Crisi d'Impresa e Insolvenza


Il Caso.it, Sez. Giurisprudenza, 24060 - pubb. 11/01/2020

L’insolvenza dell'imprenditore va accertata in relazione a fatti certi, non ad elementi ipotetici

Cassazione civile, sez. I, 19 Novembre 1992, n. 12383. Pres. Scanzano. Est. Sgroi.


Fallimento ed altre procedure concorsuali - Fallimento - Apertura (dichiarazione) di fallimento - Stato d'insolvenza - In genere - Accertamento - Elementi - "Pactum de non petendo" - Irrilevanza - Condizioni



Lo stato d'insolvenza dell'imprenditore commerciale, quale presupposto per la dichiarazione di fallimento, va accertato in relazione a fatti certi, effettivamente avvenuti, non in base ad elementi ipotetici, essendo, rilevante allo scopo soltanto l'oggettiva sussistenza dell'insolvenza, a prescindere dalle cause che l'hanno determinata, anche se consistenti in inadempimenti di altri soggetti. Pertanto, è irrilevante, al fine dell'esclusione dello stato d'insolvenza, l'accertamento dell'esistenza di un "pactum de non petendo", nel caso in cui, al momento della dichiarazione del fallimento, il "pactum" si presenti già non adempiuto dalle banche creditrici, per avere queste richiesto la restituzione dei debiti scaduti e non erogato i finanziamenti necessari per l'esecuzione del patto. (massima ufficiale)


Massimario Ragionato



 


REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE I

 

Composta dagli Ill.mi Sigg. Magistrati:

Dott. Giuseppe SCANZANO Presidente

" Antonio SENSALE Consigliere

" Renato SGROI Rel. "

" Antonino RUGGIERO "

" Giancarlo BIBOLINI "

ha pronunciato la seguente

 

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con sentenza 21 luglio 1980 il Tribunale di Roma chiedeva, d'ufficio, il fallimento della società in accomandita semplice Mira Immobiliare e del socio accomandatario Mario G.; contro tale sentenza proponeva opposizione la società fallita, che veniva rigettata con sentenza dello stesso Tribunale dell'11 dicembre 1981, avverso la quale veniva proposta impugnazione.

Nel giudizio d'appello interveniva volontariamente l'ICCRI. La Corte d'Appello di Roma, con sentenza 7 marzo 1988 dichiarava inammissibile l'intervento dell'ICCRI (che condannava alle spese) e rigettava l'appello della Soc. Mira, osservando:

- che era ininfluente l'inserimento economico della società nel "gruppo" facente capo a Gaetano Caltagirone, in considerazione dell'autonoma soggettività giuridica e responsabilità patrimoniale di ciascuna società, di guisa che l'accertamento dello stato di insolvenza doveva essere compiuto con riguardo alla situazione delle singole società;

- che la pretesa di addebitare l'insolvenza al fatto del terzo (ICCRI) per presunta inosservanza di negozi solutori o di moratoria era infondata, perché l'insolvenza ha un rilievo oggettivo e prescinde dalle cause che l'hanno determinata;

- che nella specie la Soc. Mira si trovava, all'epoca della dichiarazione di fallimento, in una situazione di impotenza economica non transitoria che le impediva di adempiere regolarmente e con mezzi normali le proprie obbligazioni, perché dalla stessa opposizione risultava che la società presentava il bilancio in passivo e versava in una crisi che aveva determinato il fermo dell'attività;

- che di fronte ad un attivo (valore costruzioni) stimato in sede fallimentare in lire 6.808.500.000, erano stati ammessi al passivo crediti per Lire 21.888.000.000;

- che la stessa appellante aveva ammesso che le era precluso il ricorso al credito, avendo dedotto che per superare le difficoltà era stata costretta a trattative con le banche creditrici, dapprima per addivenire ad una cessio bonurum e poi ad un pactum de non petendo (o ut minus solvatur), operazioni incompatibili con una situazione di mera difficoltà temporanea;

- che il prospettato pactum de non petendo, ammesso in ipotesi il suo perfezionamento, era riferibile al ceto creditorio bancario, non essendosi gli altri creditori impegnati alla moratoria dei loro crediti, il che comportava che era sufficiente la mancata adesione anche di un solo creditore per mantenere l'attualità dello stato di decozione;

- che il patto era irrilevante anche sotto altri profili, con conseguente inammissibilità della prova orale diretta a dimostrarne la conclusione, sia per l'irrilevanza di un patto privato, sia per l'estrema genericità del suo contenuto e per l'assoluta indeterminatezza del tempo assegnato dalle banche per estinguere i debiti, con conseguente impossibilità di stabilire se alla data di apertura della procedura concorsuale la moratoria fosse o meno scaduta.

Avverso la suddetta sentenza la Soc. in a.s. Immobiliare Mira di Mario G. ha proposto ricorso per cassazione, illustrato con memoria.

Il Fallimento della predetta società ha resistito con controricorso ed ha proposto ricorso incidentale condizionato. L'ICCRI ha proposto ricorso incidentale tardivo.

 

Motivi della decisione

I tre ricorsi si devono riunire ai sensi dell'art. 335 c.p.c.. La società ricorrente principale denuncia la violazione dell'art.5 legge fall. e di ogni altra norma e principio in termini di prova dello stato di insolvenza, di efficacia vincolante di pattu solutori, nonché difetto di motivazione su punti decisivi (art. 360 n. 3 e n.5 c.p.c.), osservando che la situazione di fatto accertata (integrazione reciproca delle società del gruppo Caltagirone ed unificazione dei servizi finanziari e di tesoreria) comportava che lo stato di insolvenza doveva essere stabilito in modo unitario, dovendosi accertare se la singola società versava in uno stato di vera e propria irreversibile insolvenza, ovvero solo in temporanea difficoltà, in relazione alle vicende eccezionali del gruppo. Invero, secondo la ricorrente, la situazione venutasi a creare era soltanto una brusca interruzione del sistema di finanziamento a vasi comunicanti esistente nel gruppo, a sua volta determinata dall'improvvisa messa fuori gioco del dominus del sistema, in conseguenza dell'ingiusto ed illegittimo fallimento delle prime società, perché rispetto ad esse doveva escludersi la ricorrenza dello stato di insolvenza, per essere intervenuto un pactum de non petendo (o ut minus solvatur) il cui rispetto, da parte del principale creditore ICCRI avrebbe consentito all'intero gruppo di recuperare la propria funzionalità finanziaria e di soddisfare i creditori.

La Corte del merito, considerando irrilevanti le vicende del gruppo, aveva omesso di considerare che era stato provato che i finanziamenti bancari venivano concessi per la realizzazione di opere destinate alla vendita e che come fonte di rimborso veniva indicato il ricavato della vendita o l'accensione di un mutuo fondiario sull'opera realizzata, per cui, se non era esigibile il credito per finanziamento, era priva di riscontro l'affermazione dello stato di insolvenza.

Osserva la ricorrente che in sede di merito era stata conseguita la dimostrazione dell'esistenza del pactum de non petendo (o ut minus solvatur) intervenuto fra i gruppi di società e l'intero ceto creditorio; ma qualora la Corte del merito non fosse stata persuasa del suo avvenuto perfezionamento, avrebbe dovuto accogliere la richiesta di prove orali, non essendo richiesta la prova scritta ne' ad substantiam ne' ad probationem.

La motivazione data dalla Corte d'Appello per rigettare la richiesta di prova, era viziata, perché:

a) il pactum era idoneo ad eliminare l'insolvenza, anche se qualche creditore non avesse aderito; comunque era stato chiesto di provare l'adesione dei pochi creditori diversi dalle banche;

b) il pactum era ammissibile e valido;

c) il contenuto del pactum risultava ben determinato, in base agli elementi di prova già esistenti ed agli articolati di prove richiesti, ivi compresa la durata, collegata al completamento ed alla liquidazione del cospicuo patrimonio edilizio del gruppo societario. Il ricorso è infondato.

La problematica del "gruppo" è dedotta, nel presente ricorso, soltanto sotto il profilo della pretesa influenza delle vicende delle altre società appartenenti al medesimo "gruppo" sullo stato d'insolvenza della soc. MIRA e pertanto (a parte ogni altra considerazione, per cui si rinvia alle decisioni riguardanti altri fallimenti di società che vi appartenevano, fra cui Cass. n. 1320 del 1989 e Cass. n. 6769 del 1990) è irrilevante alla stregua della stessa prospettazione della parte, a prescindere da ogni verifica - in fatto - circa la rispondenza al vero delle vicende del gruppo come sono state esposte nel giudizio di merito e nel ricorso. Si assume, infatti, che per eliminare quella che viene chiamata una momentanea difficoltà finanziaria del "gruppo", questo aveva raggiunto un accordo con le Banche creditrici, elemento essenziale del quale era la tacitazione degli altri creditori ed il completamento delle costruzioni degli edifici (oggetto delle società) "con le somme anticipate dalle banche" (pag. 12 della sentenza impugnata, pag. 8 del ricorso e pag. 11 della memoria, dove viene trascritto il capitolo n. II) della prova orale: "anticipazione da parte delle banche delle somme necessaria per il completamento delle costruzioni e per il pagamento dei propri creditori diversi dalle banche stesse (appaltatori e professionisti) i quali avevano espressamente manifestato la loro adesione a tale soluzione". Invero, sia dalla sentenza impugnata che dal ricorso e dalla memoria (si veda, per tutte, la pag. 12 di quest'ultima) l'assunto della soc. Mira è che "se le banche avessero rispettato gli accordi non vi sarebbe stata ne' insolvenza verso il ceto creditorio bancario (per il rinvio delle scadenze) ne' insolvenza verso gli altri creditori (per l'obbligo di apprestamento dei relativi mezzi, assunto dalle stesse banche" (così testualmente, si esprime la difesa); si tratta, cioè di un assunto che è impostato su un'ipotesi che si afferma non essersi mai verificata, quale è l'esecuzione del preteso accordo.

Poiché il giudizio sullo stato di insolvenza non si deve dare in relazione ad elementi ipotetici, ma a fatti certi, così come effettivamente avvenuti, dato che l'insolvenza è tale per la sua obiettiva esistenza, a prescindere dalle cause che l'hanno determinata, è evidente che la sentenza impugnata esattamente ha ritenuto, da un lato, che l'insolvenza risultava dalle stesse deduzioni della società opponente e, dall'altro, che la prova dedotta per dimostrare la conclusione del "pactum de non petendo" fosse irrilevante (cfr., fra le altre, Cass. n. 6548-90). Partendo dalle premesse esposte in linea di fatto dalla ricorrente nel giudizio di merito (pag. 9 e 12 della sentenza impugnata) si osserva che, secondo l'assunto dell'opponente il patto si articolava diversamente, nei confronti delle Banche e degli altri creditori. Le prime si sarebbero impegnate non solo a non richiedere la restituzione dei finanziamenti per i quali era già scaduto il termine, ma anche ad apprestare i finanziamenti necessari per completare le costruzioni in corso e per il pagamento degli altri creditori, che avevano aderito al patto solo nel senso che erano disposti ad aspettare di essere soddisfatti con i mezzi liquidi acquisiti mediante tale aspetto collaterale, ma essenziale, del pactum, che li coinvolgeva, appunto per una loro adesione non alla mera dilazione, ma all'attesa della soddisfazione con quei mezzi liquidi.

Il Collegio rileva che il giudizio sulla idoneità del pactum (come supra descritto) ad escludere l'insolvenza non può essere assolutamente disgiunto da quella premessa in punto di fatto che - secondo la stessa ricorrente - era pacifica, e cioè che al momento della dichiarazione di fallimento (naturalmente secondo il suo assunto, posto che la tesi del resistente è del tutto diversa, negandosi che si fosse andato oltre le mere trattative, senza conclusione di un negozio definitivo) vi era stato inadempimento del pactum, sotto entrambi i profili oggettivi già indicati, perché le banche avevano richiesto la restituzione dei debiti già scaduti e non avevano erogato i finanziamenti necessari per eseguire il complessivo programma.

Posto che, per giurisprudenza pacifica (fra le tante, v. Cass., n. 1980 del 1985 e n. 1321 del 1989) le cause che hanno determinato l'insolvenza, anche se consistono in inadempimenti di altri soggetti, non rilevano, essendo rilevante soltanto l'oggettiva sussistenza dell'insolvenza, tralasciando di considerare la situazione debitoria nei confronti delle banche (e segnatamente dell'ICCRI, a cui veniva addebitata detta inadempienza), perché si tratta di questioni non esaminate dal giudice del merito, la conclusione alla quale la sentenza impugnata è pervenuta, con riguardo all'insolvenza nei confronti degli altri creditori non bancari, deve essere confermata. Invero, o i suddetti creditori non avevano aderito al patto, secondo quanto esposto nella sentenza impugnata, ed allora la ricorrente avrebbe dovuto dimostrare l'esistenza del punto decisivo (ai sensi dell'art. 360 n. 5 c.p.c.) trascurato dal giudice del merito, della esistenza di mezzi propri (ovviamente non consistenti soltanto in immobili ancora da ultimare non immediatamente trasformabili in denaro) sufficienti a soddisfarli con regolarità. Non solo tale dimostrazione non è stata mai data, ma anzi dal ricorso risulta un assunto contrastante con essa: l'interruzione dei flussi finanziari, e cioè del credito occorrente per far fronte anche a pagamenti (scaduti) di modesta entità, che da sola è sufficiente a concretare l'insolvenza, perché la mancanza della possibilità di far ricorso al credito, per qualsiasi ragione, determina l'insolvenza (cfr., ampiamente, Cass. n. 1321 del 1989). È evidente - poi - che la Corte del merito non ha confuso l'insolvenza con la temporanea difficoltà di adempiere, dal momento che neppure dalle esposizioni della ricorrente risulta in che modo quella (pretesa) temporaneità avrebbe potuto risolversi in senso positivo, mediante il sopravvenire di una liquidità che al momento della dichiarazione del fallimento non sussisteva. La seconda alternativa è che gli altri creditori (appaltatori e professionisti indicati nella prova orale) pur non partecipando direttamente a tutte le trattative con il ceto creditorio bancario, avessero aderito al patto che consentiva il superamento della crisi. È evidente che tale superamento non poteva realizzarsi, con conseguente irreversibilità della crisi di liquidità, che non consentiva di pagare debiti di modesta entità (se rapportati agli affari complessivi), se la stessa ricorrente ammette che non è stato eseguito quell'aspetto del patto che consisteva nell'erogazione dei flussi finanziari necessari per i suddetti pagamenti e per il completamento dei programmi costruttivi, che restano quindi Motivi della decisione irrimediabilmente bloccati.

Invero, come già osservato questa Corte con la cit. sentenza n. 6548 del 27 giugno 1990, all'infuori dell'adesione all'accordo con le Banche, non risulta affatto che gli altri creditori si fossero autonomamente impegnati alla moratoria dei loro crediti, la cui insoddisfazione (per la incapacità della società ricorrente di soddisfarli regolarmente, con mezzi normali) era da sola sufficiente a determinare l'insolvenza.

Per le considerazioni esposte, la sentenza impugnata deve essere confermata, anche sotto il profilo dell'irrilevanza del patto. Il ricorso incidentale del curatore del fallimento è espressamente condizionato all'accoglimento del ricorso principale, e pertanto resta assorbito.

Il ricorso incidentale tardivo dell'ICCRI è inammissibile, perché la sentenza impugnata è stata depositata il 7 marzo 1988 ed il ricorso stesso è stato notificato il 15 giugno 1989, ben oltre il termine annuale di cui all'art. 327 c.p.c. L'art. 334 c.p.c. consente il ricorso incidentale tardivo alla parte "contro la quale è stata proposta impugnazione" (e tale non è l'ICCRI, nei cui confronti la soc. Mira non ha proposto impugnazione, come riconosce lo stesso ICCRI) ed a quelle chiamate ad integrare il contraddittorio a norma dell'art. 331 c.p.c.. Tale non è l'ICCRI, che non ha partecipato al giudizio di primo grado ed è intervenuta in appello, ai sensi dell'art. 344 c.p.c., e cioè assumendo di trovarsi nella posizione indicata dall'art. 404 primo comma c.p.c. (terzo, pregiudicato nei suoi diritti), pur non essendo creditore della soc. Mira (secondo quanto risulta dalla sentenza impugnata).

Il giudice d'appello ha negato l'esistenza di tale posizione, in capo all'ICCRI, ma anche sulla base del suo assunto, esso, per potere intervenire in appello, avrebbe dovuto essere titolare di un diritto autonomo (che si assume pregiudicato dalla sentenza) non identificabile con quello formante oggetto di contestazione fra le parti originarie del processo (Cass. n. 8266-87) e quindi non può considerarsi parte necessaria, ai sensi dell'art. 331 c.p.c., versandosi nell'ipotesi regolata dall'art. 332 c.p.c.. Pertanto, l'ICCRI avrebbe dovuto rispettare il termine di cui all'art. 327 c.p.c. e la sentenza era già passata in giudicato, nei suoi confronti, quando ha proposto impugnazione. (V. anche Cass. n. 8747 del 1990). La soc. ricorrente deve essere condannata alle spese, mentre esistono giusti motivi per compensare le spese fra l'ICCRI e le altre parti.

 

P.Q.M.

La Corte di Cassazione riunisce i ricorsi; rigetta il ricorso principale e dichiara assorbito il ricorso incidentale del Fallimento; dichiara inammissibile il ricorso incidentale tardivo dell'ICCRI.

Condanna la soc. Immobiliare MIRA alle spese del giudizio di cassazione a favore del Fallimento della stessa società, liquidate in L. 6.057.400, di cui Lire 6.000.000 di onorari di avvocato. Compensa le spese del giudizio di cassazione fra l'ICCRI e le altre parti.

Così deciso in Roma, il 3 marzo 1992.