I ricorrenti lamentano che la Corte d'appello, su tali fatti documentati, sia stata, se non reticente, succinta, e pertanto formulano al riguardo una censura di difetto di motivazione su punti decisivi. Comunque, su tali fatti, essi avevano svolto in appello la seguente tesi giuridica: che la stipulazione della cessione, in quanto già decisa e predisposta fin da prima del 6 agosto (data del decreto di liquidazione coatta) doveva considerarsi come evento acquisito, ai fini di una diagnosi sulla situazione del Banco, tanto più che la stessa liquidazione coatta era stata disposta come atto prodromico della cessione, in esecuzione di un piano complessivo.

Essendosi assunto il passivo del Banco come contropartita dell'acquisizione dell'attivo, l'acquirente si era impegnato al diretto pagamento delle obbligazioni correnti verso i terzi; ed essendo l'acquirente una banca, i crediti verso di lei erano l'equivalente del liquido.

La Corte d'appello di Milano ha respinto la suddetta tesi con tre argomentazioni, ciascuna delle quali è infondata, secondo i ricorrenti, perchè:

a) in primo luogo, è errato che la cessione non esclude l'insolvenza, in quanto il futuro arbitraggio sul prezzo della cessione dia un saldo a debito della liquidazione, dato che neppure alla data della decisione si poteva andare oltre la mera congettura, laddove la valutazione della pretesa insolvenza andava riferita attorno al 6 agosto 1982. Se l'insolvenza consiste nell'incapacità di adempiere alle obbligazioni correnti, nella specie la corte d'appello ha preso in considerazione un asserito debito sulla cui esistenza mancava, sia nell'agosto 1982, sia oggi, la parola definitiva, trattandosi di un debito sulla cui entità la corte milanese non si è nemmeno pronunciata.

b) il preteso fine non di soccorrere l'imprenditore, ma di tutelare i depositanti ed il sistema creditizio in generale, non è rilevante, perché l'insolvenza è una situazione obiettiva, la quale non deve essere dichiarata ogni volta che il soggetto è in grado di fronteggiare le sue obbligazioni correnti. Ammesso che la cessione consentiva al Banco di fronteggiare (1) il liquido necessario a tal fine, ogni illazione sullo scopo perseguito dalla banca cessionaria è privo di rilievo.

Se poi si dovesse dare un rilievo al fine della cessione, essendo chiaro ictu oculi che non potesse essere quello di soccorrere il vecchio Banco Ambrosiano, il problema doveva essere posto in altri termini, dovendosi contrapporre al fine di tutelare i depositanti quello di acquisire un'utilità, che appare più attendibile in un acquisto d'azienda. Mentre era irrilevante lo scopo perseguito dalla P.A. a favore delle Banche acquirenti, tramite le misure di cui al d.m. 27 settembre 1974, l'acquisto dell'azienda bancaria è di regola sorretto dalla favorevole prospettiva del subingresso in sportelli al pubblico. La stessa sentenza impugnata ha affermato che le banche avevano deciso di intervenire a condizioni di economicità, nonchè in vista di un subingresso nell'esercizio di tutti gli sportelli, vale a dire nella prospettiva di una propria espansione. In conclusione, l'ipotesi di attribuire alla cessione finalità altruistiche non avrebbe potuto nemmeno sorgere.

c) Infine, secondo i ricorrenti, il giudizio sull'insolvenza non può essere limitato ad un momento apprezzabile della vita di un'impresa, per cui i giudici del merito hanno avuto torto nel negare rilievo ad una cessione già pianificata e predisposta come primo atto, dopo la nomina dei liquidatori, in esecuzione di un complesso piano già attuato al 99 per cento del suo iter, che la sentenza impugnata presenta quale momento finale di un procedimento in corso e quale conclusione sicura; si è affermata l'irrilevanza della cessione, la cui sicurezza e prevedibilità alla data del 6 agosto aveva trovato conferma nei fatti successivi.

L'affermazione della Corte d'appello ("nessun elemento di giudizio consente di affermare che la cessione sarebbe stata realizzata anche in mancanza della messa in liquidazione dell'impresa") oltre ad essere in contraddizione con i punti nei quali la corte ha presentato la cessione come un fatto già programmato, cade in un errore. Poiché la liquidazione non implica l'insolvenza, l'ipotizzare che la cessione non avrebbe avuto luogo senza il previo decreto di liquidazione è inconferente: dovendosi accertare l'insolvenza non del Banco Ambrosiano pre-liquidazione, ma del Banco Ambrosiano in liquidazione coatta, proprio il legame fra liquidazione e cessione doveva condurre la Corte a ritenerla irrilevante.

Concludendo, secondo i ricorrenti, la Corte milanese ha errato nel ritenere la cessione d'azienda irrilevante in jure in base alla sua data ed alle sue asserite finalità (individuate in modo arbitrario ed illogico); ed ha negato l'attitudine della cessione ad impedire ogni insolvenza in base ad una circostanza priva di valore (l'ipotesi del futuro insorgere di un debito). Invece, la corte avrebbe dovuto considerare l'eliminazione - da parte della cessione - delle passività correnti. Il giudice avrebbe dovuto dire se sia o non sia vero che la cessione ha impedito l'insolvenza, stante il suo effetto economico finanziario, restando superfluo indagare quale fosse la situazione del Banco prima della cessione o a prescindere da essa: ove anche uno stato di insolvenza avesse iniziato a sorgere in precedenza (il che si nega), esso sarebbe stato prima del momento a cui va riferito il giudizio.

Il motivo è infondato.

Si premette che l'eccezione di inammissibilità (mossa dalla controricorrente sotto il profilo dell'insindacabilità della valutazione dello stato d'insolvenza), è infondata, perché nel ricorso si deducono argomenti che possono essere esaminati in sede di legittimità sia perché postulano il riferimento a principi giuridici (l'applicazione dell'art. 202 legge fall. e delle norme che detto articolo esplicitamente od implicitamente richiama), sia perché riguardano la sufficienza e la logicità della motivazione su un punto decisivo.

Per la chiarezza del discorso, è opportuno in primo luogo espungere - giusta la tesi esposta dalla controricorrente in linea di diritto - quell'affermazione secondo cui la cessione non è valsa a evitare l'insolvenza perché firmata dai Commissari liquidatore del Banco, cioè, "per usare l'espressione più corrente, dai curatori fallimentari del Banco ambrosiano, già fallito".

Si tratta, all'evidenza, di un'espressione (richiamata nella memoria) che non può essere accettata, perché la messa in liquidazione coatta del Banco, sia pure con la motivazione del decreto 6 agosto 82 riportata in sentenza ("eccezionale gravità delle carenze di liquidità, perdite patrimoniali, irregolarità nella gestione e violazione di norme legali, statutarie e di vigilanza") non comporta affatto la messa in moto di una procedura in tutto equiparabile a quella fallimentare; essa è una procedura preordinata alla soppressione dell'ente con finalità d'ordine pubblicistico (Cass., sez. II, 5 febbraio 1972, n. 272), ma lo stato d'insolvenza è oggetto di un accertamento giudiziale "anche se la liquidazione è stata disposta per insufficienza d'attivo (art. 202 primo comma legge fall.). Dal suddetto inciso si può fondatamente ricavare il principio secondo cui - pur essendo l'insufficienza d'attivo, da sola, inidonea ad integrare lo stato d'insolvenza di cui all'art. 5 legge fall. - tuttavia il Tribunale può accertarne l'esistenza in base ai consueti indici dettati dall'art. 5. In termini più generali, la norma esprime l'autonomia dell'accertamento giudiziale dell'insolvenza rispetto all'accertamento (o meglio, alla ponderazione degli interessi pubblici e privati coinvolti nella vicenda) effettuato in sede amministrativa.

La Corte osserva che analoghi rilievi non possono essere mossi alla decisione impugnata, la quale - sfrondata da alcune argomentazioni non decisive - resiste alle censure dei ricorrenti, appunto perché non ha trascurato (contrariamente all'assunto dei ricorrenti) di prendere in esame l'atto di cessione, e l'ha considerato inidoneo a sanare (o, addirittura, prevenire) l'insolvenza in base ad un complesso di motivazioni che nel loro nucleo essenziale sono squisitamente di fatto ed, in quanto ampiamente e logicamente motivate, sfuggono alle censure dei ricorrenti (che, è bene sottolinearlo, non investono neppure tutti i suddetti accertamenti); motivazioni che non si ritrovano soltanto nel paragrafo 5.7, dedicato in modo esclusivo al problema della valutazione della cessione, ma si leggono in tutta la sentenza ed in particolare modo nel paragrafo 5.5 ed in quello precedente, dedicato alla ricostruzione dei fatti rilevanti in causa.

Da tali motivazioni emerge un dato decisivo che è del tutto trascurato dai ricorrenti, di modo che nel loro discorso l'atto di cessione viene ipostatizzato come entità autonoma, nella sua valenza di atto che ha reso possibile la continuità dell'attività bancaria già del Banco Ambrosiano, in capo al Nuovo Banco Ambrosiano, permettendo che gli sportelli, chiusi il venerdì 6 agosto regolarmente, si siano riaperti il lunedì 9 agosto altrettanto regolarmente e permettendo - soprattutto - che nessuna obbligazione facente capo al "vecchio" Banco sia rimasta, non si dice inadempiuta, ma neppure tardivamente adempiuta (su questi aspetti hanno insistito le difese dei ricorrenti, nell'ampia discussione orale, asserendo che l'impresa è continuata regolarmente, senza soluzione di continuità).

Il Collegio vuole ricordare che gli accertamenti di fatto sono soltanto quelli compiuti dalla sentenza impugnata, e che ad essi non se ne possono sostituire altri, ferma restando la possibilità per la Corte di correggere od integrare la motivazione in diritto, ex art. 384 c.p.c.. Nell'ambito dei suddetti accertamenti - ampiamente riferiti supra - la Corte di Milano (a pag. 81-82 della sentenza ) ha osservato che il decreto di liquidazione coatta produce la separazione delle sorti dell'imprenditore da quelle dell'impresa (ora affidata ai liquidatori) sicché il salvataggio dell'azienda non può mutare (e lascia inalterate) la posizione e la situazione dell'imprenditore al momento della liquidazione; ed ha concluso che la cessione, ancorché programmata nel corso dell'amministrazione straordinaria (ma sempre per il caso che il Banco Ambrosiano venisse posto in liquidazione coatta) non può valere, in alcun modo, a sanare l'insolvenza della banca.

La suddetta affermazione (ancorché sia da correggere nell'uso di un termine giuridico, come si dirà infra) costituisce il nucleo essenziale del corretto inquadramento giuridico della vicenda del "vecchio" Banco Ambrosiano, come descritta in fatto nella sentenza impugnata. Invero, a comporre il quadro della valutazione giuridica di quella vicenda, concorrono contestualmente due ordini di considerazioni, la prima delle quali è stata espressa esplicitamente dalla Corte d'appello; e la seconda risulta chiaramente da quanto essa ha affermato, seppure la Corte non si sia attardata nell'esposizione delle premesse giuridiche delle sue affermazioni (il che non costituisce vizio di motivazione, posto che non si tratta di punti di fatto decisivi ai sensi dell'art. 360 n. 5 c.p.c., ma invece dell'esplicitazione dei principi giuridici di cui la Corte ha fatto applicazione; esplicitazione che può essere ben compiuta in questa sede).

1 ) Il primo ordine di considerazioni è stato svolto dalla corte d'appello (a pagg. 79-80): "Per l'art. 202 legge fall. il giudice deve stabilire se l'impresa al tempo in cui ne è stata ordinata la liquidazione si trovava in stato di insolvenza. Il tenore letterale della disposizione è inequivoco; l'esistenza, o meno, dello stato d'insolvenza deve essere riferito alla data del decreto con cui è stata disposta la liquidazione".

L'affermazione si deve condividere: oltre al tenore letterale dell'art. 202, secondo cui l'insolvenza da prendere in considerazione è quella manifestatasi prima del decreto di liquidazione, come risulta dall'uso del tempo imperfetto ("si trovava"), si deve citare l'art. 203, in forza del quale gli effetti dell'accertamento dell'insolvenza risalgono alla data del provvedimento che ordina la liquidazione, che assume - pertanto - la medesima valenza che ha la data della dichiarazione di fallimento nell'ambito delle disposizioni richiamate dall'art. 203 (titolo II, capo III, sezione III). Orbene, come con riguardo alla dichiarazione di fallimento l'insolvenza da valutare è quella fino a detta dichiarazione (mentre non rileverebbe un'insolvenza successiva alla dichiarazione di fallimento, trattandosi di nozione priva di significato, agli effetti della legittimità della dichiarazione di fallimento); così con riguardo alla dichiarazione di insolvenza ex art. 202 legge fall. ha rilievo l'insolvenza che precede la data del decreto di liquidazione coatta.

Nel ricorso (pag. 20) si afferma che si doveva valutare l'insolvenza non del Banco Ambrosiano "pre-liquidazione", ma del Banco Ambrosiano in liquidazione coatta. Nella memoria e nella discussione orale la difesa dei ricorrenti ha insistito in tale affermazione, osservando che la cessione dell'azienda era stata decisa già prima della messa in liquidazione, la quale costituiva soltanto un momento intermedio della complessa operazione: certamente, senza la liquidazione coatta, la cessione non sarebbe stata stipulata, ma se la liquidazione coatta è predisposta allo scopo di sanare l'insolvenza, quest'ultima non sussiste (o viene in radice eliminata), dovendosi tener conto della situazione in itinere, nel suo sviluppo previsto e sicuro, alla luce della premessa secondo cui la legge fallimentare prevede una liquidazione coatta con dichiarazione di insolvenza ed una senza dichiarazione d'insolvenza.

Il Collegio osserva che l'errore di diritto che inficia le suddette affermazioni è evidente. In primo luogo, non è pertinente il richiamo a Cass. 7 ottobre 1980 n. 5377, che - in ipotesi di fallimento - sulla premessa che l'accertamento dello stato d'insolvenza va condotto con riferimento alla situazione in atto alla data della dichiarazione di fallimento, ha ritenuto che non fosse esclusa l'insolvenza dal fatto che un'impresa elettrica fosse stata trasferita in precedenza all'ENEL, qualora questo decreto, alla data del fallimento, fosse stato sospeso dal Consiglio di Stato, sicchè la società a quel momento aveva ripreso la gestione dell'azienda ed era responsabile per i risultati negativi della propria pregressa attività. Invero, la suddetta pronuncia non fa che riconfermare l'esclusiva rilevanza della situazione (fattuale e giuridica) dell'impresa alla data della dichiarazione di fallimento, giusta il principio già enunciato che, con riguardo alla liquidazione coatta, si riferisce alla data del decreto che la dispone. La presa in considerazione di un atto giuridico che può influire sulla insolvenza non può essere astratta dalla liquidazione coatta, come se questa non fosse stata disposta. Se il suddetto atto fosse strutturato come il naturale ed immancabile risultato di premesse già realizzatesi prima della liquidazione coatta, a prescindere da detta procedura, e cioè se esso fosse un atto dell'imprenditore a lui esclusivamente riferibile, si potrebbe fondatamente seguire il tipo di ragionamento svolto dai ricorrenti e cioè non "ignorare una cessione di azienda già pianificata e decisa ormai da tempo, soltanto perché manca ancora l'ultimo atto al suo perfezionamento" (così, testualmente la memoria). Il vizio del ragionamento sta nel ritenere irrilevante che il decreto di liquidazione coatta si ponga come atto prodromico della cessione, la quale alla data de 6 agosto 1982 si configurava non come evento meramente possibile, ma come evento sicuro, in quanto già deciso a tutti i livelli e per prima cosa dalla società acquirente (costituita appositamente sotto la denominazione Nuovo Banco Ambrosiano s.p.a.), posto che le sette banche che l'avevano costituita avevano dichiarato che avrebbero acquistato l'azienda a patto che fosse possibile acquistare dai commissari liquidatori previa liquidazione coatta del Banco Ambrosiano, sicché il decreto di liquidazione era l'atto che mancava per addivenire alla stipula della cessione, formalizzata appena 48 ore dopo.

Con le suddette espressioni, testualmente contenute nelle difese dei ricorrenti, si riconosce quanto la Corte d'appello ha affermato circa la dipendenza della cessione della messa in liquidazione (vedi, per esempio, pagg. 60-61 della sentenza) perché la cessione al Nuovo Banco Ambrosiano delle attività e passività del Banco Ambrosiano (con il imiti già indicati supra) era ritenuta possibile solo in quanto posta in essere dai Commissari liquidatori. Non vi è contraddizione fra tale affermare e quella - pure contenuta in sentenza - secondo cui la cessione era stata programmata prima della messa in liquidazione: invero, la Corte d'appello ha valorizzato tutte le prove da cui risultava che conditio sine qua non della cessione (2) era strettamente dipendente da essa. Pertanto, sotto questo primo aspetto, la successione temporale ha un significato pregnante, nel senso che l'atto (che si vuole, dai ricorrenti, avere avuto efficacia sanante di una pregressa insolvenza, non più esistente però nella fase di liquidazione coatta a cui bisognerebbe aver riguardo) è apprezzabile esclusivamente come atto di liquidazione, diretto non già a sanare l'insolvenza per permettere la vita dell'impresa, ma a porre fine alla stessa impresa la quale non aveva altre attività all'infuori di quella creditizia, il cui esercizio non poteva più aver luogo, essendole stata revocata l'autorizzazione dalla Banca d'Italia.

Non è inconferente (come invece sostengono i ricorrenti) la prova che la cessione non avrebbe avuto luogo senza il previo decreto di liquidazione, perché ciò comporta l'impossibilità di valutarla come atto (assertamente) sanante, rispetto all'insolvenza di tutto il periodo di tempo anteriore al decreto di messa in liquidazione. Invero, se la cessione fosse stata programmata dagli organi (anche straordinari) del banco, del tutto indipendentemente dalla liquidazione coatta, e cioè come un atto di esercizio dell'impresa, solo accidentalmente perfezionato dopo la messa in liquidazione, essa potrebbe anche prendersi in considerazione come atto dimostrativo della vitalità dell'impresa e cioè della sua capacità di far fronte regolarmente alle proprie obbligazioni. Ma la suddetta prospettazione non deve essere approfondita, perché è del tutto estranea ai fatti ricostruiti dalla sentenza impugnata (e sostanzialmente non smentiti dai ricorrenti, che divergono soltanto in ordine al loro apprezzamento giuridico).

La vicenda storica concreta è - infatti - quella di un imprenditore (il "vecchio" Banco Ambrosiano) colpito da un atto (la liquidazione coatta) inteso a far cessare la sua impresa e che si pone come premessa necessaria di una cessione (di parte) della sua azienda, costituita dall'organizzazione degli sportelli bancari in Italia, in modo da permettere che essi svolgano la attività creditizia regolarmente, senza alcuna soluzione di continuità fra il momento anteriore e quello posteriore alla liquidazione coatta, ma facendo capo ad un altro imprenditore (il "Nuovo Banco").

2). Tale realtà di fatto impone il richiamo del secondo ordine di considerazioni di cui si parlava supra (quello solo implicitamente, ma chiaramente contenuto nella sentenza impugnata); ordine di considerazioni che impone il drastico abbandono della tesi dei ricorrenti, secondo cui la cessione era da prendere in considerazione come atto che eliminava l'insolvenza. Invero, questa tesi potrebbe avere un qualche fondamento, se l'impresa del "vecchio" Banco Ambrosiano fosse continuata e se la cessione fosse da imputare a detta impresa, sia pure come atto - deliberato in piena autonomia - di liquidazione (non fallimentare) inteso a sanare l'insolvenza. Non ne ha alcuno, invece, dal momento che la cessione non è soltanto cronologicamente, ma anche funzionalmente dipendente dalla liquidazione coatta e non sarebbe esistita senza di essa, sicché si pone in un momento temporale e procedimentale successivo alla messa in liquidazione coatta e non può essere valutata - sotto il profilo dell'art. 202 legge fall. - perché gli atti della liquidazione coatta non possono considerarsi come atti di sanatoria dell'insolvenza, così come gli atti del curatore fallimentare non possono valutarsi per escludere una insolvenza esistente alla data della sentenza dichiarativa, anche se il curatore continui l'esercizio dell'impresa e paghi tutti i creditori. L'esistenza - o meno dello stato d'insolvenza va riferita, infatti, all'imprenditore non ancora fallito o non ancora posto in liquidazione coatta.

Per apprezzare in tutta la sua evidenza l'errore in cui sono caduti i ricorrenti, nel tentativo di parificare gli effetti dell'atto di disposizione dell'azienda bancaria compiuto dai liquidatori (come atto preventivamente già programmato dalle autorità competenti attraverso le imprese bancarie con le quali era stata raggiunta l'intesa per il salvataggio dell'azienda di credito già gestita dal Banco Ambrosiano) ad un atto di disposizione dell'imprenditore "in bonis" che - tramite l'alienazione dei suoi beni - sana l'insolvenza, si deve richiamare quel costante orientamento della giurisprudenza di questa Corte (cfr., fra le altre, Cass. n. 1939 del 1980; Cass. n. 3723 del 1981, in motivazione; Cass. n. 6608 del 1983; ed in particolare, Cass. n. 623 del 1983) che distingue l'azienda dall'impresa. L'azienda è un bene, strumentale rispetto all'attività imprenditoriale, creato dall'organizzazione e coordinazione dei fattori della produzione, che si presenta come oggetto di rapporti giuridici. L'impresa è un quid soggettivo, perché è l'attività esercitata dall'imprenditore, composta da una serie di atti coordinati funzionalmente per l'esercizio professionale di un'attività economica organizzata al fine della produzione o dello scambio di beni o di servizi (art. 2082 c.c.). L'impresa è attività, inseparabile dal soggetto che la esercita (imprenditore), del quale costituisce modo di agire; in essa non è possibile una successione, perché tale vicenda può riguardare soltanto l'oggetto di diritti, e cioè l'azienda. Nel caso di cessione di azienda l'imprenditore cedente può cessare o meno la sua impresa (a seconda che non la continui ovvero la continui, ma con altri mezzi produttivi, per esempio con l'impiego del ricavato della cessione); ma in ogni caso non la trasferisce al cessionario, il quale inizia un'impresa distinta (ovvero aggiunge quei mezzi produttivi acquistati, all'impresa già esercitata con un'azienda già in suo possesso), anche se dal punto di vista economico è identica alla prima ed esercitata a mezzo della stessa organizzazione produttiva (l'azienda trasferita, o un ramo di essa). Ogni gestione d'impresa da parte di due distinti imprenditori è pertanto autonoma, anche se essi si avvalgono della medesima azienda trasferita dall'uno all'altro.

È stato osservato dalla dottrina che segue la suddetta impostazione - condivisa da questa Corte - che a riprova dell'impossibilità di riferire la vicenda successoria all'impresa (anziché all'azienda) sta l'argomento che la qualifica di imprenditore - che deriva dal compimento di un'attività ex art. 2082 c.c. - si acquista necessariamente a titolo originario, con l'esercizio di fatto dell'attività d'impresa.

La tesi fondamentale dei ricorrenti (ribadita in particolare nella discussione orale) secondo cui l'impresa bancaria già esercitata dal banco Ambrosiano è continuata - senza la minima soluzione di continuità - in capo al Nuovo Banco Ambrosiano, in modo del tutto regolare, perché la suddetta impresa bancaria ha sempre puntualmente adempiuto le proprie obbligazioni, si deve pertanto respingere - anche a prescindere da altre considerazioni attinenti ai mezzi attraverso i quali le obbligazioni del Banco sono state adempiute, fino all'atto di cessione (sul punto si ritornerà infra).

La legge fallimentare, all'art. 5 riferisce lo stato d'insolvenza all'imprenditore; all'art. 195 ed all'art. 202 riferisce l'insolvenza all'impresa. Le due espressioni sono perfettamente equivalenti, stante la già accennata inscindibilità fra l'imprenditore e la sua attività d'impresa. Nella specie, si trattava di stabilire se l'impresa esercitata dall'imprenditore "Banco Ambrosiano", alla data del 6 agosto 1982 fosse insolvente. È evidente che - ai fini di questa indagine - non rileva affatto che i mezzi strumentali (l'azienda bancaria) già di pertinenza del vecchio Banco, una volta trasferiti al Nuovo Banco si siano dimostrati efficaci strumenti di profitto (o - quanto meno - di regolare esercizio dell'attività creditizia) perché (e questo punto è di palmare evidenza) non rileva in alcun modo che il Nuovo Banco Ambrosiano non sia stato mai insolvente. Se un imprenditore - munito di validi strumenti operativi e cioè di un'azienda obiettivamente in grado di operare normalmente -, per qualsiasi ragione (che potrebbe essere originariamente anche di carattere non economico: si pensi al "discredito" afferente un'impresa esercitata da un notorio bancarottiere o da un pregiudicato per delitti contro il patrimonio) non è in grado di godere di quel credito, la cui mancanza concreta lo stato d'insolvenza, non può negarsi che versi nel suddetto stato.

Una più puntualmente disamina degli indici dell'insolvenza descritti dalla sentenza impugnata sarà effettuata in sede di esame del secondo motivo del ricorso. Sotto il profilo che qui interessa si deve sottolineare che la corte di Milano ha descritto un'operazione complessa, il cui esito finale (consistente nella tutela del pubblico affidamento connesso al regolare funzionamento dell'ordinamento bancario e nella garanzia della credibilità del relativo sistema, per dirla con le parole di Cass. 21 luglio 1978 n. 3615) è stato caratterizzato - nella specie - da un elemento di differenziazione rispetto alla vicenda esaminata dal precedente giurisprudenziale citato, e cioè dalla sequenza dell'atto di cessione d'azienda rispetto alla liquidazione coatta dell'impresa; sequenza temporale resa necessaria dall'utilizzazione dello strumento giuridico dell'atto liquidatorio, ma che non deve far dimenticare la già programmata (e quindi tutt'altro che causale) previsione di quell'atto di cessione, già da un momento anteriore alla liquidazione coatta, che a sua volta si presenta come strumento per raggiungere l'esito finale. Dalla sentenza impugnata risulta - in altre parole - che la struttura e la finalità dell'intera operazione erano quelle di togliere dal mercato del credito quell'imprenditore (il "vecchio" Banco Ambrosiano) che non dava più affidamento (vedi infra) e di sostituire ad esso, nella gestione dell'azienda di credito operante in Italia, un nuovo imprenditore. Nell'ambito di siffatta operazione, gli intendimenti delle banche che la permisero, creando il Nuovo Banco, cessionario dell'azienda, secondo i ricorrenti, furono ispirati al principio del tornaconto e del profitto. In ciò si può senz'altro convenire, per l'evidenza stessa della ragione sottesa a qualsiasi affare economico; ma ciò nel contempo sottolinea l'alternatività del meccanismo utilizzato, rispetto a quello che pure fu ventilato, ma nettamente respinto (per esempio, attraverso l'aumento di capitale del vecchio Banco) e cioè rispetto al salvataggio dell'imprenditore. Quella che fu salvata, infatti, fu soltanto l'azienda (a difesa dei depositanti e nell'interesse complessivo del sistema creditizio: vedi, ancora, Cass. n. 3615 del 1978), a condizione però che sparisse dalla scena, attraverso il meccanismo della liquidazione coatta (che nell'operazione rivestiva un momento essenziale) il vecchio imprenditore.

Vista nei suoi termini più crudi, la vicenda può essere anche descritta nei modi indicati alle pagg. 16-17 del ricorso, intese a confutare uno dei argomenti della sentenza impugnata. Il fine delle banche che intervennero non era (soltanto) quello di tutelare i depositanti (questo se mai, era il fine delle Autorità creditizie che autorizzarono e resero possibile, con le note agevolazioni di cui al D.M. 27.9.1974, l'operazione), ma quello economico, sorretto dalla prospettiva di egoistici vantaggi. Tuttavia, la correzione della motivazione, su questo punto, non esclude la forza decisiva dell'argomento fondamentale, che gli stessi ricorrenti mostrano di non saper confutare quando ammettono che le Banche non intervennero per soccorrere il vecchio Banco Ambrosiano. Tale finalità si traduce, in termini giuridici, in quella di eliminare dal mercato del credito il suddetto Banco, per utilizzarne soltanto la struttura operativa aziendale, trasferendola ad un nuovo imprenditore. Nè si potrebbe obiettare che la suddetta eliminazione dell'impresa si traduce nella sua liquidazione coatta e non spiega influenza sul piano dell'insolvenza. Invero, la liquidazione coatta (è vero) si basa su presupposti che possono anche prescindere dall'insolvenza, quali sono: a) uno squilibrio patrimoniale ancora non degenerato in insolvenza; b) la violazione di norme legali o statutarie o di direttive dell'autorità monetaria; c) l'interesse pubblico tutelato da quell'Autorità. Tuttavia, nella fattispecie concreta (vedi infra) accanto alle suddette ragioni esisteva la realtà di un'impresa che non godeva più del credito necessario per la normale gestione dell'azienda. L'atto di cessione non può essere valutato come un atto di ripristino della normalità di tale gestione per la ragione essenziale che con esso si sancì la definitiva cessazione dell'attività d'impresa del vecchio Banco, incapace di riprendere in mano quella normale gestione. Tale ragione è stata felicemente descritta dalla sentenza impugnata con le frasi già riportate supra: "la cessione è stata attuata come strumento d'intervento, inquadrato nell'ambito di applicabilità del D.M. 27.9.74 ......

Il decreto è destinato ad operare dopo che è stata disposta la liquidazione coatta, quando ormai sono state separate le sorti dell'imprenditore da quelle dell'impresa (ora affidata ai liquidatori), sicché il salvataggio dell'azienda non può mutare e lascia inalterate la posizione e la situazione dell'imprenditore al momento della liquidazione. E se così è (come è da ritenere) si deve concludere che la cessione, ancorché programmata nel corso dell'amministrazione straordinaria (ma sempre per il caso che il Banco Ambrosiano venisse posto in liquidazione coatta) non può valere in alcun modo a sanare l'insolvenza della banca".

Come si è già anticipato, un'unica correzione di terminologia giuridica deve apportarsi a tale giudizio, la cui decisività è evidente: là dove si dice "separate le sorti dell'imprenditore da quelle dell'impresa" avrebbe dovuto più correttamente dirsi: "separate le sorti dell'imprenditore da quelle dell'azienda", per sottolineare che un atto della liquidazione coatta non può valere a sanare l'insolvenza, se programmato allo scopo di eliminare dal mercato l'impresa insolvente, in quanto non più godente credito.

La forza decisiva di tale argomento dimostra l'irrilevanza del rilievo mosso sub a) dai ricorrenti (a proposito dell'eventuale debito futuro della liquidazione coatta, in sede di regolamento definitivo della cessione d'azienda): infatti anche eliminando tale controvertibile argomento della sentenza impugnata, resta quello già indicato, arricchito dalle premesse e dalle precisazioni qui svolte sul piano giuridico; e resta altresì l'argomento sub b), sia pure con le correzioni già apportate supra, che non eliminano l'affermazione secondo cui l'intervento delle Banche non fu diretto a soccorrere l'imprenditore (ritenuto immeritevole di soccorso, perchè il sistema creditizio nel suo complesso non aveva più fiducia in lui), ma anzi ad eliminarlo dal mercato (e che le Banche intervenuto abbiano in tal modo sfruttato obiettivamente la situazione, a proprio vantaggio, fa parte delle regole del mercato stesso). È evidente - è appena il caso di dire - che non può condividersi l'assunto dei ricorrenti (vedi, in specie, la memoria) secondo cui il fine di soccorrere l'imprenditore sarebbe un fine "altruistico" (chiaramente inconferente in vicende economiche), non essendo altro - invece - che il dar credito all'imprenditore stesso e cioè il fornirgli i mezzi per la sua normale attività d'impresa, nel normale giuoco degli interessi economici contrapposti (nella specie mediati ed influenzati dalle misure poste in essere dalla Banca d'Italia per agevolare l'operazione).

Con il secondo motivo i ricorrenti denunciano la violazione e falsa applicazione degli artt. 5 e 202 legge fall. nonché difetto di motivazione su punti decisivi, avendo i giudici di merito trascurato circostanze rilevanti, attribuito a fatti rilevanti un'erronea definizione giuridica, sopravvalutato illogicamente fatti secondari (art. 360 n. 3 e 5 c.p.c.) osservando che - valutando la situazione economica del Banco Ambrosiano - i giudici del merito hanno preso atto che il Banco Ambrosiano non è incorso in inadempimenti e si sono liberati della suddetta constatazione osservando che gli inadempimenti costituiscono un semplice sintomo dell'insolvenza, la cui mancanza non esclude un'insolvenza riconoscibile per altra via, soffermandosi poi sui suddetti indici (rapporti con le Autorità monetarie; dichiarazioni dei vertici amministrativi del Banco; rapporti con le altre Banche). In particolare, su tale ultimo punto, la Corte d'appello ha ritenuto che il sostegno da esse prestato non poteva essere considerato come manifestazione di fiducia e di credito nei confronti del Banco Ambrosiano (e quindi come indice di vitalità dell'impresa).

Secondo i ricorrenti, la suddetta valutazione è stata sbrigativa; essi non negano che il Banco, nella primavera-estate del 1982, abbia avuto un momento di crisi, che però non concretava un'insolvenza, in quanto non irreversibile.

In primo luogo, i ricorrenti lamentano la mancata considerazione della circostanza che il Banco non era incorso in inadempimenti. Un'insolvenza senza la presenza di inadempimenti è rarissima e pertanto rende più delicata l'indagine su di essa, così come vanamente era stata sollecitata dalle loro difese.

Essi avevano fatto presente che, nel giudicare sulla liquidità delle banche, non si può ragionare secondo i parametri in uso per le imprese non bancarie: per le banche il passivo di pronta esazione è costituito dai depositi e non vi potrebbe essere un'attività di intermediazione del credito se fosse necessario tenere disponibile una massa liquida necessaria a far fronte all'immediato ritiro di tutti i depositi, per cui il loro grado di liquidità concerne l'attitudine dell'impresa a far fronte al ritiro secondo certi parametri di previsione. I ricorrenti avevano depositato una perizia che palesava i criteri ai quali si atteneva il sistema bancario: la cassa contante rappresenta in media lo ', 5% dei depositi, laddove si sale all'1,2% dei depositi se si fa riferimento ad un più ampio concetto di liquido, comprensivo della cassa non contante e delle altre disponibilità equiparabili alla stessa. In prossimità del 6 agosto 1982, nel Banco Ambrosiano il suddetto rapporto era passato dal 2,2% al 3,9% sino a divenire quasi il triplo di quello medio del sistema bancario, mentre, considerando la sola cassa contante, si era di fronte ad una proporzione dello 0,8%, a sua volta superiore alla media nazionale. Secondo i ricorrenti, la Corte d'appello si è liberata dei suddetti rilievi (nonché della necessità di disporre una consulenza tecnica) con una motivazione insufficiente (pag. 71 della sentenza). Infatti, ove le asserzioni dei ricorrenti fossero state confermate, sarebbe emerso che la sfiducia di una parte della clientela era molto lontana dall'insolvenza, la quale doveva valutarsi secondo i normali criteri, tanto più che mancavano gli inadempimenti, sicché la Corte d'Appello ha mancato di approfondire proprio il punto più rilevante.

In secondo luogo, i ricorrenti denunciano l'erronea qualificazione giuridica compiuta dalla Corte Milanese in ordine al sostegno prestato al Banco Ambrosiano dalle sette banche che si sarebbero poi rese acquirenti dell'azienda tramite la S.P.A. Nuovo Banco Ambrosiano, e cioè l'erroneità dell'asserzione secondo cui detto sostegno non era stato elargito in considerazione della correttezza del sovvenuto, ma per motivi diversi, quali la tutela dei depositanti, richiamandosi a Cass. n. 3615 del 21 luglio 1978.

In proposito rimarcano le differenze con la fattispecie esaminata in quel precedente: a) allora si discuteva di un sostegno non prestato, circostanza che costituiva l'assorbente ratio decidendi, mentre le ragioni dell'eventuale erogazione costituivano un obiter dictum; b) si possono compiere operazioni di salvataggio - ricorrendo a crediti eccezionali - purché non si aggravi il dissesto.

Una cosa è il credito eccezionalmente erogato da un qualsiasi terzo, un'altra cosa il credito erogato da chi si rende acquirente dell'azienda allorché il piano per tale acquisizione è predisposto e ci si muove nella sua esecuzione, in quanto in tal caso non si può parlare di erogazioni eccezionali sotto il profilo funzionale, perché chi eroga credito per rendersi poi acquirente sostiene in realtà l'impresa propria. Si tratta, cioè, di un credito erogato in considerazione della correntezza del sovvenuto.

Con la decisione impugnata, secondo i ricorrenti, si è sottovalutata l'attitudine, che il Banco Ambrosiano aveva, ad ottenere credito, e poiché la capacità di ottenere credito esclude l'insolvenza, sono evidenti i vizi della predetta.

Il motivo è infondato.

Come riconoscono i ricorrenti, la giurisprudenza di questa corte (Cass. 28 luglio 1977 n. 3371; 6 giugno 1979 n. 3198; 8 luglio 1980 n. 4351) è ferma nel ritenere che l'insolvenza non equivale all'inadempimento delle obbligazioni, sicché il fatto che manchino adempimenti non la esclude, quando sono venute però meno le condizioni di liquidità e di credito necessarie per la specifica attività commerciale. La Corte d'appello, com amplissima indagine, corredata da riferimenti puntualissimi alle condizioni in cui il vecchio Banco operava, nel periodo anteriore alla messa in stato di amministrazione straordinaria e nel periodo della suddetta amministrazione, fino alla liquidazione coatta (riferimenti che sono appena sfiorati dai ricorrenti, che a torto ne disconoscono l'efficacia ai fini della dichiarazione d'insolvenza) ha dato conto del suo convincimento con apprezzamento correttamente motivato, che sfugge alle censure (del tutto parziali) mosse nel ricorso. Si richiami l'esposizione, in narrativa, dei fatti esteriori (non restati nel segreto dell'amministrazione della Banca) noti a tutto il pubblico, ai depositanti, alla Banca d'Italia ed alle altre Banche, che denotavano la totale perdita del credito da parte della vecchia impresa (pagg. 63-72 della sentenza).

Nella suddetta motivazione è dato conto della ragione per la quale l'insolvenza è stata dichiarata, malgrado che non esistessero inadempimenti (almeno per la parte dell'azienda operante in Italia e cioè per le passività correnti verso la clientela normale, a prescindere dai rapporti passivi con l'estero, a fronte dei quali non vi erano crediti nè certi nè di sicura realizzazione). Invero, il credito erogato dal sistema bancario per far fronte a dette passività correnti, secondo la sentenza impugnata, ebbe le seguenti caratteristiche:

a) una di esse non è nemmeno presa in considerazione dai ricorrenti, e consiste nella sua incapacità a sanare il forte sbilancio patrimoniale, sicchè, nel lungo periodo, il Banco - che aveva perso tutto il capitale - non sarebbe stato in grado di offrire le garanzie sufficienti per la restituzione delle sovvenzioni;

b) il credito era erogato a condizioni più onerose del normale: il costo anormale del reperimento dei mezzi per adempiere costituisce sintomo di insolvenza, perché alla lunga diventa insopportabile, distruggendo ogni redditività dell'impresa;

c) il credito era stato revocato, con formali dichiarazioni delle Banche che il "tetto" fissato dai rispettivi organi amministrativi era stato ormai raggiunto; e ciò in data anteriore al decreto di l.c.;

d) soprattutto, il credito fu erogato nell'ambito di una complessiva manovra intesa a costituire - tramite il passaggio obbligato attraverso la liquidazione coatta - il Nuovo Banco (si veda, più ampiamente, l'esame del primo motivo del ricorso) e quindi non si presentò come credito erogato a quell'imprenditore, per venire incontro alle sue transitorie difficoltà, ma come credito ad una iniziativa d'impresa propria delle Banche che costituirono il Nuovo Banco.

È veramente singolare che la suddetta considerazione, contenuta - con le parole sottolineate - nella memoria, ad illustrazione del ricorso, sia ritenuta dai ricorrenti favorevole al loro assunto, quando invece costituisce un argomento contrario.

Se i terzi fecero credito solo per "salvare" l'azienda che intendevano acquistare, nella prospettiva ed a condizione dell'acquisto, si è verificata quella scissione fra impresa ed azienda di cui si è parlato supra. La creazione del Nuovo Banco sulle ceneri del vecchio aveva lo scopo di mondarlo dalla sua incapacità ad ottenere normale credito, eliminando la vecchia impresa che era caduta, in tale crisi di sfiducia per le vicende narrate in sentenza e note al sistema creditizio ed all'intero pubblico.

Le differenze con la vicenda della Banca privata (oggetto della sentenza n. 3615 del 1978) rendono ancora più evidente la sostanziale applicabilità dei principi in essa affermati al presente caso. Invero, nella vicenda della Banca Privata la cessione (peraltro soltanto "in itinere" e mai perfezionata) sarebbe stata operata dalla stessa Banca in bonis, mentre nel presente caso la cessione è stata programmata (al di fuori delle iniziative dell'impresa del vecchio Banco) come atto di liquidazione inteso a porre fine a quell'impresa.

Le sovvenzioni non intendevano sorreggere l'attività dell'impresa, ma miravano a farla uscire dal mercato senza che il sistema bancario subisse traumi con ripercussioni negative (chiusura degli sportelli; incapacità di far fronte alla massa dei ritiri dei depositi; interruzione della intermediazione nel credito da parte della vecchia struttura). Si trattava di una manovra in cui era impegnato il sistema per eliminare un'impresa che non aveva osservato le regole che il sistema stesso si è dato: quelle dell'accorto banchiere, munito di credito e di fiducia. Il Banco Ambrosiano non può - quindi - giovarsi dei crediti dei sovventori (e delle altre misure straordinarie decise dalla Banca d'Italia e descritte in sentenza) per dimostrare che godeva credito, perché anzi esse dimostravano che non n e aveva alcuno. È pertanto del tutto sufficiente la motivazione con cui la corte d'appello ha respinto la richiesta di una C.T.U. ed ha affermato che il rapporto fra cassa e debiti (asseritamente più favorevole, in quel periodo, per il Banco Ambrosiano, rispetto alle altre Banche) era irrilevante (pag. 71). Detti indici di liquidità (oggettiva, cioè riferita all'azienda e non all'imprenditore) da un canto non eliminarono del tutto le manifestazioni di sfiducia (ritiro dei depositi da parte della clientela; atteggiamento dell'Amministrazione finanziaria) e, dall'altro, furono acquisiti a prezzo di interventi anormalmente onerosi, transeunti, non illimitati e poi espressamente revocati e, soprattutto, funzionalmente diretti alla costituzione del nuovo Banco (che mirava ad ottenere un'azienda bancaria ancora in attività e non disgregata o disorganizzata) ed all'eliminazione dell'imprenditore che si era dimostrato incapace di svolgere in modo normale la propria attività d'impresa bancaria. In sostanza, questo aspetto della vicenda si salda con quello esaminato nel primo motivo; invero, le sovvenzioni delle banche furono parte dell'intero programma più volte descritto; e - come l'ultimo atto del programma (la cessione) non può avere rilievo per escludere un'insolvenza pregressa, in quanto atto totalmente e squisitamente liquidatorio - così gli atti precedenti vanno qualificati in ragione della loro preordinazione rispetto ad esso e non come indici di una recuperata fiducia verso l'imprenditore insolvente, perché incapace di ottenere, da sè, credito per la propria attività. Tutto il programma si svolse al di fuori della gestione normale dell'azienda di credito, nell'ambito di misura straordinaria di salvataggio dell'azienda (e non dell'impresa).

È da sottolineare, per finire, che una qualificazione della vicenda nel senso auspicato dai ricorrenti, dimostrerebbe una perversa volontà del sistema di voler eliminare un imprenditore che esercitava regolarmente l'attività bancaria, per permettere l'appropriazione della sua azienda da parte di altre banche. La tesi è così radicale da esigere una dimostrazione puntuale, che non può esserci, perché la ragione di tale eliminazione (a parte le altre irregolarità riscontrate dalla Banca d'Italia e che in questa sede non rilevano) fu proprio quella di circoscrivere il danno che l'insolvenza del Banco stava provocando all'intero sistema ed ai risparmiatori.

RICORSO n. 3404-86 (proposto da O. B.).

I) L'eccezione di inammissibilità sollevata dalla controricorrente è infondata, per gli stessi motivi già esposti in ordine al ricorso precedente.

II) Con l'unico motivo, il B. deduce la violazione degli artt. 5, 195, 202 legge fall., degli artt. 47 e ss., 68 legge 7 marzo 1938 n. 141; degli artt. 115 e 116 c.p.c., nonché difetto di motivazione in relazione all'art. 360 n. 3 e n. 5 c.p.c., osservando - in premessa - che l'impostazione della sentenza impugnata si fonda su presupposti normativi erronei o fraintesi, ed in particolare sul fraintendimento del procedimento predisposto e realizzato dalla P.A. per conservare e continuare l'impresa bancaria, evitandone il fallimento.

Il ricorrente sottolinea che la funzione della procedura di fallimento è quella liquidatoria, rispetto a cui la conservazione e continuazione dell'impresa bancaria appaiono eccezionali e strumentali e subordine (art. 90 legge fall.). Ma, nella specie, le norme della legge fall. andavano coordinate con quelle della legge bancaria 7 marzo 1938 n. 141. La liquidazione coatta amministrativa delle banche è uno degli strumenti - insieme a tutti gli altri contemplati dagli artt. 47 e ss. della legge bancaria - per evitare il fallimento, il quale costituisce soltanto il provvedimento residuale cui occorre far ricorso quando il salvataggio dell'impresa bancaria sia ritenuto dalla P.A. impraticabile o sia reso impossibile dagli eventi (artt. 67 e ss.), dato che la legge stessa privilegia la soluzione conservativa dell'impresa. Queste soluzioni concernono anche le aziende che non potrebbero far fronte alla crisi con i loro mezzi normali, perché contemplano interventi straordinari intesi a superare l'incapacità delle imprese in crisi a far fronte alle loro obbligazioni, per cui soltanto l'insolvenza obiettivamente irreversibile è causa di fallimento.

La legge bancaria prevede una serie di provvedimenti ed iniziative al fine di assicurare la continuità dell'esercizio dell'impresa, se del caso anche attraverso la sostituzione dell'imprenditore, e di evitare la procedura liquidatoria concorsuale (fusioni, concentrazioni, cessioni d'azienda a fronte di accollo delle passività, interventi pubblici a sostegno). La legge medesima fu ispirata dall'esigenza di evitare o riassorbire le insolvenze degli istituti di credito, favorendo le soluzioni conservative anche degli istituti di credito insolventi e cioè di quegli istituti che non sarebbero in grado di far fronte con propri mezzi normali di pagamento alle loro obbligazioni e devono essere salvati attraverso interventi straordinari; e ricorre alla soluzione liquidatoria soltanto se e quando l'insolvenza si è palesata pubblicamente, attraverso la cessazione dell'attività d'impresa; in questa luce va letta la norma dell'art. 68 che assoggetta alla liquidazione coatta amministrativa soltanto gli istituti per i quali si è verificata la chiusura degli sportelli. Secondo il B., non si può interpretare correttamente la legge bancaria, se non si considera l'interesse pubblico alla salvaguardia del sistema bancario e l'importanza determinante, sulla sorte degli istituti di credito, dell'elemento psicologico della fiducia nel sistema. La soluzione conservativa dell'impresa bancaria insolvente deve essere preferita se, attraverso interventi straordinari, l'insolvenza può essere rimossa, così salvaguardano i diritti dei creditori perché - per conservare l'impresa, occorre rimuovere il presupposto che ne imporrebbe la liquidazione concorsuale e cioè lo stato di insolvenza. Soltanto se la soluzione conservativa appare impossibile, perché l'insolvenza si manifesta pubblicamente con la cessazione dei pagamenti, oppure perché la Banca d'Italia ritiene che il pubblico interesse non esiga la conservazione dell'impresa, non resterà che prendere atto dell'irreversibilità dell'insolvenza e ricorrere al mezzo residuale della liquidazione concorsuale fallimentare.

Il ricorrente ritiene che sia errata l'affermazione della sentenza impugnata circa l'abrogazione implicita dell'art. 68 legge bancaria per incompatibilità con l'art. 5 legge fall. L'art. 68 della legge bancaria non confonde fra "insolvenza" e "cessazione dei pagamenti", nè si propone di introdurre una modifica della qualificazione dell'insolvenza risultante dall'art. 5 legge fall., ma si limita ad attribuire rilevanza, con riguardo alle imprese bancarie, alla "cessazione dei pagamenti" come pubblica manifestazione di un'insolvenza irreversibile proprio perché ormai divenuta pubblica, al fine di legittimare il ricorso alla procedura fallimentare.

Nella specie - secondo il ricorrente - la scelta adottata dalla P.A. è stata una scelta conservativa, resa possibile da interventi straordinari, nella prospettiva - rivelatasi corretta - di un giudizio prognostico che escludeva l'esistenza di uno stato di insolvenza irreversibile. Ciò risulta da fatti pacifici ed inoppugnabili.

Il Banco Ambrosiano non ha dato alcuna manifestazione non solo di insolvenza, ma neppure di sistematica inadempienza; non ha mai interrotto o sospeso la propria attività; gli sportelli chiusi il venerdì pomeriggio (6 agosto) si sono regolarmente riaperti il lunedì 9, con gli stessi rapporti; l'avviamento del banco è stato acquisito intatto al Nuovo Banco (e qui il ricorrente sottolinea la diversità rispetto alla esperienza precedente della Banca Privata Italiana, in cui venne adottata la procedura liquidatoria concorsuale).

L'esito ha confermato l'esattezza del giudizio prognostico che, escludendo l'insolvenza irreversibile, ha fatto l'attuazione della soluzione conservativa, salvando quel patrimonio di organizzazione, di strutture operative, di esperienze e di formazione professionale, di rapporti portati a conclusione senza pregiudizi per le controparti, che rappresenta il nucleo di ogni impresa capace di sopravvivere.

Tanto premesso, secondo il ricorrente i vizi della sentenza impugnata sono i seguenti:

a) l'aver ritenuto sussistere l'insolvenza, anche quando essa non si esteriorizzi - nè dopo la declaratoria - in inadempimenti sistematici o in manifestazioni esterne, ed anche se sia rimossa attraverso interventi straordinari. Invece, la possibilità di interventi straordinari (realizzi di attività, concorsi o contributi di denaro pubblico) costituisce una componente del giudizio prognostico inteso ad accertare se sussista o meno l'incapacità irreversibile di far fronte alle proprie obbligazioni, sicché la obiettiva e concreta prevedibilità di tali interventi, prima che l'insolvenza si sia pubblicamente manifestata in modo tale da rendere palese l'impossibilità di continuare l'esercizio dell'impresa, esclude la sussistenza dell'irreversibilità dell'insolvenza stessa, specie se questi interventi straordinari vengano utilmente e tempestivamente esercitati.

b) l'aver ritenuto che - se pur l'insolvenza è stata rimossa in data 8 agosto 1982, attraverso la cessione dell'azienda funzionante a nuovi imprenditori ed attraverso aiuti straordinari con denaro pubblico (d.m. 27 settembre 1974) - essa andava dichiarata, in quanto l'accertamento doveva essere riferito alla data del decreto di liquidazione coatta (anteriore di due giorni alla cessione d'azienda). In contrario, secondo il ricorrente, risulta dalle prove che la cessione dell'impresa ed il ricorso ad aiuti pubblici secondo legge erano già apprezzabile alla data del decreto di liquidazione, che anzi venne predisposto ed adottato al fine di realizzare la prima e conseguire i secondi, nell'ambito di un programma conservativo. In un giudizio prognostico, quale è quello relativo allo stato di insolvenza, la prova della possibilità concreta di evitare l'irreversibilità della crisi e la realizzazione della cessione due giorni dopo il decreto di ammissione alla procedura di liquidazione e prima della dichiarazione d'insolvenza ha un rilievo decisivo. Il decreto di liquidazione coatta di un'impresa bancaria non postula necessariamente l'insolvenza (art. 202 legge fall.), per cui la determinazione se la cessione dell'impresa sia stata un atto di disposizione idoneo ad evitare l'insolvenza o un atto di realizzo di beni in pendenza di un procedimento concorsuale liquidatorio non può che risolversi a favore della prima alternativa. Nella specie, poi, la liquidazione coatta fu lo strumento per la conservazione dell'impresa funzionante. L'immediata cessione si colloca in una logica previsione funzionale, come strumento per rimuovere ogni rischio di un'insolvenza non ancora manifestatasi. Il ricorso ad aiuti pubblici non implica alcuna valutazione negativa circa la solvibilità del cedente, senza dimenticare che i destinatari di tali aiuti sono stati i cessionari.

c) L'affermazione della sentenza impugnata che la mancanza della "cessazione dei pagamenti" o di qualsiasi altra manifestazione esterna di insolvenza sarebbe irrilevante, perché l'art. 68 della legge bancaria sarebbe stato abrogato per incompatibilità con l'art. 5 legge fall., è errata, come già premesso dal ricorrente.

Inoltre, secondo la giurisprudenza della S.C., manifestatasi esternamente l'insolvenza, può essere acquisita aliunde la prova che essa rimontava a data anteriore; ma nel caso nessuna manifestazione di insolvenza vi era stata nè prima nè dopo il 6 agosto 1982.

d) La sentenza impugnata, secondo il ricorrente, non ha colto le differenze fra la procedura fallimentare e quella conservativa prevista dalla legge bancaria, per cui le sono sfuggite le differenze fra insolvenza irreversibile e reversibile ed ha applicato ad un'impresa bancaria anziché la normativa speciale che la concerne - e che privilegia la soluzione conservativa - la normativa del fallimento.

Il ricorso conclude con alcune considerazioni "marginali" che - appunto perché tali e perché relative ad irrilevanti "motivazioni" extralegali della decisione impugnata - possono essere trascurate - Il ricorso è infondato.

Nella lunga premessa è esposto un sistema legislativo che non corrisponde a quello vigente, come risulta dalla semplice lettura delle norme. Già nella esposizione dei principi ispiratori della legge bancaria del 1938 (a prescindere dai suoi rapporti con la legge fallimentare) sono contenuti alcuni evidenti errori, come là dove si afferma che la procedura liquidatoria riguarda solo gli istituti di credito per i quali si è verificata la chiusura degli sportelli e cioè la cessazione dei pagamenti. Si osserva, in contrario, che l'art. 68 della legge n. 141 del 1938 prevede la dichiarazione dello stato di cessazione dei pagamenti, da parte del tribunale, riguardo ad un'impresa già posta in liquidazione coatta, per i motivi indicati dall'art. 67; e, quando si riferiva allo stato di "cessazione dei pagamenti" richiamava l'identica espressione del codice di commercio allora vigente, che identificava l'insolvenza appunto nella "cessazione dei pagamenti".

In altri termini, se l'impresa bancaria all'atto della messa in liquidazione coatta era insolvente (secondo i criteri vigenti all'epoca, giusta la legislazione generale) tale stato doveva essere dichiarato dal Tribunale, agli effetti di cui ai commi secondo e successivi dell'art. 68. La liquidazione coatta, insomma, procedeva secondo il suo iter normale; se però l'impresa - al momento in cui era stata assoggettata a detta procedura a- era in stato di cessazione dei pagamenti (e cioè "insolvente", secondo la legge vigente all'epoca per tutte le imprese commerciali, ai sensi degli artt. 683, 704 e 705 codice di commercio del 1882) previa declaratoria giudiziale di tale stato, si avevano gli ulteriori effetti richiamati dall'art. 68 (applicazione degli artt. 707-711 del predetto codice di commercio e dell'art. 9 della L. n. 955 del 1930; applicazione delle norme in materia di reati fallimentari).

Il sistema non è affatto cambiato, a tenore dell'art. 202 legge fall.: se l'impresa in liquidazione coatta (per la quale è escluso il fallimento, come avviene per le imprese bancarie) è - all'atto della messa in liquidazione - insolvente, il Tribunale dichiara tale stato, con gli effetti di cui all'art. 203. L'unico cambiamento consiste in ciò: che il Tribunale non deve far riferimento allo stato di cessazione dei pagamenti (a cui faceva riferimento l'art. 68 legge bancaria), ma allo stato di insolvenza, secondo la norma dell'art. 5 legge fall., e cioè per effetto dell'art. 194 secondo comma legge fall. ("sono abrogate le disposizioni delle leggi speciali incompatibili con quelle degli articoli 195, 196, 200, 201, 202, 203, 209, 211 e 213). Pertanto, non può ritenersi che, per le imprese bancarie, lo stato di insolvenza sia realizzato dallo stato di "cessazione dei pagamenti" (e cio 'a prescindere dalla soluzione della questione del significato da attribuirsi a tale espressione) perché lo stato di insolvenza, a cui fa riferimento l'art. 202, non può che essere quello fissato dalla stessa legge fallimentare, per cui non si può far ricorso all'art. 68 legge bancaria del 1938, ma all'art. 5 legge fallimentare medesima.

Il secondo errore contenuto nella premessa consiste nella attribuzione di un'attitudine "conservativa" anche alla misura della liquidazione coatta delle imprese bancarie, ex art. 67 legge bancaria del 1938. La contraddizione è evidente: una procedura di liquidazione non può essere conservativa, anche se nell'ambito di essa - anziché disperdere gli elementi dell'azienda in crisi e disintegrarla - l'azienda venga conservata, trasferendola ad altro imprenditore (si richiami l'ampio discorso già esposto da questa Corte in ordine alla distinzione fra impresa ed azienda).

Lo scopo della liquidazione, è, infatti, quello di eliminare dal mercato l'imprenditore bancario "irregolare": non si dimentichi, infatti, che l'art. 67 legge bancaria prevede (come puntualmente è avvenuto nella specie) la contestuale revoca dell'autorizzazione all'esercizio del credito e messa in liquidazione, sicché l'impresa bancaria viene eliminata, come tale. Se (anche approfittando di meccanismi creati in tempo successivi alla legge bancaria) l'azienda viene conservata, per non danneggiare l'intero mercato, il pubblico dei risparmiatori e la fiducia nel sistema (che non ha a che vedere con la fiducia nel singolo imprenditore), questo è un altro discorso, già esposto supra. Ma tale conservazione dell'azienda non significa affatto che l'impresa bancaria abbia versato in uno stato di insolvenza reversibile, recuperando la liquidità tramite il ricorso a quei meccanismi di intervento pubblico. Il discorso fatto dal ricorrente è di un semplicismo veramente sorprendente, là dove afferma che il Banco - chiusi regolarmente gli sportelli il venerdì - li riaprì il lunedì successivo, senza mai manifestare alcuno stato di insolvenza, perché mai ha "cessato i pagamenti". Tale discorso ignora, in primo luogo, che la chiusura riguardò un'impresa, e la riapertura una nuova impresa (il Nuovo Banco Ambrosiano) che utilizzò la medesima azienda della precedente, succedendo però nell'azienda (ovviamente anche con l'apporto di altri mezzi) e non nell'impresa, Ignora, inoltre, le macroscopiche pubbliche manifestazioni (diligentemente elencate dalla sentenza impugnata, e su cui il ricorrente non spende una parola) qualificate come perdita della fiducia e del credito e cioè come stato di insolvenza del vecchio Banco, dalla sentenza impugnata (il ritiro dei depositi; il ricorso all'indebitamento a condizioni onerose e non remunerative, tanto da pregiudicare in maniera irreversibile l'intero capitale; il disegno complessivo delle banche, di intervenire a sostegno dell'azienda fino ad un certo livello e non oltre, ed a condizione della messa in liquidazione coatta della vecchia impresa, etc. etc.).

L'errore dell'impostazione generale si riflette nell'inconsistenza delle singole censure:

a) l'esteriorizzazione dei fatti significativi ai fini dell'insolvenza è stata accertata dalla Corte d'Appello (vedi supra) e gli interventi straordinari, della Banca d'Italia e delle altre Banche, secondo il suo incensurabile e motivato giudizio, non sono valsi a rimuoverla, perché transitori, onerosi ed incapaci a sanare lo sbilancio patrimoniale ed inoltre intesi a realizzare un programma di cui componente essenziale era l'eliminazione dal mercato del vecchio Banco, sicché era resa pubblica l'impossibilità di continuare normalmente, attraverso il ricorso al credito, l'esercizio dell'impresa. Di conseguenza, l'insolvenza era irreversibile, perchè in nessun momento si prospettò la soluzione di una continuazione dell'impresa del vecchio Banco, e cioè di conservazione della gestione della sua azienda da parte di quell'imprenditore.

b) L'atto di cessione va qualificato come atto squisitamente ed esclusivamente liquidatorio (vedi, amplius, supra).

c) L'art. 68 della legge bancaria è stato abrogato per incompatibilità con gli artt. 202 e 203 legge fall., che regolano l'intera materia già regolata dall'art. 68, ai sensi dell'art. 194 secondo comma legge fall. Inoltre, le manifestazioni esteriori di insolvenza (diverse dagli inadempimenti, ma ciò non rileva secondo la giurisprudenza costante) sono state descritte minuziosamente dalla corte d'appello, con il supporto di documenti e di cifre, senza che il B. censuri in modo pertinente e sufficiente tale valutazione.

d) La sentenza impugnata ha coordinato esattamente la legge bancaria e quella fallimentare; ha riconosciuto che la liquidazione coatta dell'impresa bancaria non può essere, per la contraddizione insita nel diverso assunto, una misura conservativa dell'impresa, anche se un atto della liquidazione si concreti nella conservazione dell'azienda bancaria; atto che però non può qualificarsi come espressione di una reversibilità dell'insolvenza, perché anzi segna la definitiva ed irreversibile scomparsa dal mercato dell'impresa in crisi, affetta da perdita di fiducia, del credito normale e dell'intero capitale, e cioè in stato di insolvenza.

La memoria (a parte la esatta contestazione dell'eccezione di inammissibilità del ricorso, rigettata da questa Corte) non aggiunge alcuna argomentazione giuridica valida a confortare il ricorso.

È esatto che non può ammettersi l'equiparazione fra il fallimento e la liquidazione coatta delle imprese bancarie, appunto perché questa può essere con ovvero senza dichiarazione di insolvenza; ma non è esatta la distinzione fra imprenditore ed impresa, allo scopo di sostenere che la revoca dell'esercizio del credito ha colpito il primo e non la seconda. Si è già detto, all'inizio della motivazione, che l'impresa va attribuita ad un determinato imprenditore e che da essa si distingue lo strumento per il suo esercizio, e cioè l'azienda (art. 2555 c.c.), che è oggetto di diritti.

La revoca dell'autorizzazione all'esercizio del credito ha riguardato, pertanto, l'impresa gestita da quel dato imprenditore, mentre la legge bancaria conosce misure conservative dell'impresa bancaria, fra le quali non è compresa la liquidazione coatta, per le ragioni già esposte.

L'affermazione secondo cui non è incompatibile per le banche "ravvisare l'insolvenza nella cessazione dei pagamenti" è priva di significato, se con essa si vuole sostenere che l'art. 68 legge bancaria deve sovrapporsi all'art. 5 legge fallimentare, stante l'abrogazione della prima norma in forza dell'art. 194 secondo comma stessa legge (cfr. Cass. n. 3567-85); e non è rilevante, se si vuole sostenere che l'insolvenza può manifestarsi anche con la cessazione dei pagamenti (oltre che con gli altri fatti esteriori di cui al secondo comma art. 5 legge fall.).

In ordine alla qualificazione ed all'efficacia dell'atto di cessione, la memoria non apporta argomenti nuovi, che non siano stati già esaminati con riguardo al primo motivo del ricorso n. 2977-86.

Infine, il richiamo alla motivazione di Cass. n. 3615 del 1978, giova a dimostrare la possibilità che - nella prioritaria prospettiva della salvaguardia della funzionalità e credibilità del sistema bancario - accada che in concreto, per effetto dei provvedimenti dell'autorità monetaria sia raggiunto, assieme al suddetto scopo, anche l'obiettivo del risanamento dell'azienda di credito; ma nella fattispecie non si discute di una possibilità astratta, bensì del concreto atteggiarsi di quei provvedimenti con riguardo alla vicenda del Banco Ambrosiano. Ed allora non potrà che ribadirsi che essi furono adottati sulla base del presupposto indeclinabile di un risanamento dell'azienda già gestita da quel Banco, proprio per fini di interesse generale, in contestualità però con il distacco definitivo di tale azienda dall'imprenditore insolvente, perché sfornito di fiducia e di credito, per cui la postergazione della cessione rispetto alla messa in liquidazione non fu un "accidente" nel percorso già programmato dell'intera operazione, ma un momento essenziale ed indeclinabile di essa, che doveva necessariamente procedere la cessione stessa. Di conseguenza quest'ultima non ha sanato l'insolvenza di un imprenditore che non gestiva più la propria azienda, ma si è profilato come un atto di liquidazione dell'impresa del Banco Ambrosiano che, a quel momento, era in stato di conclamata e manifesta insolvenza, in base ai fatti esposti diffusamente dalla Corte milanese (e dei quali il ricorrente B. non parla neppure, sicché i suoi rilievi conclusivi non colgono l'essenza della questione fondamentale di causa, confondendo il subingresso del Nuovo Banco nell'azienda italiana del vecchio Istituto di credito con un atto di continuazione dell'impresa di quest'ultimo, che invece manifestamente non può configurarsi, giusta i principi generali affermati da questa corte, sicché non può valere a sanare l'insolvenza del vecchio Banco, presentandosi invece come inizio di una nuova impresa che ha utilizzato gli strumenti aziendali di quella uscita dal mercato).

RICORSO 3406-87 ( di A. M.):

è identico al ricorso n. 2977-86 e pertanto ne segue le sorti.

RICORSO n. 3647-86 (di L. R.) I) Col primo motivo, si denuncia la violazione dell'art. 5 legge n. 2248 all. E del 1865 e la violazione e falsa applicazione dell'art. 360 n. 5 c.p.c., per omessa o insufficiente motivazione su un punto decisivo della controversia, rilevabile d'ufficio, osservando che "nel corso della fase d'appello" il R. aveva sottoposto alla Corte di Milano questione della possibilità di disapplicazione del d.m. 6 agosto 1982, perché illegittimo, in applicazione, d'ufficio, dell'art. 5 della legge n. 2248-65, all. E.; disapplicazione che era presupposto di insussistenza dello stato di insolvenza. La Corte non ha considerato la rilevabilità d'ufficio della questione, limitandosi ad escluderla dal proprio esame con la semplice considerazione che essa non era stata tempestivamente sollevata ed era quindi fuori dal thema decidendum.

Secondo il R., il vizio fondamentale della sentenza impugnata sta nel non aver considerato lo svolgimento determinato e pilotato (fuori di ogni ratio e limiti delle norme ex artt. 67 e ss. legge n. 375 del 1936 e 194 e ss. legge n. 267 del 1942) dei fatti e delle operazioni dal 17 giugno 1982 (data del D.M. di liquidazione) e al 9 agosto 1982 (data del ricorso per la dichiarazione dello stato di insolvenza). Le reali ed obiettive considerazioni di questi fatti possono portare a dubitare della sussistenza delle condizioni e presupposti per la liquidazione, ed escludere la sussistenza di quello stato. Il discorso sul D.M. 6 agosto 1982 non può escludersi, in questa sede, solo che si tenga conto che le Autorità giudiziarie ordinarie sono tenute ad applicare gli atti amministrativi in quanto siano conformi a legge, mentre, in caso contrario, possono disapplicarli. L'atto amministrativo suddetto contiene vizi che lo rendono ingiustificato ed illegittimo e sono così esposti dal ricorrente:

I ) Difetto di motivazione. Il decreto è privo di propria, autonoma motivazione, in esso richiamandosi soltanto la formula di legge, senza riferimenti specifici alla situazione in oggetto, così vanificandosi la prescrizione di una valutazione autonoma e manifestata da parte di ciascuno e di tutti gli organi che debbono concorrere alla formazione del provvedimento, nonché l'esigenza di mettere a disposizione una motivazione chiara, coerente ed adeguata.

2 ) Violazione dell'art. 67 legge n. 375-36; eccesso di potere per difetto di istruttoria e di presupposti, per illogicità ed ingiustizia manifesta.

a) La liquidazione presuppone di circostanze obiettive (perdite patrimoniali, irregolarità o violazione di legge o di statuto di eccezionale gravità) che determinino impossibilità di continuare l'attività d'impresa e sicura inattuabilità di misure di risanamento, onde derivi eliminazione dell'azienda. La mancanza dei presupposti richiamati è rivelata oltretutto dal trasferimento dell'azienda che era deciso che dovesse eseguirsi (v. deliberazioni dei Consigli di amministrazione delle Banche che hanno poi costituito la società cessionaria) e che è stato eseguito mediante e subito dopo la liquidazione alla società appositamente costituita e destinata a gestire soltanto questa azienda.

b) il difetto di istruttoria consiste nella sommarietà delle indagini sui fatti della crisi del Banco, nella mancata redazione di una situazione patrimoniale o di un bilancio, conseguenze questa della brevissima durata dell'Amministrazione straordinaria ed è rilevata dall'invocazione contestuale in tutti i motivi previsti nella domanda di liquidazione, mostrandosi così confusione, perplessità, inadeguatezza e incompletezza di valutazione.

c) la mancanza dei presupposti deriva dal mancato esatto accertamento di perdite patrimoniali (non sono state redatte situazioni patrimoniali o bilanci) e dalla mancata considerazione dell'avviamento.

d) le pretese violazioni di norme di legge o di statuto considerate si riferiscono, prevalentemente, al funzionamento degli organi sociali e ai rapporti fra di esse, senza conseguenze sulla situazione patrimoniale dell'azienda e, comunque, non rivestono il carattere di gravità richiesto.

e) non appare la grave crisi che comporti l'impossibilità di soluzione. L'Amministrazione straordinaria è mancata alla funzione e alle finalità proprie (accertamento della gravità e rilevanza della crisi; risanamento dell'azienda da ricercarsi nei termini di legge di un anno più sei mesi eventuali; passaggio alla liquidazione dopo il decorso dei termini e la constatazione dell'impossibilità del risanamento). Nella specie, la liquidazione è stata ipotizzata subito, proposta e disposta un mese e mezzo dopo l'inizio dell'amministrazione straordinaria, senza che sia stato compiuto il minimo tentativo per il risanamento (neppure la convocazione di assemblea straordinaria di soci per verificare la sussistenza della possibilità di ricostituzione del capitale). Tutto si spiega se si considera la necessità di portare a compimento di disegno del piano predisposto il 2 luglio 1982.

3 ) Eccesso di potere per sviamento.

La liquidazione del Banco non è derivata dal normale svolgimento dei procedimenti di legge, ma dall'intento di realizzare il ben preciso piano predisposto fin dal 2 luglio 1982: costituire una società di banche per l'esercizio del credito; mettere in liquidazione coatta amministrativa il Banco Ambrosiano s.p.a.; cedere contestualmente o quasi attività e passività alla nuova società. Il piano risulta inequivocabilmente dalle delibere dei Consigli di Amministrazione delle Banche interessate all'operazione.

Appare evidente che la cessione non è stata eseguita in conseguenza ed in funzione della liquidazione (come di norma), ma la liquidazione è stata ordinata in funzione della cessione già studiata ed organizzata: caso più emblematico di eccesso di potere per sviamento non può trovarsi. Si spiega, quindi, perché non era necessario che l'amministrazione straordinaria assolvesse ai suoi compiti, perché non era necessario alcun accertamento reale dello stato del Banco (si ricordi che nell'atto di cessione non è stato neppure indicato il prezzo, che o non si conosceva o non si voleva conoscere), alcun tentativo di recupero di crediti, alcuna iniziativa di risanamento.

Concludendo, secondo il ricorrente, anche a prescindere dal ricorso al TAR del Lazio tuttora pendente, il Giudice ordinario era legittimato, ex art. 5 legge n. 2248-1865 all. E., a disapplicare l'atto amministrativo.

Il motivo (che si è ritenuto opportuno trascrivere quasi integralmente per garantire puntualità e chiarezza dei riferimenti) è infondato.

La questione sostanziale che ne forma oggetto fu esposta - nei medesimi termini - per la prima volta nella comparsa conclusionale depositata in appello dal R. il 7 settembre 1985, mentre di esse non era stato fatto cenno (nè da lui nè da altri) in precedenza, durante il corso del giudizio di primo grado e neppure nella citazione d'appello.

Tale aspetto processuale (puntualmente descritto a pag. 45 della sentenza impugnata) ha condotto i giudici d'appello ad affermare che la questione stessa non poteva esser presa in esame, per l'assorbente considerazione che essa non era stata sollevata con l'atto d'appello, in quanto nel giudizio di impugnazione il thema decidendum è fissato e delimitato dai motivi di gravame, formulati con la citazione d'appello, e non può essere ulteriormente ampliato nel corso del processo.

La suddetta decisione deve essere sostanzialmente confermata, con le precisazioni che saranno fatte. Invero, non può essere accolta quella parte della censura nella quale il R. afferma che la questione, pur se sollevata nella comparsa conclusione d'appello, era conoscibile d'ufficio dal giudice, in quanto attinente alla legittimità di un atto amministrativo che il giudice ordinario doveva disapplicare d'ufficio, nell'ambito del giudizio sull'esistenza dell'insolvenza, in quanto influente su un presupposto dell'insolvenza stessa.

Il collegio rileva che proprio tale collegamento fra la questione e l'unico oggetto del giudizio (che è quello, indicato esattamente dallo stesso R. nella premessa delle sue deduzioni in proposito svolte nella comparsa conclusionale citata, e cioè "accertarsi e dichiararsi se il Banco Ambrosiano, al tempo in cui ne è stata ordinata la liquidazione coatta amministrativa, si trovasse in stato di insolvenza") conducono alla negazione che la questione fosse rilevabile d'ufficio, cioè anche fuori dai limiti di una puntuale e tempestiva deduzione e richiesta delle parti interessate.

Ricordando sommariamente la giurisprudenza in tema di potere (o meno) d'ufficio del giudice di disapplicare l'atto amministrativo, si osserva che talvolta si è deciso in senso positivo: a) in tema di accertamento dei presupposti di validità - ivi compresa la competenza ad emettere - dell'atto amministrativo i cui effetti devono essere conosciuti dal giudice ordinario (Cass. 7 febbraio 1970 n. 283); b) in tema di illegittimità di un regolamento non conforme a legge (Cass. 24 luglio 1971 n. 2479); c) in tema di eventuale disconoscimento degli effetti dell'illegittimo provvedimento di condono fiscale sul diritto dedotto in un giudizio di opposizione all'ingiunzione fiscale (S.U. 7 novembre 1978 n. 5064; d) in tema di disapplicazione di un provvedimento amministrativo posto a base di un'ordinanza - ingiunzione irrogativa di sanzione amministrativa (Cass. 9 dicembre 1985 n. 6219); e) in tema di illegittimità della predetta ordinanza ingiunzione (Cass. 14 dicembre 1987 n. 9262).

In altre occasioni, invece, si è negato tale potere d'ufficio: f) in tema di vizi dell'atto amministrativo lesivo del diritto soggettivo dedotto in giudizio, da accertarsi nei limiti di quelli specificamente dedotti (Cass. 19 maggio 1972 n. 1531); g) in ipotesi di illegittimità dell'atto derivante dal vizio di travisamento del fatto (Cass. 19 marzo 1981 n. 1616); h) in tema di eccezione di estinzione del credito dell'amministrazione fatto valere con l'ordinanza - ingiunzione irrogativa di sanzione amministrativa (Cass. 11 febbraio 1987 n. 1477).

Non è certamente questa la sede per verificare se i suddetti orientamenti presentino profili di contrasto, allo scopo di sceglierne eventualmente uno. Infatti, ai fini della decisione rilevando altri principi processuali - generalmente accettati e più volte ribaditi - attinenti ai rapporti fra il giudizio di primo grado e quello d'appello (e, pertanto, per esempio, non sono utilizzabili in questa sede le sentenze riguardanti giudizi che si svolgono in unico grado, come quelle citate sub d), e) ed h), mentre bisognerebbe accertare se le altre sentenze riguardino anche i poteri del giudice di secondo grado). Inoltre, è estranea al tema il precedente sub b), che riguarda l'applicabilità di norme giuridiche.

Nel presente caso, nell'ambito dell'unico oggetto del giudizio (lo stato d'insolvenza del Banco, riferito ad una certa data) la cognizione della legittimità (o meno) del decreto di messa in liquidazione coatta poteva influire sia sotto il profilo - appunto - della data a cui far risalire l'insolvenza, sia sotto quello dell'accertamento e della qualificazione del complesso procedimento che (tramite il passaggio obbligato della liquidazione coatta) aveva portato all'atto di cessione dell'azienda, perché era in discussione la rilevanza della cessione stessa ai fini del giudizio sull'insolvenza. Ed in tali termini si era svolto il dibattito fra le parti in primo grado, mentre la sentenza del Tribunale aveva giudicato su entrambe le questioni in base al presupposto indiscusso della legittimità del decreto di liquidazione coatta, il quale si presentava - in quella sentenza - come fatto storico pacifico.

Orbene: il suddetto elemento fattuale veniva completamente ribaltato con le deduzioni sollevate tardivamente in appello, perchè da un giudizio nell'ambito del quale era compresa l'esistenza del fatto suindicato, si intendeva passare ad un giudizio nel quale esso doveva essere considerato "come se" non esistesse, in quanto illegittimo e da disapplicare. Alcuni degli elementi di fatto compresi nelle deduzioni di cui si sta discorrendo (ad esempio: la motivazione del decreto; il preteso difetto d'istruttoria; la mancanza di un bilancio all'esito dell'amministrazione straordinaria; la mancata convocazione dell'assemblea; l'accertamento delle violazione commesse dagli organi ordinari del Banco) erano completamente nuovi e mai dedotti prima; altri, invece, già appartenevano alle prove raccolte, ma tuttavia nell'ambito di una diversa ed addirittura opposta prospettazione di regolarità e legittimità degli atti della procedura di liquidazione coatta. È evidente, pertanto, che le suddette deduzioni introducevano elementi di fatto e valutazioni giuridiche del tutto nuovi rispetto non solo a quanto si era dibattuto in primo grado, ma era stato anche affermato dalla sentenza conclusiva di quel giudizio. Pertanto, il soccombente, per ottenere la riforma della pronuncia, avrebbe dovuto dedurre con la citazione d'appello, che fissa definitivamente il contenuto e la portata delle doglianze dell'appellante, sia quei fatti, sia le conseguenti valutazioni giuridiche, da lui ritenute rilevanti al fine di un diverso giudizio sul fatto da accertare (l'insolvenza).

Le deduzioni, in altri termini, si profilavano come eccezioni non rilevabili d'ufficio perché comportanti la cognizione di fatti nuovi o comunque di profili diversi di fatti già esaminati. Una valutazione diversa e contrastante con quella contenuta nella sentenza di primo grado costituiva un sistema difensivo, in linea di fatto e di diritto, completamente nuovo, che l'appellante non può proporre tardivamente nella comparsa conclusionale di secondo grado, in violazione del diritto di difesa delle controparti, in quanto eccedente l'oggetto e l'ambito del riesame delimitato con la citazione d'appello (Cass. 25 giugno 1980 n. 3997; Cass. 24 novembre 1981 n. 6240; Cass. 3 aprile 1981 n. 1903; Cass. 3 gennaio 1986 n. 24, fra le altre).

Il rigetto della censura concernente la pretesa rilevabilità d'ufficio dell'asserita illegittimità del decreto 6 agosto 1982 comporta ovviamente il rigetto del motivo, in quanto resta ferma la pronuncia del giudice d'appello che ha ritenuto di non poter esaminare il merito della questione.

Con il secondo motivo, il ricorrente deduce la violazione e falsa applicazione degli artt. 5. 195, 202 r.d. n. 267-1942, arrt. 67. 68 r.d.l. n. 375 del 1936 (ex art. 360 n. 3 e 5 c.p.c.) osservando:

a) è viziato il convincimento di aver accertato lo stato d'insolvenza per aver giudicato l'insolvenza di una banca con la stessa misura di giudizio dell'insolvenza di ogni altra impresa commerciale, richiamandosi, sul punto, soltanto alle norme della legge fallimentare, escludendo l'applicabilità delle norme della legge bancaria (in particolare dell'art. 68), che differiscono profondamente, posto che nella legge bancaria prevale il concetto di assicurare la conservazione e la continuazione dell'impresa in crisi e soltanto in extremis pervenire alla liquidazione, mentre nella legge generale prevale il concetto di liquidare l'attivo per soddisfare al meglio i creditori;

b) è erroneo aver ritenuto che l'insolvenza non debba esser rivelata da inadempimenti sistematici e aver considerato non normali i mezzi usati nella specie, in cui alcun inadempimento o segno esteriore di insolvenza sono stati rilevati. Gli interventi attuati, in assenza di manifestazioni di fatti che rendessero chiara l'impossibilità di continuare l'esercizio dell'impresa rientrano nel disegno conservativo dell'impresa e della sua continuazione.

c) non può farsi riferimento alla data del 6 agosto 1982, perchè rispetto al piano del 2 luglio ed alla esecuzione di esso un solo giorno non ha significato, tanto più se si consideri che a quel giorno preciso la situazione potrebbe essere stata deliberatamente determinata in senso necessario: la legge fa riferimento ad uno stato, che presuppone una durata nel tempo, e non ad un giorno.

Inoltre, secondo il ricorrente, doveva tenersi conto della predisposizione degli strumenti per sanare la posizione del Banco già prima del 6 agosto 1982, nonché del fatto che l'azienda del Banco già durante l'amministrazione straordinaria era stata affidata al pool di Banche che poi hanno costituito il Nuovo Banco Ambrosiano s.p.a., destinatario definitivo di quell'azienda; e - quindi essendosi ceduta l'azienda in piena normalità, non poteva ritenersi accertata l'insolvenza dell'impresa al 6 agosto 1982, che aveva preceduto di soli due giorni la cessione, la quale non poteva esser ritenuta atto di liquidazione, ma di conservazione dell'azienda e di continuazione dell'impresa, per rimuovere ogni rischio di insolvenza non ancora manifestatosi.

d) L'art. 68 della legge bancaria non è incompatibile con l'art. 5 del r.d. 267-42 e non può ritenersi abrogato.

Il motivo è infondato, perché in esso sono contenute argomentazioni già esaminate e respinte esaminando i precedenti ricorsi: quelle sub a) e sub d) coincidono con le censure del ricorso 3404-86; quella sub b) con il secondo motivo del ricorso n. 2977-86; quella sub c) col primo motivo del medesimo ricorso. È inutile, pertanto, riesporre le ragioni del loro rigetto.

RICORSO n. 3765-86 (di R. R.).

Con l'unico motivo, si denuncia violazione degli artt. 5, 195 e 202 r.d. 16 marzo 1942 n. 267 e dell'art. 68 r.d.l. 13 marzo 1936 n. 375, nonché difetto di motivazione (art. 360 n. 3 e n. 5 c.p.c.), osservando (dopo alcune premesse, fra cui quella concernente la differenza della presente vicenda rispetto a quella relativa alla Banca Privata Italiana - oggetto della sentenza della S. C. n. 3615 del 21 luglio 1978 -, in quanto gli interventi delle banche del pool furono eseguiti sia prima, con l'erogazione dei finanziamenti, sia dopo, con il rilievo dell'azienda di credito) quanto segue:

a) le norme dell'art. 68 della legge bancaria e degli artt. 5 e 194 della legge fall. non sono in contrasto, perché la prima, riferendosi ai fatti che possono costituire manifestazioni d'insolvenza, li identifica nella "cessazione dei pagamenti", nell'ambito della logica conservativa della legge bancaria, sicchè è logico che non ogni difficoltà finanziaria dà luogo all'insolvenza della banca.

b) anche dimenticando la legge bancaria, nella specie il concetto di stato di insolvenza è stato erroneamente applicato perchè:

1) fin dal mese di giugno 19182 le banche del pool avevano provveduto ai finanziamenti, a cui si aggiunsero le agevolazioni della Banca d'Italia ed altri finanziamenti, sicché la gestione del Banco potè procedere con regolarità ed anzi aumentarono gli affidamenti presso terzi e l'indice di liquidità dell'azienda si mantenne superiore a quello corrente per istituti similari. L'attività della Banca non fu interrotta neppure per un minuto e la cessione dell'azienda era già predisposta. Il 6 agosto 1982 non vi era un'insolvenza determinata dalla cessazione dei finanziamenti determinata dalla maturazione del tempo per il rilievo dell'azienda. La liquidità fu procurata ed all'azienda subentrò un nuovo imprenditore, con la tempestività necessaria per evitare qualsiasi inadempienza.

2) Gli interventi del pool sono stati definiti dalla sentenza impugnata "onerosi" senza motivazione, perché la durata di essi (di appena qualche mese) non poteva incidere sul conto economico = della gestione ed era giustificata dall'esigenza di superare il periodo critico, ed inoltre perché non ha logica ritenere di rilievo una maggiore spesa di qualche miliardo, se la gestione del periodo era già finalizzata alla prevista cessazione dell'impresa con il trasferimento dell'azienda ad un nuovo imprenditore. Infine, il ricorso ad un finanziamento oneroso non può essere considerato irregolare se = resta nei limiti di un'operazione straordinaria destinata a far superare un periodo di momentanea difficoltà, venuto a cessare col trasferimento dell'impresa a terzi.

Inoltre, l'argomento della pretesa eccezionalità degli interventi è errato, perché gli interventi di sostegno del sistema non costituiscono di per sè uno strumento anormale che manifesta una situazione di insolvenza. Dalla sentenza n. 3615-78 della S.C. risulta che gli interventi suddetti non eliminano la possibilità di dissesto e di dichiarazione dello stato d'insolvenza di un'impresa bancaria, quando i suoi sportelli sono chiusi ed altri istituti intervengono a pagare a depositanti, in quanto le banche sovventrici si sono sostituite nella titolarità dei crediti.

Nel caso dell'Ambrosiano, però, secondo il ricorrente, gli interventi non sono consistiti nel pagamento dei depositanti, ma in prestiti di somme contro più che adeguato corrispettivo, destinati a sorreggere la gestione nel periodo di crisi transitoria. Si tratta del più normale degli interventi: il pubblico tende a ritirare i propri depositi, perché è allarmato ed il Consiglio d'Amministrazione chiede la nomina di Commissari che diano trasparenza e quindi fiducia nell'impresa, mentre il sistema anticipa la liquidità necessaria per il suo normale funzionamento, salvando l'impresa.

Il ricorso è infondato.

Con esso si sostengono - in sostanza - le medesime tesi esposte dagli altri ricorrenti, per cui sarebbe inutilmente ripetitivo un diffuso riesame, che condurrebbe al medesimo risultato.

Basterà - quindi - ribadire che si deve applicare l'art. 5 della legge fallimentare; che l'apprezzamento dell'andamento della gestione dell'impresa dal mese di giugno 1982 in poi come andamento "normale" costituisce un giudizio sui medesimi elementi di fatto esaminati dalla Corte d'appello, con un apprezzamento diverso che è incensurabile in questa sede, in quanto ampiamente e correttamente motivato, sulla base di esatti principi giuridici, laddove si è sottolineato che l'intervento di sostegno delle banche fu oneroso (tanto da escludere ogni redditività dell'impresa e da incidere, alla lunga, sul capitale), limitato nel tempo ed a un certo punto revocato; non erogato per la fiducia che riscuoteva l'imprenditore, ma su richiesta delle autorità monetarie e nella sola prospettiva di un'acquisto dell'azienda. Sotto tale profilo, nella sentenza impugnata si trova la risposta alla tesi secondo cui il carattere transitorio dell'intervento era in correlazione con la transitorietà della momentanea difficoltà dell'impresa, destinata a risolversi: invero, poste che lo stesso ricorrente ammette la "prevista cessazione dell'impresa con il trasferimento dell'azienda ad un nuovo imprenditore" (e cioè concorda con quanto ha detto la sentenza impugnata ed è stato ribadito da questa Corte), è evidente che tale circostanza impedisce di qualificare gli interventi e la cessione (strettamente collegati fra di loro, secondo lo stesso ricorrente) come misure di risanamento dell'impresa e di ristabilimento delle sue normali condizioni di operatività. Se l'impresa non doveva essere conservata, ciò dipendeva dalla sua definitiva perdita di credibilità e di fiducia, presso il pubblico, il sistema bancario e le autorità monetarie, che pertanto provvidero a risanare l'azienda - permettendone il trasferimento ad un altro imprenditore - per la tutela del pubblico e per salvaguardare la solidità dell'intero sistema. Si trattò di misure contro la crisi di insolvenza adottate per evitare i maggiori danni di una chiusura degli sportelli, nell'ambito di un complesso meccanismo di intervento che prevede come condizione necessaria l'eliminazione dell'impresa insolvente: questo è il giudizio motivatamente dato dalla sentenza impugnata, sulla scorta dei fatti esterni ivi descritti, dimostrativi dell'incapacità dell'imprenditore di far fronte con mezzi normali all'adempimento delle proprie obbligazioni, quando fu posto in liquidazione coatta.

La celerità dell'operazione, nell'ambito di tale giudizio, permise di non chiudere mai gli sportelli e di evitare gli inadempimenti: ma tali fatti non esclusero l'insolvenza, per i motivi più volte esposti.

Al rigetto del ricorso segue la condanna dei ricorrenti (che deve essere pronunciata in solido, ex art. 97 primo comma c.p.c., stante il loro interesse comune) alle spese del giudizio di cassazione, in relazione al valore della causa.

 

p.q.m.

La Corte di Cassazione riunisce i ricorsi n. 2977, n. 3402, n. 3406, n. 3647 e n. 3765 del 1986 e li rigetta.

Condanna i ricorrenti in solido a rimborsare le spese del giudizio di cassazione a favore del resistente, liquidate in lire 20.400.000 di cui lire 20.000.000 (ventimilioni) di onorari di avvocato.

Così deciso a Roma il 7 luglio 1988. (1) adde: "tali obbligazioni, ottenendo dal cessionario" (2) adde: "era la messa in liquidazione, sicché la cessione".... 2 postille approvate.