Crisi d'Impresa e Insolvenza


Il Caso.it, Sez. Giurisprudenza, 24073 - pubb. 11/01/2020

Stato d'insolvenza di società inserita in un gruppo di società collegate o controllate

Cassazione civile, sez. I, 02 Luglio 1990, n. 6769. Pres. Granata. Est. Caturani.


 



L'accertamento dello stato d'insolvenza di una società, al fine della dichiarazione del fallimento, va effettuato con esclusivo riferimento alla sua situazione economica, anche quando sia inserita in un gruppo di società collegate o controllate, considerato che ciascun ente conserva distinta personalità ed autonoma qualità d'imprenditore, rispondendo con il proprio patrimonio soltanto dei propri debiti, e che, inoltre, le speciali regole dettate per l'amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi non sono estensibili al di fuori delle peculiari ipotesi contemplate. (massima ufficiale)


Massimario Ragionato



 


SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con atto del 6 agosto 1980, la s.r.l. Estense propose opposizione avverso la sentenza del 21 luglio 1980 con la quale il Tribunale di Roma aveva dichiarato il suo fallimento, eccependo che non si era provveduto alla audizione del debitore nel corso dell'istruttoria prefallimentare e che non sussisteva il proprio stato di insolvenza. In contumacia delle parti convenute, il Tribunale adito respinse l'opposizione ad analogo giudizio venne espresso dalla Corte d'appello di Roma nel contraddittorio anche dell'ICCRI - Istituto di Credito della Cassa di Risparmio Italiana, intervenuto in sede di gravame.

Contro la sentenza d'appello ha proposto ricorso principale la s.r.l. Estense in base a quattro motivi; hanno resistito con controricorso il fallimento della s.r.l. Estense nonché l'ICCRI - Istituto di Credito della Casa di Risparmio Italiana che a sua volta ha proposto ricorso incidentale.

La Soc. Estense e l'ICCRI hanno presentato memoria.

 

Motivi della decisione

Il ricorso principale ed il ricorso incidentale vanno riuniti (art. 335 c.p.c.). Con l'unico motivo del ricorso incidentale l'ICCRI sostiene che erroneamente la Corte d'appello ha ritenuto inammissibile il suo intervento in sede id gravame, essendo sufficiente a tal fine un interesse di mero fatto ed anche solo il timore di un pregiudizio eventuale che possa derivare dalla futura sentenza del giudice di secondo grado.

Il ricorso incidentale è infondato.

È vero quanto deduce la difesa dell'ICCRI -, che cioè per la legittimità dell'intervento in appello, ai sensi degli artt. 344 e 404 comma 1 c.p.c., non occorre l'esistenza di un pregiudizio

effettivo derivante dalla sentenza impugnata, ma è sufficiente la esistenza di un pregiudizio eventuale che possa derivare dalla futura sentenza del giudice di appello, ma è anche vero che - come questa Corte ha già precisato (cfr. le sentenze nn. 403-85; 3902-81) - ai fini della legittimazione del terzo interventore è sempre essenziale che questi sia titolare di un diritto autonomo la cui tutela non sia compatibile con la situazione giuridica accertata o costituita dalla sentenza di primo grado.

Come la Corte del merito ha giustamente sottolineato, l'ICCRI ha ricevuto anziché un pregiudizio un vantaggio dalla sentenza di primo grado che ha dichiarato il fallimento della società, tanto che ha concluso per il rigetto della impugnazione avversaria. Nè, d'altro conto della sentenza d'appello, qualunque fosse il suo contenuto, sarebbe potuto derivare alcun timore di pregiudizio per il ricorrente incidentale ad un diritto autonomo di cui non ha dimostrato di essere titolare.

Con il primo motivo del ricorso principale, denunziando anche difetto di motivazione, si deduce che la Corte d'appello ha erroneamente ravvisato lo stato di insolvenza della società ricorrente, quale presupposto oggettivo della sua dichiarazione di fallimento ex art. 5 della legge fallimentare senza dare il necessario risalto ad eventi nell'inadempimento dell'ICCRI all'accordo del 9 luglio 1979, concluso con tutte le società del gruppo, i quali anziché implicare una irrilevanza giuridica del gruppo, come ritenuto dall'impugnata sentenza, dimostravano che lo stato di insolvenza della società era strettamente dipeso da interventi perturbatori che avevano inciso sul gruppo nella sua unità funzionale.

Inoltre, l'accordo spiegando direttamente effetti verso ciascuna società del gruppo escludeva per esse lo stato di insolvenza. Con il secondo motivo del ricorso principale si deduce che erroneamente la Corte d'appello, incorrendo anche in difetto di motivazione, ha affermato che per la esclusione dello stato di insolvenza era necessaria l'adesione all'accordo (pactum de non petendo) di tutti i creditori ( e quindi anche del ceto creditorio non bancario), senza tener presente che l'insolvenza era stata della specie determinata dal comportamento del solo ceto creditorio bancario che aveva chiesto il rientro prima dell'epoca prevista nell'accordo e che gli altri creditori dovevano essere soddisfatti dalle banche e quindi non avevano ragione di partecipare al pactum. Col quarto motivo si assume che erroneamente la Corte d'appello ha ritenuto inammissibile la prova orale richiesta assumendo l'incertezza circa la perdurante moratoria dei pagamenti all'atto della dichiarazione di fallimento e che, comunque si era chiesto di provare la persistenza di quella moratoria. Nè sussisteva alcuna incertezza circa i soggetti che avevano partecipato all'accordo poiché la prova per testi tendeva a dimostrare l'adesione di tutte le banche, compresa l'ICCRI.

Le riassunte censure, che per la connessione tra loro esistente vanno esaminate congiuntamente, sono infondate.

Questa Corte ha già avuto occasione di precisare che, al fine di dichiarazione di fallimento di una società, l'accertamento dello stato di insolvenza deve essere effettuato con esclusivo riferimento alla situazione economica della società medesima, anche quando essa sia inserita in un gruppo, cioè in una pluralità di società collegate e controllate da un'unica società - madre (holding), atteso che, nonostante tale collegamento o controllo, ciascuna di dette società conserva distinta la propria personalità giuridica ed autonoma qualità di imprenditore, rispondendo con il proprio patrimonio, soltanto dei propri debiti, e che, inoltre, le speciali disposizioni dettate per l'amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi esprimono norme eccezionali che non autorizzano una diversa configurazione del gruppo e comunque non sono estensibili al di fuori delle peculiari ipotesi considerate (sentenze nn. 1320 e 795 del 1989). Al riguardo la Corte del merito non solo ha correttamente esplicato il principio di cui sopra, ma ha tenuto presente che lo stato di insolvenza, al fine della dichiarazione di fallimento, consiste in una situazione economica (della società) che si realizza quando l'imprenditore non è più in grado di adempiere regolarmente e con mezzi normali le proprie obbligazioni, essendo venute meno le condizioni di liquidità e di credito necessarie alla relativa attività commerciale, rimanendo irrilevante che l'attivo sia superiore al passivo (sentenze nn. 1980-85; 2055-83; 3095-81;

1067-80; 3198-79). E con specifico riferimento al caso di specie, la Corte del merito ha accertato l'assoluta mancanza di liquidità delle società ricorrente che non consentiva alla medesima di far fronte ai propri impegni in seguito alla generale chiusura creditizia operata da tutte le banche.

Nè la dedotta contingente situazione economica di altre società del gruppo può essere considerata rilevante neanche sotto questo profilo per disconoscere i presupposti (oggettivi) della dichiarazione di fallimento della ricorrente società. Dalla disciplina risultante dagli artt. 6, 7 e 8 della legge fallimentare risulta, infatti, che una volta accertato lo stato di insolvenza dell'imprenditore il Tribunale è obbligato a dichiararne il fallimento, qualunque sia la ragione che in concreto l'abbia determinata, non sussistendo al riguardo valutazioni di opportunità che la legge non prevede (sent. n. 1980-85 cit.).

Quanto poi alla doglianza riflettente l'affermazione dell'impugnata sentenza secondo cui, per la esclusione dello stato di insolvenza era necessaria l'adesione al pactum de non petendo (che la ricorrente principale si era offerta di provare in giudizio) di tutti i creditori (e quindi anche del ceto creditorio non bancario), non ha pregio l'assunto sostenuto in questa sede dalla ricorrente società. La tesi difensiva secondo la quale nell'accordo solutorio era previsto che gli altri creditori (non partecipanti al patto) dovevano essere soddisfatti dalle banche contraenti e quindi non avevano ragione di partecipare al pactum, non considera che il semplice impegno delle banche non escludeva, ma anzi presupponeva la persistente insolvenza della società nei confronti dei creditori non partecipanti al pactum de non petendo. Nè, comunque, la ricorrente società ha addotto in giudizio che la sua esposizione verso il ceto creditorio non bancario, estraneo al patto, rientrava nella sua capacità finanziaria.

Trattasi quindi di una affermazione la quale non è sorretta da argomentazioni di carattere giuridico che valgono comunque ad escludere l'insolvenza, accertata rettamente dalla Corte d'appello. Rimane in tal modo assorbita ogni ulteriore questione attinente alla dedotta rilevanza ed ammissibilità della prova orale all'uopo articolata dalla società ricorrente per dimostrare la esistenza di un pactum de non petendo che, in base al suo contenuto (che si è chiesto di provare) non avrebbe potuto incidere sulla ritenuta insolvenza della società, escludendola.

Col terzo motivo la ricorrente principale sostiene che la Corte d'appello ha dichiarato d'ufficio il fallimento nonostante che nessun creditore avesse presentato istanza di fallimento per la fiducia riposta nella esecuzione del programma costruttivo da parte di tutte le società del gruppo.

La censura non è fondata.

La circostanza che nessun creditore abbia presentato istanza di fallimento non esplica alcun rilievo ai fini della dichiarazione di fallimento che (ex art. 6 L.F. può avvenire anche d'ufficio a seguito della legale conoscenza da parte del Tribunale della situazione di dissesto, indipendentemente dalla iniziativa di parte. In definitiva, sottraendosi la sentenza impugnata alle proposte censure sia il ricorso principale che il ricorso incidentale devono essere respinti.

Le spese del giudizio seguono, come per legge, la soccombenza tra la società Estense ed il fallimento mentre sussistono giusti motivi per compensarle tra la società Estense e l'I.C.C.R.I..

 

P.Q.M.

La Corte, riuniti i ricorsi, li rigetta entrambi.

Condanna la società Estense a rimborsare al fallimento della società Estense le spese del giudizio di cassazione che liquida in lire 49.000 oltre a lire quattro milioni per onorario e compensa le spese tra la società Estense e l'I.C.C.R.I..

Così deciso in Roma il 23 ottobre 1989.