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Il Caso.it, Sez. Giurisprudenza, 24074 - pubb. 11/01/2020.

Stato d'insolvenza di società inserita in un gruppo di società collegate o controllate


Cassazione civile, sez. I, 27 Giugno 1990. Pres. Granata. Est. Caturani.

Stato di insolvenza - Società inserita in un gruppo di società collegate o controllate - Accertamento dell'insolvenza - Criteri


L'accertamento dello stato d'insolvenza di una società, al fine della dichiarazione del fallimento, va effettuato con esclusivo riferimento alla sua situazione economica, anche quando sia inserita in un gruppo di società collegate o controllate, considerato che ciascun ente conserva distinta personalità ed autonoma qualità d'imprenditore, rispondendo con il proprio patrimonio soltanto dei propri debiti, e che, inoltre, le speciali regole dettate per l'amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi non sono estensibili al di fuori delle peculiari ipotesi contemplate. (massima ufficiale)

 

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con sentenza del 10 novembre 1979, il Tribunale di Roma su istanza dell'I.C.C.R.I. - Istituto di Credito delle Cassa di Risparmio Italiane, dichiarava il fallimento della s.r.l. A. I. Avverso tale sentenza, con citazione del 3 dicembre 1979 proponeva opposizione la società fallita, assumendo; 1) di non essere stata posta in condizione di esercitare completamente il diritto di difesa nel corso dell'istruttoria fallimentare; 2) la mancanza dello stato di insolvenza; 3) la responsabilità dell'I.C.C.R.I. per avere per colpa chiesto e determinato il fallimento della società. Nella resistenza dei convenuti, il Tribunale di Roma, con sentenza del 20 maggio 1982, respingeva l'opposizione e analoga pronunzia era resa dalla Corte d'appello adita dalla A. I s.r.l.. Per la cassazione di tale sentenza ricorre la A. I s.r.l. in base ad un unico motivo; resistono con controricorso il fallimento della s.r.l. A. I nonché l'I.C.C.R.I. - Istituto di Credito delle Casse di Risparmio Italiane.

Tutte le parti hanno presentato memoria.

 

Motivi della decisione

Con unico motivo, denunziando violazione dell'art. 5 della legge fallimentare nonché difetto di motivazione (art. 360 n. 3 e 5 c.p.c.), la ricorrente si duole che la Corte di appello abbia

affermato lo stato di insolvenza di essa società disconoscente che il relativo accertamento potesse essere proiettato nell'ambito del gruppo di cui la società medesima fa parte e non considerando che trattavasi di una crisi soltanto temporanea superata con la conclusione del pactum de non petendo, del quale erroneamente si è esclusa la prova orale.

Il ricorso non e fondato.

Questa Corte ha già avuto occasione di precisare che, al fine della dichiarazione di fallimento di una società, l'accertamento dello stato di insolvenza deve essere effettuato con esclusivo riferimento alla situazione economica della società medesima, anche quando essa sia inserita in un gruppo, cioè in una pluralità di società collegate o controllate da un'unica società - madre (holding), atteso che , nonostante tale collegamento o controllo, ciascuna di dette società conserva distinta la propria personalità giuridica ed autonoma qualità di imprenditore rispondendo con il proprio patrimonio soltanto dei propri debiti e che, inoltre, le speciali disposizioni dettate per l'amministrazione delle grandi imprese in crisi esprimono norme eccezionali che non autorizzano una diversa configurazione del gruppo e comunque non sono estensibili al di fuori delle peculiari ipotesi considerate (sentenze nn. 1320 e 795 del 1989).. Al riguardo la Corte d'appello non solo ha correttamente applicato il principio di cui sopra, ma ha tenuto presente che lo stato di insolvenza, al fine della dichiarazione di fallimento, consiste in una situazione di impotenza economica (della società) che si realizza quando l'imprenditore non è più in grado di adempiere regolarmente e con mezzi normali le proprie obbligazioni, essendo venute meno le condizioni di liquidità e di credito necessarie alla relativa attività commerciale, rimanendo irrilevante che l'attivo sia superiore al passivo (sentenze nn. 1980-85; 2055-83; 3095-81;

1067-80; 3198-79).

E con specifico riferimento al caso di specie la Corte del merito ha accertato l'assoluta mancanza di liquidità della società ricorrente che non consentiva alla medesima di far fronte ai propri impegni in seguito alla generale chiusura creditizia operata da tutte le banche.

Nè la dedotta contingente situazione economica di altre società del gruppo può essere considerata rilevante neanche sotto questo profilo per disconoscere i presupposti (oggettivi) della dichiarazione di fallimento della ricorrente società. Dalla disciplina risultante dagli artt. 6, 7 e 8 della legge fall. risulta, infatti, che, una volta accertato lo stato di insolvenza dell'imprenditore, il Tribunale è tenuto a dichiarare il fallimento qualunque sia la ragione che in concreto l'abbia determinata, non sussistono in proposito valutazioni di opportunità che la legge non prevede (sent. n. 1980-85 cit.).

Non merita quindi alcuna censura la mancata riunione della causa con altri riflettenti analoghe opposizioni a sentenze dichiarative di fallimento proposte da altre società del gruppo.

Quanto all'efficacia del pactum de non potendo, pur ribadendosi quanto precisato nelle sentenze nn. 1320 e 725-89 - che cioè esso ove risulti accertato fra l'imprenditore ed i suoi creditori, per la proroga delle originarie scadenze dei debiti, osta alla configurabilità di una situazione di insolvenza al sopraggiungere di dette originarie scadenze anche al fine della dichiarazione di fallimento - non merita alcuna censura il decisum con cui la Corte d'appello ha ritenuto inammissibile (rectius: irrilevante) la prova orale del patto.

La Corte del merito - nel prendere in esame il motivo di appello riflettente il pactum de non petendo, che la società ricorrente aveva dedotto essere intervenuto con l'I.C.C.R.I. e le altre banche creditrici, per escludere il presupposto dello stato di insolvenza - ha rilevato come, in base a quanto risultante dalla stessa articolazione della prova orale (per testi ed interrogatorio formale) ad opera dell'appellante, il pactum de non petendo era riferibile soltanto al ceto creditorio bancario, non essendosi gli altri creditori, pur prestando adesione all'accordo solutorio tra società debitrice e banche, specificamente impegnati alla moratoria dei loro crediti.

Tale motivazione dell'impugnata sentenza ( cfr. in particolare a p. 11 della stessa) non è stata censurata in questa sede dalla ricorrente società.

Questa, invero, si è limitata a dedurre che in realtà al patto aderiscono anche i creditori non bancari, senza tener presente che la Corte del merito quella adesione non ha escluso, ma l'ha interpretata nel senso che essa non implicava altresì la diretta partecipazione all'accordo solutorio da parte loro in quanto non si erano impegnati nei confronti della società debitrice alla moratoria dei loro crediti. Ne consegue che, per questa ragione assorbente di ogni altro rilievo, non merita alcuna censura la conclusione cui la Corte di appello è pervenuta allorché ha negato la ammissione della prova orale volta a dimostrare l'assenso al patto di tutti i creditori compresi quelli non facenti parte del ceto creditorio bancario. Infatti, il semplice impegno delle banche di anticipare le somme necessarie a soddisfare i crediti del ceto creditorio non bancario (non partecipante al patto), non escludeva, ma anzi presupponeva la persistente insolvenza della società nei confronti dei creditori non bancari.

Nè comunque la ricorrente ha addotto in giudizio che la sua esposizione verso il ceto creditorio non bancario estraneo al patto rientrava nella sua capacità finanziaria.

Rimane in tal modo assorbita ogni ulteriore questione attinente alla dedotta rilevanza ed ammissibilità della prova orale all'uopo articolata dalla società ricorrente per dimostrare l'esistenza di un pactum de non petendo che, in base al suo contenuto (che si è chiesto di provare), non avrebbe potuto incidere sulla ritenuta insolvenza della società, escludendola.

In conclusione, sottraendosi la sentenza impugnata alla proposte censure, il ricorso deve essere respinto.

Le spese del giudizio seguono, come per legge, il criterio della soccombenza (art. 385 c.p.c.).

 

P.Q.M.

La Corte, rigetta il ricorso.

Condanna la ricorrente a rimborsare le spese del giudizio di cassazione che liquida in lire 41.000 - in favore del fallimento della società A. I ed in lire 44.000 - in favore dell'I.C.C.R.I.; oltre all'onorario in lire tre milioni per ciascuno dei resistenti.

Così deciso in Roma il 23 ottobre 1989.