ilcaso.it
Il Caso.it, Sez. Giurisprudenza, 24070 - pubb. 11/01/2020.

Stato d'insolvenza di società inserita in un gruppo di società collegate o controllate


Cassazione civile, sez. I, 14 Aprile 1992, n. 4550. Pres. Scanzano. Est. Senofonte.

Stato d'insolvenza - In genere - Società inserita in un gruppo di società collegate da un 'unica societa'madre (Holding) - Accertamento dell'insolvenza - Criteri


Al fine della dichiarazione di una società, l'accertamento dello stato di insolvenza deve essere effettuato con esclusivo riferimento alla situazione economica della società medesima, anche quando essa sia inserita in un gruppo, cioè in una pluralità di società collegate da un'unica società-madre (holding), atteso che, nonostante tale collegamento o controllo, ciascuna di dette società conserva propria personalità giuridica ed autonoma qualità di imprenditore, rispondendo con il proprio patrimonio soltanto dei propri debiti e considerato che le speciali disposizioni dettate per l'amministrazione straordinarie delle grandi imprese in crisi esprimono norme eccezionali che non autorizzano una diversa configurazione del gruppo e che, comunque, non sono estensibili al di fuori delle peculiari ipotesi considerate. Peraltro lo stato di insolvenza consiste in una situazione di impotenza economica della società che si realizza quando l'imprenditore non è più in grado di adempiere regolarmente e con mezzi normali le proprie obbligazioni, essendo venute meno le condizioni di liquidità e di credito necessarie alla relativa attività commerciale, rimanendo irrilevante che l'attivo patrimoniale sia superiore al passivo. (massima ufficiale)

 

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con sentenza del 10 novembre 1979, il Tribunale di Roma, su istanza dell'I.C.C.R.I. - Istituto di Credito delle Casse di Risparmio Italiane, dichiarava il fallimento della s.p.a. City Residence.

Avverso tale sentenza, con citazione del 3 dicembre 1979 proponeva opposizione la società fallita, assumendo; 1) di non essere stata posta in condizione di esercitare completamente il diritto di difesa nel corso dell'istruttoria fallimentare; 2) la mancanza dello stato di insolvenza; 3) la responsabilità dell'I.C.C.R.I. per avere per colpa chiesto e determinato il fallimento della società. Nella resistenza dei convenuti, il Tribunale di Roma, con sentenza del 5 giugno 1982, respingeva l'opposizione e analoga pronunzia era resa dalla Corte d'appello adita dalla opponente, la quale ricorre per la cassazione di tale sentenza in base ad unico motivo; resistono con controricorso il fallimento e l'I.C.C.R.I., i quali hanno presentato memoria.

 

Motivi della decisione

Con unico motivo, denunziando violazione dell'art. 5 della legge fallimentare nonché difetto di motivazione (art. 360 n. 3 c.p.c.), la ricorrente si duole che la Corte di appello abbia affermato lo stato di insolvenza di essa società disconoscendo che il relativo accertamento potesse essere proiettato nell'ambito del gruppo di cui la società medesima fa parte e non considerando che trattavasi di una crisi soltanto temporanea superata con la conclusione del pactum de non petendo, del quale erroneamente si è esclusa la prova orale. Il ricorso non è fondato.

Questa Corte ha già avuto l'occasione di precisare che, al fine della dichiarazione di fallimento di una società, l'accertamento dello stato di insolvenza deve essere effettuato con esclusivo riferimento alla situazione economica della società medesima, anche quando essa sia inserita in un gruppo, cioè in una pluralità di società collegate o controllate da un'unica società-madre (holding), atteso che, nonostante tale collegamento o controllo, ciascuna di dette società conserva distinta la propria personalità giuridica ed autonoma qualità di imprenditore, rispondendo con il proprio patrimonio soltanto dei propri debiti e che, inoltre, le speciali disposizioni dettate per l'amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi esprimono norme eccezionali che non autorizzano una diversa configurazione del gruppo e, comunque, non sono estensibili al di fuori delle peculiari ipotesi considerate (sent. nn. 1320 e 795 del 1989; nn. 4622, 6548 e 6769 del 1990). Al riguardo la Corte d'appello non solo ha correttamente applicato il principio di cui sopra, ma ha tenuto presente che lo stato di insolvenza, la fine della dichiarazione di fallimento, consiste in una situazione di impotenza economica (della società) che si realizza quando l'imprenditore non è più in grado di adempiere regolarmente e con mezzi normali le proprie obbligazioni, essendo venute meno le condizioni di liquidità e di credito necessarie alla relativa attività commerciale, rimanendo irrilevante che l'attivo sia superiore al passivo (sentenze nn. 1980-85; 2055-83; 3095-80;

3198-79).

E con specifico riferimento al caso di specie la Corte del merito ha accertato l'assoluta mancanza di liquidità della società ricorrente che non consentiva alla medesima di far fronte ai propri impegni in seguito alla generale chiusura creditizia operata da tutte le banche.

Nè la dedotta contingente situazione economica di altre società del gruppo può essere considerata rilevante, neanche sotto questo profilo, per disconoscere i presupposti (oggettivi) della dichiarazione di fallimento della ricorrente società. Dalla disciplina risultante degli artt. 6, 7 e 8 della legge fall. risulta, infatti, che, una volta accertato lo stato di insolvenza dell'imprenditore, il Tribunale è tenuto a dichiarare il fallimento qualunque sia la ragione che in concreto l'abbia determinata, non sussistendo in proposito valutazioni di opportunità che la legge non prevede (sent. n. 1980-85 cit.).

Non merita quindi alcuna censura la mancata riunione della causa con altre riflettenti analoghe opposizioni a sentenze dichiarative di fallimento proposte da altre società del gruppo.

Quanto all'efficacia del pactum de non petendo, pur ribadendosi quanto già precisato nelle sentenze nn. 1320 e 795-89 - che cioè esso, ove risulti accettato fra l'imprenditore ed i suoi creditori, per la proroga delle originarie scadenza dei debiti, osta alla configurabilità di una situazione di insolvenza al sopraggiungere di detto originarie scadenze anche al fine della dichiarazione di fallimento - non merita alcuna censura il decisum con cui la Corte d'appello ha ritenuto inammissibile (rectius: irrilevante) la prova orale del patto.

La Corte del merito - nel prendere in esame il motivo di appello riflettente il pactum de non petendo, che la società ricorrente aveva dedotto essere intervenuto con l'I.C.C.R.I. e le altre banche creditrici, per escludere il presupposto dello stato di insolvenza - ha rilevato come, in base a quanto risultante dalla stessa articolazione della prova orale (per testi ed interrogatorio formale) ad opera dell'appellante, il pactum de non petendo era riferibile soltanto al ceto creditorio bancario, non essendosi gli altri creditori, pur prestando adesione all'accordo solutorio tra società debitrice e banche, specificamente impegnati alla moratoria dei loro crediti.

Tale motivazione dell'impugnata sentenza non è stata censurata in questa sede dalla ricorrente società.

Questa, invero, si è limitata a dedurre che in realtà al patto aderiscano anche i creditori non bancari, senza tener presente che la Corte del merito quella adesione non ha escluso, ma l'ha interpretata nel senso che essa non implicava altresì la diretta partecipazione all'accordo solutorio da parte loro in quanto non si erano impegnati nei confronti della società debitrice alla moratoria dei loro crediti. Ne consegue che, per questa ragione assorbente di ogni altro rilievo, non merita alcuna censura la conclusione cui la Corte di appello è pervenuta allorché ha negato la ammissione della prova orale volta a dimostrare l'assenso al patto di tutti i creditori compresi quelli non facenti parte del ceto creditorio bancario. Infatti, il semplice impegno delle banche di anticipare le somme necessarie a soddisfare i crediti del ceto creditorio non bancario (non partecipante al patto) non escludeva, ma anzi presupponeva, la persistente insolvenza della società nei confronti dei creditori non bancari (conf. Cass. 6548-1990).

Nè comunque la ricorrente ha addotto in giudizio che la sua esposizione verso il ceto creditorio non bancario estraneo al patto rientrava nella sua capacità finanziaria.

Rimane in tal modo assorbita ogni ulteriore questione attinente alla dedotta rilevanza ed ammissibilità della prova orale all'uopo articolata dalla società ricorrente per dimostrare l'esistenza di un pactum de non petendo che, in base al suo contenuto (che si è chiesto di provare), non avrebbe potuto incidere sulla ritenuta insolvenza della società, escludendola.

In conclusione, sottraendosi la sentenza impugnata alle proposte censure, il ricorso deve essere respinto.

Le spese del giudizio seguono, come per legge, il criterio della soccombenza (art. 385 c.p.c.).

 

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso.

Condanna la ricorrente a rimborsare le spese del giudizio di cassazione che liquida in lire 78.700, - in favore del fallimento della società City Residence ed in lire 162.800 - in favore dell'I.C.C.R.I.; oltre all'onorario in lire sette milioni per ciascuno dei resistenti.

Così deciso in Roma il 10 aprile 1991