Crisi d'Impresa e Insolvenza


Il Caso.it, Sez. Giurisprudenza, 24071 - pubb. 11/01/2020

Stato d'insolvenza e pactum de non petendo

Cassazione civile, sez. I, 11 Aprile 1992, n. 4463. Pres. Scanzano. Est. Sgroi.


Stato d'insolvenza - In genere - Società in situazione di crisi economica - "Pactum de non petendo" con i creditori - Stipulazione con l'impegno delle banche di finanziare il pagamento degli altri creditori - Inosservanza di tale impegno - Conseguente dichiarazione di fallimento della società - Ammissibilità



Con riguardo al "pactum de non petendo", che sia intervenuto fra una società in situazione di crisi economica ed i suoi creditori, con l'impegno delle banche a differire l'esazione dei propri crediti ed a concedere ulteriori finanziamenti al fine di consentire il soddisfacimento degli altri creditori, nonché con l'adesione di questi altri crediti in previsione di detto soddisfacimento (non quindi in termini di mera dilazione), il sopravvenuto verificarsi dell'inosservanza delle banche ai suddetti impegni, in quanto si traduca nell'impossibilità della società di fronteggiare le posizioni debitorie, determina lo stato d'insolvenza, e, pertanto, legittima la dichiarazione del fallimento. (massima ufficiale)


Massimario Ragionato



 


SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con atto notificato il 10.7.1980 la società E. Costruzioni a r.l. in persona dell'amministratore pro tempore, propose opposizione avverso la sentenza emessa in data 13.6.1980 con la quale il Tribunale di Roma aveva dichiarato il suo fallimento. L'opponente contestò la sussistenza dello stato di insolvenza assumendo che la propria situazione patrimoniale era caratterizzata da un attivo notevole superiore all'importo dei crediti fatti valere con le istanze di fallimento, che la crisi di liquidità in cui versava era soltanto temporanea e transeunte, che le difficoltà economiche in cui essa si dibatteva erano derivate dalle note vicende del "gruppo Caltagirone" di cui la società E. faceva parte e sarebbero state superate se l'I.C.C.R.I. non avesse provocato il fallimento di tutte le società appartenenti a Gaetano Caltagirone nonché di questi in proprio.

Si costituirono il Fallimento della società E. e il creditore (Comune di Roma) i quali contestarono le ragioni poste a sostegno della domanda.

Con sentenza del 14.4.1982 il tribunale respingeva l'opposizione. La società E. impugnava la decisione chiedendo che fosse dichiarata la nullità della sentenza dichiarativa del fallimento o comunque che il fallimento fosse revocato.

Il Comune di Roma chiedeva il rigetto dell'appello.

Il Fallimento della società E. rimaneva contumace. Interveniva volontariamente l'Istituto di Credito delle Casse di Risparmio Italiane - I.C.C.R.I. - il quale contestava la fondatezza dell'impugnazione.

Con sentenza del 7 marzo 1989, l'adita Corte d'appello di Roma dichiarava inammissibile l'intervento dello I.C.C.R.I.; rigettava l'impugnazione; pronunciava in ordine le spese.

Osservava, in particolare, la Corte, per quanto interessa in questa sede, che:

a) l'interesse del terzo a spiegare intervento nasce dalla esigenza di rimuovere il pregiudizio eventuale che possa derivargli dalla sentenza del giudizio di appello sia essa di conferma o di riforma, mentre l'I.C.C.R.I. non ha dedotto il diritto sostanziale pregiudicato e, comunque l'emananda sentenza non poteva incidere sulla posizione creditoria dell'I.C.C.R.I. fatta valere nei confronti di altre società del gruppo;

b) la formazione di gruppi di società collegate da rapporti di coordinazione o di subordinazione economico-amministrativa è preso in considerazione dall'ordinamento non già come fenomeno capace di dare vita ad enti dotati di personalità giuridica e di autonomia patrimoniale proprie, nei quali confluiscono e sono assorbite le personalità delle singole società di ciascun gruppo, ma soltanto a fini particolari (art. 2359 e n.c.c.; l. 12.8.1977 n. 675; l. 3 aprile 1979 n. 95; l. 28 novembre 1980 n. 784).

c) l'insolvenza ha un rilievo oggettivo, che prescinde dalle cause che l'hanno determinata, e nella specie la società E. si trovava in una situazione di impotenza economica non transitoria che le impediva di adempiere le obbligazioni assunte, perché versava in crisi d'illiquidità che non le consentiva di pagare nemmeno debiti di importo assai esiguo; era poi incontestato che a fronte di crediti ammessi al passivo del fallimento per circa lire 3 miliardi e, in via tardiva, per circa lire 250 milioni, aveva fatto riscontro un attivo inesistente, tanto che la procedura fallimentare era stata chiusa per mancanza di attivo il 24 giugno 1982;

d) che il pactum de non petendo, di cui si assumeva la stipulazione, non obbligando tutti i creditori, non avrebbe spiegato alcuna influenza;

e) che, inoltre, non era ammissibile un simile patto, che consentirebbe un inammissibile concordato privatistico, contrastante con i fini pubblicistici alla base dell'istituto fallimentare;

e) che, comunque, il patto in questione, non sarebbe rilevante in concreto, per l'estrema genericità del suo contenuto e per l'assoluta indeterminatezza del tempo assegnato dalle banche per estinguere i debiti, con la conseguente impossibilità di stabilire se alla data di apertura della procedura fallimentare la concessa moratoria fosse o meno scaduta;

f) che di nessun rilievo erano le vicende relative al fallimento personale dei fratelli Caltagirone e quelle relative al proscioglimento in istruttoria dei suddetti, per i reati di bancarotta ed altro, non incidendo sullo stato di insolvenza della società, anche perché si trattava di decisione istruttoria, non facente stato in ordine ai fatti accertati (art. 402 c.p.p.). Avverso la suddetta sentenza la soc. E. ha proposto ricorso per cassazione. Il Comune di Roma e l'ICCRI hanno resistito con controricorso e l'ICCRI ha anche proposto ricorso incidentale, illustrato con memoria.

 

Motivi della decisione

I due ricorsi vanno riuniti (art. 335 c.p.c.). Con l'unico motivo di ricorso incidentale - che va esaminato preliminarmente - l'ICCRI sostiene che erroneamente la Corte d'appello ha ritenuto inammissibile il suo intervento in appello, essendo sufficiente un interesse di fatto ed il timore di un pregiudizio eventuale nei suoi confronti, che possa derivare dalla futura sentenza del giudice di secondo grado.

Il ricorso è infondato.

Se è vero quanto deduce la difesa dell'I.C.C.R.I., che cioè per la legittimità dell'intervento in appello, ai sensi degli artt. 344 e 405, comma I c.p.c., non occorre l'esistenza di un pregiudizio effettivo derivante dalla sentenza impugnata, ma è sufficiente l'esistenza di un pregiudizio eventuale che possa derivare dalla futura sentenza del giudice di appello; è vero, peraltro, che nei fini della legittimazione del terzo interventore, è sempre essenziale che questi sia titolare di un diritto autonomo la cui tutela non sia compatibile con la situazione giuridica accertata o costituita dalla sentenza di primo grado (Cass. n. 403-85; 3902-81). L'I.C.C.R.I. ha ricevuto, anziché un pregiudizio, un vantaggio della sentenza di primo grado che ha dichiarato il fallimento della società, tanto che ha concluso per il rigetto della impugnazione avversaria. Nè, d'altro canto, dalla sentenza d'appello, qualunque fosse il suo contenuto, sarebbe potuto derivare alcun timore di pregiudizio per il ricorrente incidentale ad un diritto autonomo di cui non ha dimostrato di essere titolare (Cass. 6557-90; n. 9704-90). Con l'unico articolato motivo del ricorso principale la società ricorrente - denunciando violazione dell'art. 5 della legge fallimentare e di ogni altra norma e principio in termine di prova dello stato di insolvenza della società dichiarata fallita e comunque di un suo accertamento di efficacia vincolante di patti solutori e non; difetto di motivazione su punti decisivi della controversia - lamenta:

a) che la Corte di appello abbia affermato lo stato di insolvenza di essa società, disconoscendo che il relativo accertamento potesse essere proiettato nell'ambito del gruppo di cui la società medesima era parte, e non tenendo conto del fatto che la pretesa oggettiva impotenza patrimoniale a far fronte alle proprie obbligazioni non poteva essere apprezzata od accertata se non attraverso un'indagine (e l'acquisizione delle relative prove, anche testimoniali) relativa ai flussi finanziari interni del gruppo stesso, flussi interrotti a seguito dell'inadempienza delle banche al pactum de non petendo;

b) che la Corte del merito abbia ritenuto operante a carico di essa ricorrente una situazione di impotenza economica non transitoria trascurando che, pur nella prospettiva atomistica o, comunque, non unitaria adottata, l'attuazione del patto solutorio, intervenuto tra il ceto bancario che finanziava il gruppo e gli esponenti di quest'ultimo, avrebbe, attraverso l'utilizzazione delle anticipazioni finanziarie previste, consentito al ricorrente di tacitare fisiologicamente i propri creditori;

c) che, al riguardo, la Corte del merito abbia, in particolare, negato valore al patto solutorio a causa della mancata partecipazione allo stesso dell'intero ceto credito; nonché a causa della genericità del suo contenuto, della sua indeterminatezza temporale e dell'incertezza dei soggetti portatori del consenso del ceto bancario.

Il ricorso è infondato, nei termini delle proposizioni che seguono.

In punto di valutazione dello stato di insolvenza, questa Corte ha già avuto l'occasione di precisare che, al fine della dichiarazione di fallimento di una società, l'accertamento dello stato di insolvenza deve essere effettuato con esclusivo riferimento alla situazione economica delle società medesima, anche quando essa sia inserita in un gruppo, cioè in una pluralità di società collegate o controllate da un'unica società-madre (holding), atteso che, nonostante tale collegamento o controllo, ciascuna di dette società conserva distinta la propria personalità giuridica ed autonoma qualità di imprenditore, rispondendo con il proprio patrimonio soltanto dei propri debiti, e che, inoltre, le speciali disposizioni dettate per l'amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi esprimono norme eccezionali che non autorizzano una diversa configurazione del gruppo e comunque, non sono estensibili al di fuori delle peculiari ipotesi considerate (Cass. nn. 1320 e 795 del 1989; e nn. 4622, 6548 e 6769 del 1990). Esattamente, pertanto, la Corte di appello ha compiuto l'accertamento dello stato di insolvenza della società E. Costruzioni con riguardo esclusivo alla sua situazione economica, nel riflesso che, non comportando l'esistenza del gruppo alcuna influenza sulla personalità giuridica delle singole società che ne fanno parte, l'autonomia patrimoniale di queste ultime, che è il riflesso della loro personalità giuridica, ne determina in via esclusiva la sorte rispetto all'assoggettamento alla procedura fallimentare, differenziandola da quella del gruppo.

Ancora esattamente la Corte di appello ha ritenuto che, ai fini dell'accertamento dello stato di insolvenza, è irrilevante uno stato patrimoniale caratterizzato dalla eccedenza delle poste attive su quelle passive, quando l'incapacità di adempimento regolare e, quindi, a scadenza e con mezzi normali, delle obbligazioni assunte si esprima comunque, sul piano della carenza di liquidità; e che, agli stessi fini, il sistema concorsuale non lascia spazio all'indagine sulle cause dell'insolvenza, che va considerata nella sua esistenza oggettiva (giurisprudenza costante).

L'esame delle censure attinenti alla pronuncia con la quale la Corte d'appello ha ritenuto l'ininfluenza del negozio solutorio di cui infra sull'accertamento dello stato di insolvenza, deve essere basato sul confronto fra il contenuto del negozio stesso (che la società ricorrente intendeva provare nel giudizio di merito) e le conseguenze che ne voleva trarre, sotto il profilo indicato. La sentenza impugnata ha descritto tale contenuto nel senso che nell'anno 1979, fra gli esponenti dei gruppi societari facenti capo a Francesco, Gaetano e Camillo Caltagirone e quelli delle banche creditrici dei gruppi (tra le quali l'ICCRI) fu raggiunto un accordo il quale prevedeva che le società avrebbero completato la costruzione degli edifici e provveduto alla loro vendita sotto il controllo delle banche, in modo da consentire a queste di soddisfare i loro diritti, e che gli altri creditori sarebbero stati nel frattempo tacitati con denaro all'uopo anticipato delle stesse banche.

La sentenza stessa ha negato la rilevanza di tale convenzione sotto vari profili: a) la mancata partecipazione dell'intero ceto creditorio; b) l'estrema genericità dell'accordo e l'assoluta indeterminatezza del tempo assegnato per estinguere i debiti della società; c) l'inammissibilità del patto, contrastata con i fini pubblicistici del fallimento.

La società ricorrente espone i fatti che portarono al fallimento, affermando che all'origine di esso è da porre l'inadempienza da parte dell'ICCRI al pactum de non petendo (o ut minus solvatur), che determinò il fallimento delle prime 19 società dei tre gruppi ed il fallimento dei fratelli Caltagirone in proprio, con conseguente interruzione del sistema di finanziamento reciproco, ed impedì l'attuazione del programma stabilito che prevedeva il completamento da parte delle singole società delle costruzioni in corso e quindi il soddisfacimento dei crediti: sottolinea la società ricorrente che se l'ICCRI avesse rispettato l'impegno assunto, il fallimento delle prime società non avrebbe mai avuto ragione di essere dichiarato; di conseguenza non vi sarebbe stato luogo per la pronuncia del fallimento personale e non sarebbe venuta meno improvvisamente la centrale operativa che coordinava il sistema di flussi finanziari reciproci ed integrativi di tutte le società del gruppo e nessuna di queste, di conseguenza, si sarebbe trovata nella situazione di non poter far fronte alle pretese di un ceto creditorio di rilevanza assai modesta.

In ordine alla rilevanza del patto, per contrastare le contrarie affermazioni della Corte d'appello, la ricorrente sottolinea: che l'accordo escludeva lo stato d'insolvenza, per essere il creditore impegnato a non azionare il proprio credito; che per tale patto non è richiesta la prova scritta, sicché la prova orale dedotta avrebbe dovuto essere ammessa (stante anche il principio di prova scritta esistente); che nessuna delle ragioni esposte dalla sentenza impugnata supera le censure ampiamente esposte nel ricorso. Questa Corte osserva che l'irrilevanza della prova (e, comunque, Motivi della decisione

l'ininfluenza del patto de quo al fine di escludere l'insolvenza) deve essere riconfermata, perché risulta palese alla stregua delle stesse deduzioni della ricorrente, come questa Corte ha già rilevato in ordine alla stessa vicenda concernente un'altra società del gruppo, con sentenza 27 giugno 1990 n. 6548, alle considerazioni della quale si possono aggiungere le seguenti osservazioni. Partendo dalla premessa esposta, in linea di fatto, dalla ricorrente si osserva che il patto si articolava, sotto il profilo obiettivo e soggettivo, distintamente a seconda che venissero in considerazione le banche e gli altri creditori. Le prime, infatti, secondo l'assunto, non solo si erano impegnate a non chiedere la restituzione dei finanziamenti per i quali era già scaduto il relativo termine, ma si erano altresì impegnate ad apprestare i mezzi finanziari necessari per il completamento delle costruzioni in corso e quindi per il pagamento dei fornitori.

I secondi avevano aderito al patto, nel senso che, attendevano di essere soddisfatti con i mezzi liquidi acquisiti mediante tale aspetto collaterale, ma essenziale, del pactum, che li coinvolgeva, appunto per una loro adesione non alla mera dilazione, ma all'attesa della soddisfazione con quei mezzi liquidi.

In altro punto del ricorso la ricorrente osserva che, anche supponendo che alcuni creditori non avessero aderito espressamente, ciò non sarebbe stato rilevante, atteso che il pactum era idoneo ad eliminare l'insolvenza, in quanto ripristinava le condizioni di liquidità dell'intero gruppo.

Il Collegio rileva che il giudizio sulla idoneità del pactum (come supra descritto) ad escludere l'insolvenza non può essere assolutamente disgiunto da quella premessa in punto di fatto che - secondo la stessa ricorrente - era pacifica, e cioè che al momento della dichiarazione di fallimento (naturalmente secondo il suo assunto, posto che la tesi dei resistenti è del tutto diversa, negando essi che si fosse andato oltre le mere trattative, senza conclusione di un negozio definitivo) vi era stato inadempimento del pactum, sotto entrambi i profili oggettivi già indicati, e cioè perché le banche avevano richiesto la restituzione dei debiti già scaduti e non avevano erogato i finanziamenti necessari per eseguire il complessivo programma.

Posto che, per giurisprudenza pacifica (fra le tante, V. Cass. n. 1980 del 1985 e n. 1321 del 1989) le cause che hanno determinato l'insolvenza, anche se consistono in inadempimenti di altri soggetti, non rilevano, essendo rilevante soltanto l'oggettiva sussistenza dell'insolvenza, tralasciando di considerare la situazione debitoria nei confronti delle banche (e segnatamente dell'ICCRI, a cui veniva addebitata detta inadempienza), perché si tratta di questioni non esaminate dal giudice del merito, la conclusione alla quale la sentenza impugnata è pervenuta, con riguardo all'insolvenza nei confronti degli altri creditori non bancari deve essere confermata. Invero, o i suddetti creditori non avevano aderito al patto, secondo l'assunto esposto nella sentenza impugnata, ed allora la ricorrente avrebbe dovuto dimostrare l'esistenza del punto decisivo (ai sensi dell'art. 360 n. 5 c.p.c.) trascurato dal giudice del merito, della esistenza di mezzi propri (ovviamente non consistenti soltanto in immobili ancora da ultimare od altri beni, non immediatamente trasformabili in denaro) sufficienti a soddisfarli con regolarità solo tale dimostrazione non è stata mai data, ma anzi dal ricorso risulta un assunto contrastante con essa: l'interruzione dei flussi finanziari, e cioè del credito occorrente per far fronte anche a pagamenti (scaduti) di modesta entità, che da sola è sufficiente a concretare l'insolvenza, perché la mancanza della possibilità di far ricorso al credito, per qualsiasi ragione, determina l'insolvenza (cfr., ampiamente, Cass. n. 1321 del 1989). È evidente - poi - che la Corte del merito non ha confuso l'insolvenza con la temporanea difficoltà di adempiere, dal momento che neppure dalle esposizioni della ricorrente risulta in che modo quella (pretesa) temporaneità avrebbe potuto risolversi in senso positivo, mediante il sopravvenire di una liquidità che al momento della dichiarazione del fallimento non sussisteva. La seconda alternativa è che gli altri creditori pur non partecipando direttamente a tutte le trattative con il ceto creditorio bancario, avevano aderito al patto che consentiva il superamento di una crisi.

È evidente che tale superamento non poteva realizzarsi, con conseguente irreversibilità della crisi di liquidità, che non consentiva di pagare debiti di modesta entità (se rapportati agli affari complessivi del gruppo) se la stessa ricorrente ammette che non è stato eseguito quell'aspetto del patto che consisteva nell'erogazione dei flussi finanziari necessari per i suddetti pagamenti e per il completamento dei programmi costruttivi, che restavano quindi irrimediabilmente bloccati.

Invero, come ha già osservato questa Corte con la cit. sentenza n. 6548 del 27 giugno 1990, dal tenore delle deduzioni non risulta affatto che gli altri creditori si fossero specificamente impegnati alla moratoria dei loro crediti, la cui insoddisfazione (per la incapacità della società ricorrente di soddisfarli regolarmente, con mezzi normali) era da sola sufficiente a determinare l'insolvenza.

Per le considerazioni esposte, la sentenza impugnata deve essere confermata, anche sotto il profilo dell'irrilevanza nel caso concreto, del patto come sopra strutturato.

Rigettati i ricorsi, si reputa l'esistenza di giusti motivi per compensare le spese fra la ricorrente principale e l'ICCRI, mentre la prima deve essere condannata alle spese nei confronti del Comune di Roma.

 

P.Q.M.

La Corte di Cassazione riunisce i ricorsi e li rigetta entrambi;

compensa le spese del giudizio di cassazione fra la ricorrente principale e l'ICCRI; condanna la società E. alle spese a favore del Comune di Roma, liquidate in lire 6.096.600, di cui lire 6.000.000 (seimilioni) di onorari di avvocato.

Così deciso a Roma, il 10 aprile 1991.