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Il Caso.it, Sez. Giurisprudenza, 24061 - pubb. 11/01/2020.

Esclude l'insolvenza l'accordo tra alcuni creditori e la società


Cassazione civile, sez. I, 28 Ottobre 1992, n. 11722. Pres. Bologna. Est. De Musis.

Stato d'insolvenza - In genere - "Pactum de non petendo" fra tutti i creditori ed un imprenditore societario - Insolvenza della società - Esclusione - Dilazione dei propri crediti e pagamenti dei debiti della società verso altri creditori - Accordo stipulato fra alcuni creditori e la società - Stato d'insolvenza della società - Permanenza - Condizioni


Al fine della dichiarazione di fallimento, mentre il "pactum de non petendo" tra tutti i creditori ed un imprenditore societario, con cui i primi consentano una dilazione del pagamento dei loro crediti, incide "direttamente" sull'inadempimento, escludendo l'insolvenza della società, l'accordo tra alcuni creditori e la società, nel senso che tali creditori, oltre a consentire una dilazione dei propri crediti, provvedano a pagare i debiti della società verso altri creditori, incide solo "indirettamente" sull'inadempimento, e non esclude l'insolvenza della società, nel caso in cui i creditori violino il patto nella parte relativa al pagamento dei debiti degli altri creditori, atteso che lo stato di insolvenza deve essere valutato nella sua obiettività e che, pertanto, va ritenuto sussistente anche se le cause che l'hanno determinato non siano imputabili all'imprenditore. (massima ufficiale)

 

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con sentenza del 21.3.1988, resa nei confronti della s.r.l. "Sardegna immobiliare", del fallimento della stessa, dell'Istituto di credito delle Casse di risparmio e della s.p.a. "Ponteggi Dalmine", la Corte di appello di Roma respinse l'impugnazione proposta dalla società (fallita) avverso la sentenza con la quale il Tribunale di Roma aveva dichiarato il suo fallimento.

Affermò detta Corte: che, al fine della dichiarazione di fallimento, la situazione nella quale versava la società doveva essere esaminata in sè, prescindendo dal fatto che la società faceva parte di un gruppo di società collegata tra loro, dal momento che tale aggregazione aveva rilevanza meramente economica e non giuridica; che lo stato di insolvenza era evidenziato da numerose circostanze (il fermo totale dell'attività, il mancato pagamento di ingentissimi debiti, la impossibilità di ricorrere al credito); che lo stato di insolvenza rilevava nella sua oggettività, prescindendo dalle cause che l'avevano determinato e che pertanto era ininfluente che esso fosse conseguito al dissesto dell'impresa che dominava il gruppo, (dissesto) a sua volta determinato dall'inadempimento, nei confronti di detta impresa, da parte dell'Istituto, all'accordo (che si chiedeva di provare) in virtù del quale tra i rappresentanti dei gruppi di varie società e quelli delle banche creditrici si era convenuto che le società avrebbero completato la costruzione degli immobili e li avrebbero poi venduti sotto il controllo delle banche e che queste si sarebbero così soddisfatte dei loro crediti ed avrebbero dovuto anticipare il danaro necessario per pagare gli altri creditori; che l'accordo era comunque irrilevante: a) in astratto:

perché ad esso non avevano partecipato tutti i creditori, tanto che il fallimento era stato dichiarato ad istanza di un creditore non partecipante, e perché l'accordo concretava un concordato privatistico, inammissibile perché contrastante con il fine pubblicistico connesso al fallimento (evitare un non sano esercizio dell'attività, con danno dei creditori futuri); b) in concreto: per la genericità del suo contenuto e per la indeterminatezza, in particolare, del termine entro il quale le società avrebbero dovuto estinguere i loro debiti, circostanza, quest'ultima, che non consentiva di stabilire se la moratoria fosse scaduta alla data della dichiarazione di fallimento.

Ha proposto ricorso per cassazione la soccombente; hanno resistito, con controricorso, il fallimento e l'Istituto di credito;

non si è costituita la società "Ponteggi Dalmine"; le parti costituite hanno presentato memoria.

 

Motivi della decisione

Con i quattro motivi la ricorrente deduce che la Corte di appello è incorsa in violazione degli artt. 5 del R.D. 16.3.1942 n. 267, 1453 e 2697 c.c., 112 e 116 c.p.c. nonché in vizio di motivazione, rispettivamente:

1) perché ha ritenuto che l'inadempimento all'accordo non poteva essere valutato quale causa determinante dello stato di dissesto della società in quanto l'accordo - essendo stato stipulato con il gruppo (di società), il quale aveva rilevanza meramente economica e non giuridica - non aveva efficacia nei confronti delle singole società: senza rilevare che l'accordo, essendo stato stipulato con i vari sotto-gruppi di società, doveva ritenersi vincolante nei confronti delle singole società;

2) perché ha affermato che l'accordo era comunque irrilevante in quanto ad esso non aveva partecipato l'intero ceto creditorio: senza rilevare che era stata sufficiente la partecipazione delle banche sia perché solo il comportamento di queste aveva determinato lo stato di dissesto sia perché l'accordo prevedeva (anche) che le banche avrebbero soddisfatto i rimanenti creditori, e questi, pertanto, non avrebbero avuto interesse a contrastare l'accordo;

3) perché ha ritenuto che il Tribunale, il quale aveva dichiarato di ufficio il fallimento, aveva piena libertà di valutare la situazione nella quale versava la società: senza rilevare che la mancata proposizione di istanze di fallimento evidenziava che i creditori avevano fiducia nel proseguimento dell'attività e ciò escludeva che la società versasse in stato di insolvenza;

4) perché ha ritenuto ininfluente, e quindi inammissibile, la prova testimoniale: senza rilevare che questa era intesa a dimostrare la conclusione e il contenuto dell'accordo, nonché la sua efficacia nei confronti delle singole società, e, quindi, di essa ricorrente. Il terzo motivo è infondato perché è inesatta la premessa da cui parte, e cioè che il fallimento sia stato dichiarato di ufficio. Come emerge dalla sentenza impugnata, difatti, il fallimento è stato dichiarato su istanza, oltre che dell'Istituto di credito delle Casse di risparmio, della s.p.a. "Ponteggi Dalmine": del che, peraltro, costituisce riprova la ancora attuale partecipazione di tale società al giudizio.

I restanti motivi, che, in quanto connessi, possono essere esaminati congiuntamente, sono anch'essi infondati. Con le relative censure sostiene che la Corte di appello avrebbe dovuto ammettere la prova sull'accordo, che questo era efficace nei confronti (delle singole società e quindi) della società dichiarata fallita e che l'inadempimento allo stesso aveva causato lo stato di insolvenza.

L'accordo consisteva in un "pactum de non petendo": le banche, cioè, si impegnavano a concedere dilazione del pagamento dei loro crediti.

Ora questa Corte, pur ritenendo (Cass., 26-2-1990 n. 1439) che il "pactum de non petendo", dilazionando la scadenza dei crediti, attiene all'adempimento delle obbligazioni, e, quindi incide direttamente sull'insolvenza, ha precisato che ciò non esclude l'insolvenza, allorché, nonostante il patto, essa persista o in virtù del dissesto patrimoniale atto a rendere comunque definitiva l'impotenza finanziaria dell'imprenditore, o in considerazione di altre situazioni debitorie, estranee al patto, a loro volta scadute e non soddisfatte a termine.

E la inidoneità del patto, nella specie, ad escludere di per sè l'insolvenza, è stata affermata, sostanzialmente, dalla Corte di appello, la quale ha sottolineato il fermo totale dell'attività, la proposizione di istanza di fallimento da parte di un creditore non partecipante al patto, il mancato pagamento dei fornitori:

circostanze, tutte, che evidenziano l'insolvenza prescindendo dalla (ipotizzata) efficacia positiva del patto.

D'altronde l'onere di dimostrare che (in caso di rispetto del patto) non permanevano condizioni di dissesto, incombeva alla ricorrente, la quale, invece, nulla ha dedotto sul punto. L'unica (non deduzione, ma mera) considerazione che la ricorrente ha svolto al riguardo è che il patto prevedeva che le banche avrebbero provveduto (anche) al pagamento dei creditori diversi da esse.

Ma siffatta circostanza è, al fine in esame, irrilevante. Infatti mentre l'accordo tra i creditori e la società nel senso che i primi consentano dilazione del pagamento dei loro crediti incide "direttamente" sull'adempimento, e, quindi, sull'insolvenza, l'accordo tra alcuni creditori e la società, nel senso che i primi provvederanno (oltre a consentire dilazione ai propri crediti) a pagare i debiti della società verso altri creditori, si pone come un fatto che incide solo "indirettamente" sull'inadempimento, e, quindi, sull'insolvenza, con la conseguenza che la violazione del patto costituisce, in ordine all'indicata parte dell'accordo, circostanza irrilevante al fine della dichiarazione di fallimento, poiché lo stato di insolvenza dev'essere valutato nella sua obiettività, e va pertanto ritenuto sussistente anche se le cause che l'hanno determinato non siano imputabili all'imprenditore (Cass., 21.11.1986 n. 6856). I motivi, quindi, non sarebbero, nella loro prospettazione globale, sufficienti ad evidenziare un vizio della sentenza impugnata, in quanto investono questioni che, pur se risolte positivamente, non sarebbero decisive della controversia. La soccombente va condannata al pagamento delle spese processuali.

 

P.Q.M.

rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento, a favore di ciascuna delle resistenti costituite, di lire 87.800 per spese per Fall. Sardegna Imm.re e L. 131.200 per ICCRI e di lire 2.000.000 per onorari.

Così deciso il 10.2.1992.