Crisi d'Impresa e Insolvenza


Il Caso.it, Sez. Giurisprudenza, 24057 - pubb. 11/01/2020

Accertamento dello stato d'insolvenza

Cassazione civile, sez. I, 15 Marzo 1994, n. 2470. Pres. Favara. Est. Bibolini.


Opposizione alla dichiarazione del fallimento di una società - Stato di insolvenza - Accertamento - Socio - Opponente - Richiesta in precedenza del fallimento della società - Irrilevanza



Lo stato d'insolvenza è un presupposto oggettivo della dichiarazione di fallimento che deve essere accertato con riferimento all'epoca della pronuncia ed indipendentemente dal comportamento processuale della parti. Pertanto, nel giudizio di opposizione alla dichiarazione del fallimento di una società, non può assumere rilievo, ai fini dell'accertamento dello stato d'insolvenza, che il socio opponente abbia chiesto egli stesso, in precedenza (nell'ipotesi, oltre un anno e mezzo prima della pronuncia), la dichiarazione del fallimento della società. (massima ufficiale)


Massimario Ragionato



 


REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE I

 

Composta dagli Ill.mi Sigg. Magistrati:

Dott. Francesco FAVARA Presidente

" Pietro PANNELLA Consigliere

" Gian Carlo BIBOLINI Rel. "

" Antonio CATALANO "

" Ernesto LUPO "

ha pronunciato la seguente

 

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Il Presidente del Tribunale di Grosseto con provvedimento del 2 maggio 1980, nominava liquidatore della s.p.a. International Marine Service il sig. Alberto M..

Su istanza dello stesso liquidatore (ed in pendenza del giudizio di opposizione alla nomina), il Tribunale di Grosseto, con sentenza 24 febbraio 1983, dichiarava il fallimento della sopradetta società. Il sig. Harold C., nella veste di socio della società (in sintesi s.p.a. I.M.S.), proponeva opposizione alla dichiarazione di fallimento, chiamando in giudizio sia il curatore, sia il liquidatore nei cui confronti proponeva azione risarcitoria. L'opponente sosteneva che la società non si trovava in istato di insolvenza, ma di illiquidità determinata dalla messa in liquidazione e dall'inattività del liquidatore stesso il quale non aveva tempestivamente, e nella stagione favorevole, posto in vendita i beni a magazzino.

Il Tribunale adito, con sentenza 31 dicembre 1984 respingeva la proposta opposizione dichiarando, altresì, inammissibile la domanda risarcitoria.

Su appello dell'attore originario, e nel contraddittorio della curatela fallimentare e del sopraricordato liquidatore, pronunciava la Corte d'Appello di Firenze con sentenza n. 56-90 che dava piena conferma a quella di I grado. In sintesi, il giudizio della Corte territoriale si era svolto con la seguente sequenza logica:

1) All'eccezione dell'appellante, secondo cui il provvedimento di anticipazione dell'udienza collegiale emesso dal Presidente era nullo perché adottato da giudice incompetente (ravvisandosi la competenza del G.I.), con la puntualizzazione che il decesso del curatore e la sua sostituzione con il dott. Paolo A. avrebbe dovuto comportare l'interruzione del processo e la rimessione degli atti al giudice istruttore per la regolarizzazione e-o l'integrazione ex art.182 c.p.c., la Corte di Firenze riteneva:

a) la ritualità del provvedimento di anticipazione dell'udienza collegiale poiché, una volta che il G.I. si fosse spogliato della causa rimettendo le parti al Collegio (con la fissazione dell'udienza collegiale), la competenza per il relativo provvedimento non spettava più all'istruttore, ma al presidente di Sezione;

b) la sostituzione della persona fisica del curatore del fallimento non faceva venire meno lo jus postulandi dell'avvocato, il quale aveva la rappresentanza processuale dell'ufficio della curatela, non già della persona fisica che ne fosse titolare. Quindi l'autorizzazione del G.D. a stare in giudizio conservava la sua validità anche in caso di sostituzione del curatore. 2) La Corte, infine, nel merito riteneva sussistente lo stato di insolvenza, sia richiamando il fatto che lo stesso opponente aveva proposto istanza di fallimento, sia contestando quanto dall'opponente sostenuto in relazione al riconoscimento di spese per il liquidatore ed il suo avvocato, rilevando che dette spese erano state rese necessarie proprio per reagire alle posizioni assunte dall'opponente e dalla di lui moglie nei confronti della società.

Avverso detta sentenza proponeva ricorso per cassazione il sig. Harold C. deducendo quattro motivi; si costituivano con separati controricorsi sia l'attuale curatore del fallimento, sia il liquidatore della società.

 

Motivi della decisione

1 ) Con il primo mezzo di cassazione il ricorrente deduce la violazione e la falsa applicazione degli artt. 157, 159, 161 e 189 c.p.c. in relazione all'art. 360 n. 3 e 4 c.p.c. oltre ad omessa o, quanto meno, insufficiente motivazione su punti decisivi della controversia.

Il sig. Harold W. C. premesso, in fatto, che il giudice istruttore aveva assegnato la causa all'udienza del giorno 24 novembre 1989 e che il presidente di sezione, su istanza dell'avvocato del fallimento aveva anticipato detta udienza collegiale al 29 settembre 1989; ricordato che nella prima difesa successiva alla comunicazione del provvedimento presidenziale egli ne aveva dedotto la nullità perché emesso da giudice incompetente;

ciò premesso sul piano degli eventi processuali, il ricorrente si duole del fatto che la Corte del merito abbia ritenuto sussistente la competenza del presidente, e richiama al fine la sentenza 14 giugno 1982 n. 3628 della Corte di Cassazione, secondo cui, fino alla data della discussione, il giudice istruttore ha la facoltà di modificare la data dell'udienza.

La questione sollevata dal ricorrente, e sottoposta al dibattito tra le parti, attiene alle funzioni del giudice istruttore nel periodo corrente tra l'ordinanza della rimessione della causa davanti al collegio con fissazione dell'udienza di discussione e la chiamata della causa all'udienza di discussione stessa; si tratta, in sostanza, di valutare se il g.i. possa revocare a vario titolo detta ordinanza, anche al solo fine (come nel caso di specie) di fissare altra udienza di discussione, di fronte ad un'istanza di anticipazione di parte, ovvero se detto potere competa ad altro organo.

A parte ogni questione relativa alla possibile sussistenza di nullità, o non, dell'ordinanza di variazione dell'udienza di discussione (una volta che l'esercizio di un potere meramente ordinatorio non incida sulla composizione del collegio, ne' in alcun modo pregiudichi la posizione processuale delle parti), le prospettazioni antitetiche delle parti riflettono posizioni discordi sul punto espresse da ben precise, e pur valide, opinioni di dottrina, che hanno trovato riflesso in difformi pronunce di questa Suprema Corte.

Si sostiene, da un lato, che, in base al dettato degli artt. 188 e 189 comma 2 c.p.c., il collegio è investito di "tutta la causa" proprio con la rimessione effettuata dal giudice istruttore mediante l'ordinanza di fissazione dell'udienza di discussione. Conseguentemente con detta ordinanza il g.i. si spoglierebbe della causa, venendo meno il suo potere di provvedere sulle istanze delle parti di cui, invece, dispone per tutta la fase istruttoria corrente dall'udienza di comparizione fino al momento della rimessione al collegio. L'ordinanza di rimessione, pertanto, avrebbe natura ed effetti speciali (la chiusura di una fase del processo e l'apertura di una successiva nella completa attribuzione del collegio) che precluderebbero al G.I. la revoca della propria ordinanza, ancorché al solo fine di ribadire la rimessione al collegio per un'udienza di discussione diversa da quella precedentemente fissata. Si sostiene, d'altro lato, costituire un "preconcetto diffuso" quello secondo cui, rimettendo la causa al collegio, il g.i. si spogli della stessa, così da perdere ogni potere sul processo. In realtà, si rileva, il giudice istruttore rimarrebbe sempre tale per qualunque provvedimento, urgente o conservativo, richiesto nelle more tra l'udienza di precisazione delle conclusioni e l'udienza collegiale, per cui a lui competerebbe anche l'ordinanza di anticipazione dell'udienza collegiale su istanza di parte. Tanto premesso in ordine all'esito della dialettica delle parti, appare indiscusso che per i provvedimenti urgenti e cautelari (secondo le disposizioni di rito vigenti all'epoca) richiesti in corso di causa, la competenza a provvedere spetti al giudice istruttore anche nel periodo successivo all'ordinanza di rimessione al collegio, ma ciò in base a previsione normativa (art. 673 comma 2 c.p.c. e art. 701 c.p.c.) che al giudice istruttore conferisce espressamente ed esclusivamente detta competenza per le cause pendenti davanti al tribunale, salvi i casi di sospensione o di interruzione del processo, espressamente previsti e non estensibili ad altre ipotesi, in considerazione del rapporto di regola ed eccezione che non consente di spogliare l'istruttore della legittimazione al di fuori dei casi tassativamente previsti dalla legge.

Il fatto, peraltro, che il legislatore abbia inteso espressamente lasciare nelle attribuzioni dell'organo che maggiormente abbia conosciuto del processo nella sua costruzione istruttoria, l'emissione di provvedimenti incidentali di natura cautelare ed urgente, non implica una generalizzata attribuzione a detto organo di qualsiasi provvedimento di natura ordinatoria per la conduzione del processo, prima che il collegio con l'apertura dell'udienza di discussione abbia acquisito la "investitura", dallo stesso g.i. conferitagli, con la rimessione delle parti al collegio e la fissazione dell'udienza di discussione (art. 190 comma 1 c.p.c.). L'ordine del processo di cognizione, scandito in fasi successive ciascuna delle quali rientrante nella sfera di attribuzione di organi distinti, non implica necessariamente la protrazione delle funzioni dell'organo precedente finquando il successivo non abbia preso conoscenza della causa.

È pur vero che la distinzione nelle attribuzioni avviene tra organo monocratico (il g.i.) ed organo collegiale, il quale ultimo non prende cognizione della causa fino all'udienza di discussione, per cui non può essere lo stesso collegio ad anticipare l'udienza di discussione, rimanendo uno iato temporale tra conferimento ed acquisizione dell'investitura. Anche in quel lasso di tempo, però, di norma riservato all'attività delle parti (deposito delle comparse conclusionali e delle memorie di replica), gli atti processuali sono diretti proprio al collegio già investito della causa, e non al giudice istruttore.

Inoltre l'ordinamento processuale prevede espressamente i casi in cui un'udienza possa essere anticipata (art. 163 bis u cpv, in relazione all'art. 70 comma 1 disp. att., c.p.c.) attribuendo la relativa funzione al presidente della sezione, se già designata. La situazione prevista dall'art. 163 bis c.p.c., concernente specificamente il termine di prima comparizione e la determinazione della relativa udienza, presenta indubbie analogie con la situazione in esame per cui, di fronte ad un giudice istruttore che si sia spogliato della causa e ad un collegio già investito della causa della quale, peraltro, non abbia ancora preso cognizione, il potere di anticipazione dell'udienza collegiale di discussione può ben ricomprendersi nelle attribuzioni del presidente della sezione, in applicazione analogica dell'art. 163 bis c.p.c. e 70 disp. att. c.p.c. In questo senso si è espressa abbastanza recentemente questa corte (Cass. sent. 27 giugno 1989 n. 3121) con una pronuncia alla quale si ritiene di dovere dare adesione e continuità rigettando, quindi, il motivo di ricorso.

II ) Con il secondo mezzo il ricorrente deduce la violazione e la falsa applicazione degli artt. 25 n. 6, 31, 38 R.D. 16 marzo 1942 n. 267 in relazione all'art. 182 e 360 n. 3 e 4 c.p.c., oltre ad omessa o, quanto meno, insufficiente motivazione su punti decisivi della controversia, dolendosi del fatto che la Corte del merito non abbia ritenuto necessaria altra autorizzazione del giudice delegato a seguito della morte del precedente curatore e della sua sostituzione, volta che la prima autorizzazione era stata data al primo curatore, anche nominativamente indicato.

Il mezzo di cassazione non è fondato, in relazione ad indirizzo specifico espresso da questa Corte (Cass. 18 gennaio 1973 n. 172; 14 febbraio 1975 n. 570), cui si ritiene di dovere dare adesione e continuità.

In base al richiamato insegnamento, il decreto autorizzativo ex art. 31 comma 2 L.F. ha la funzione di integrazione dei poteri del curatore come organo del procedimento fallimentare, e non come persona fisica cui la relativa funzione è affidata, L'autorizzazione ha carattere oggettivo e non personale. Conseguentemente la sostituzione del curatore fallimentare in corso di causa, come in genere il mutamento della persona fisica che impersona un organo, non modifica il centro di imputazione degli atti e delle attività processuali e, come non comporta l'interruzione del processo ne' l'insorgere di oneri al cui adempimento sia condizionato l'ulteriore regolare svolgimento del rapporto processuale, identicamente non richiede ulteriore autorizzazione all'integrazione dei poteri di altra persona sostituita nella funzione di curatore, ne' rinnovo della procura data all'avvocato dal precedente curatore, su nomina del giudice delegato.

Questa impostazione non presuppone affatto la entificazione o la personalizzazione del fallimento, ente o persona in relazione ai quali individuare la correlazione organica della funzione del curatore.

Il fallimento è, e resta, una procedura a funzione eminentemente esecutiva, nella quale lo svolgimento coordinato delle varie attività volte alla acquisizione, liquidazione e ripartizione del patrimonio del fallito, in una visione autonoma e composita degli interessi privati in gioco, assume, come criterio peculiare di specialità l'operatività di un centro di potere, qualificabile come "ufficio fallimentare", composto da persone fisiche a ciascuna delle quali sono attribuite specifiche funzioni che le qualificano come pubblici ufficiali ed organi del processo.

Il curatore è, per l'appunto uno degli organi dell'Ufficio fallimentare cui, quale pubblico ufficiale (previsione espressa dell'art. 30 L.F.), viene conferito il potere di curare unitariamente una serie di interessi facenti capo al procedimento fallimentare, ponendosi come organo esterno operante sotto la direzione del giudice delegato e previa sua autorizzazione.

Se, quindi, il centro degli interessi facenti capo ad un centro di potere organico non muta con la sostituzione della persona fisica del curatore; se l'autorizzazione, in quanto attuazione della correlazione tra i vari organi dell'ufficio fallimentare, ed inoltre espressione di un'unitaria valutazione degli interessi singoli rispetto all'interesse generale della massa, deve ritenersi attinente ad una funzione espressa da un organo indipendentemente dalla persona fisica che ne sia titolare; se ciò è vero, ovvia è la deduzione che l'autorizzazione a promuovere una causa giudiziale data dal giudice delegato al curatore, nonché la procura conferita dal curatore all'avvocato della causa, mantengono la loro efficacia ancorché la persona fisica del curatore, per morte (come nel caso di specie) o per altro motivo venga sostituita nella funzione. Sotto illustrato profilo il motivo non merita accoglimento.

 

III ) Con il terzo motivo il ricorrente deduce la violazione e la falsa applicazione degli artt. 5 e 16 del R.D. 16 marzo 1952 (NDR: così nel testo) n. 267, 99, 115, 132 c.p.c., 2448, 2452 c.c. in relazione all'art. 360 n. 3 c.p.c. oltre ad omessa ed insufficiente motivazione su punti decisivi della controversia, sostenendo che tutte le determinazioni della Corte territoriale volte a dimostrare la sussistenza dello stato di insolvenza della s.p.a. I.M.S. sono illegittime ed errate.

In particolare:

a) il riferimento all'istanza di fallimento proposta dall'attuale ricorrente, si sostiene essere illegittimo ed inattendibile, perché non relativo a situazione oggettiva ma ad una prospettazione di parte unilaterale e soggettiva e, come tale, priva di valore probatorio;

b) egualmente illegittima sarebbe detta determinazione, in quanto l'istanza di fallimento era stata poi rinunciata, ed inoltre nessun credito era stato successivamente insinuato al passivo, per cui sarebbe arbitrario ed illogico continuare a dedurre da detta istanza una supposta prova dell'insolvenza;

c) detto riferimento sarebbe, comunque, incongruo perché relativo a situazione anteriore di circa due anni rispetto alla dichiarazione di fallimento, in quanto ciò che rileva è la sussistenza del presupposto oggettivo alla data della dichiarazione di fallimento;

d) i compensi riconosciuti al liquidatore ed al suo legale per L. 20.251.756 atterrebbero a situazioni maturate dopo la messa in liquidazione della società e non sarebbero, in tesi, inerenti alla gestione sociale, ma alla difesa dei comportamenti dello stesso liquidatore, non ad interessi della società. Detti compensi, costituenti il 70% dei crediti privilegiati ammessi al passivo troverebbero copertura nell'attivo ricavato dalle, sia pure rovinose, vendite effettuate dal liquidatore.

e) Nessuna deduzione avrebbero potuto trarre i giudici dal "quadro complessivo della situazione societaria", in quanto a sostegno della generica espressione non viene indicata alcuna situazione oggettiva, e perciò verificabile, cui ricollegare le apodittiche affermazioni della Corte del merito.

f) Si assume che l'opponente non aveva posto in rilievo la mancanza di pubblicità per operazioni straordinarie di liquidazione, ma la mancanza di una corretta ed ordinaria condotta commerciale da parte del liquidatore, volta che l'accumulo della merce a magazzino corrispondeva alla stagionalità del prodotto, vendibile essenzialmente in periodo estivo.

Il mezzo di cassazione, pur non cogliendo sempre, nella sua articolazione, aspetti essenziali ai fini dell'individuazione, o dell'esclusione, del presupposto oggettivo del fallimento, è fondato quanto meno sotto il profilo del vizio motivazionale. Non è rilevante, in sè e per sè, evidenziare una responsabilità eventuale del liquidatore giudiziale della s.p.a. I.M.S. nella determinazione della situazione finanziaria deficitaria della società, che portò alla dichiarazione di fallimento. Lo stato di insolvenza, in quanto dimostrato ed individuante la definitiva incapacità della società di capitali di adempiere regolarmente le obbligazioni assunte, integra di per sè il presupposto oggettivo del fallimento e porta alla relativa dichiarazione, indipendentemente dalla causa che detta situazione abbia determinato e del soggetto cui la responsabilità di detta situazione sia, in ipotesi, ascrivibile. Sotto diverso profilo, le varie argomentazioni con le quali il ricorrente intende trarre dalla ipotizzata responsabilità del liquidatore, la non ascrivibilità alla società di determinate situazioni debitorie, si traducono nella proposta di una diversa veste interpretativa di situazioni di fatto, già prese in considerazione dalla corte del merito nell'analisi dei motivi di appello, con motivazione nella quale non si individua ne' vizio logico, ne' violazione di diritto.

Se, peraltro, la doglianza è irrilevante, sotto un primo profilo, e si traduce in un'inammissibile questione di fatto nel settore coinvolgente l'ipotizzata responsabilità del liquidatore giudiziale nel periodo anteriore alla dichiarazione di fallimento, sotto un differente profilo essa coglie esattamente l'inadeguatezza della motivazione della pronuncia della Corte del merito, sia per genericità, sia per vizio logico-giuridico, nella parte inerente alla valutazione dello stato di insolvenza della s.p.a. I.M.S.. La Corte di Firenze, infatti, ha assunto a fondamento della motivazione sul punto, le seguenti situazioni:

1) la condotta assunta dal sig. Harold W. C. allorché il 9 giugno 1981 aveva proposto istanza di fallimento nei confronti della s.p.a. International Marine Services in liquidazione, di cui egli era socio e nei confronti della quale vantava un credito; istanza, peraltro, desistita il 4 agosto 1981;

2) il quadro complessivo della situazione societaria nella fase di liquidazione, nella quale (come si legge nella sentenza) "non può sottovalutarsi la singolare vicenda del sequestro conservativo delle 815 azioni della Società Marina di Cala Solera s.p.a...... rappresentanti il diritto di comodato di due box e delle relative zone antistanti", che costituivano l'unica posta di attivo unitamente al magazzino rimasto della s.p.a. I.M.S.;

3) le risultanze processuali relative all'esposizione debitoria della società "sia in relazione alla complessiva entità dello stato passivo fallimentare, sia nel quadro globale della situazione societaria.

In ordine al punto sub 1), pur rilevando la, per così dire, stranezza della posizione di un soggetto che, in momenti diversi e mosso evidentemente da differenti interessi, ha sostenuto prima l'insolvenza della società (proponendo istanza di fallimento), quindi l'insussistenza di detto stato (opponendosi alla dichiarazione di fallimento), ciò malgrado, una volta che la corte del merito non abbia ritenuto di escludere la legittimazione all'opposizione da parte del socio, non poteva assumere rilievo nell'accertamento dell'insolvenza della società la precedente condotta del socio, e ciò per due motivi, ciascuno dei quali autonomamente rilevante, e cioè:

a) perché lo "stato di insolvenza" è situazione indisponibile dalla parte del procedimento; situazione, vale a dire, rispetto alla quale non è neppure ipotizzabile una confessione, giudiziale o stragiudiziale, ne' da parte dell'opponente, ne' da parte del legale rappresentante della società, istante del fallimento; situazione che deve, quindi, essere dimostrata nella sua oggettività, indipendentemente dalle posizioni processuali assunte dalle parti;

b) perché l'insolvenza, quale presupposto oggettivo della dichiarazione di fallimento, è situazione che deve essere accertata come sussistente al momento della pronuncia che da inizio al procedimento concorsuale, non essendo idonea al fine una situazione pregressa (la vicenda iniziata con l'istanza di fallimento dell'attuale ricorrente, si era esaurita con la desistenza oltre un anno e mezzo prima della dichiarazione di fallimento avvenuta il 24 febbraio 1983), di cui non si apprezzi in positivo, e non si evidenzi, la continuità fino alla dichiarazione di fallimento. Per quanto attiene alle situazioni sub 2) e 3), concernenti rispettivamente l'attivo ed il passivo fallimentare e, come tali, da esaminare congiuntamente, ben può ritenersi che i dati di fatto relativi possano costituire la base di una valutazione di insolvenza, rapportata al "quadro generale" dell'impresa al momento della dichiarazione di fallimento, purché il "quadro generale" venga specificato nelle sue componenti significative, e non soltanto genericamente enunciato; purché, inoltre, gli elementi attivi e passivi, sia sul piano patrimoniale, sia su quello della liquidità, vengano puntualizzati e costituiscano il collegamento logico tra i presupposti e le conclusioni valutative, e non siano genericamente e globalmente enunciati senza alcuna correlazione controllabile. L'insolvenza, infatti, (in mancanza di inadempimenti o di altri fatti esteriori come enunciati dall'art. 5 comma 2 L.F., fatti, non espressamente enunciati nel caso di specie) costituisce l'espressione di una situazione patrimoniale con riflessi finanziari o di una situazione meramente finanziaria.

Sotto il primo aspetto uno scompenso patrimoniale grave (la cui prova può essere anche acquisita dagli esiti dello stato passivo rapportati ai dati dell'inventario e del realizzo), non sanabile con mezzi patrimoniali, anche straordinari (aumento di capitale) concretamente non ipotizzabili nel caso singolare, può essere un chiaro indice di una situazione irreversibile (anche se non ancora conclamata da inadempienze) dell'incapacità di adempiere con mezzi regolari e nei tempi debiti le obbligazioni assunte. Pur in assenza di evidenziazione di uno squilibrio patrimoniale, non può escludersi una crisi di liquidità di tale entità da determinare l'incapacità dell'impresa di adempiere regolarmente le obbligazioni assunte.

Nell'un caso e nell'altro, peraltro, gli elementi patrimoniali attivi e passivi, ovvero i fattori finanziari debbono essere posti tra di loro in una correlazione rapportata al quadro funzionale dell'impresa, tale da soddisfare la logica di una motivazione che con certezza consenta la valutazione del presupposto oggettivo del fallimento e la controllabilità dei passaggi logici esposti. La semplice enunciazione generica, e globale, delle situazioni di riferimento, non dà ragione dell'iter valutativo seguito, non consentendo di vagliare se il giudice del merito abbia seguito il criterio patrimoniale, o quello finanziario, ovvero entrambi, ne' quale relazione, che non sia meramente intuitiva, sia stata ritenuta valida ai fini della valutazione, tra i vari fattori esaminati. Consegue, sotto lo specifico profilo ora indicato, l'accoglimento del mezzo di cassazione in esame.

L'accoglimento del terzo motivo di cassazione assorbe il quarto che dipende dal giudizio demandato alla corte del rinvio, in quanto il criterio di determinazione delle spese di causa assume rilevanza solo in caso di soccombenza.

 

P.Q.M.

La Corte, rigetta il primo ed il secondo motivo di ricorso, accoglie il terzo e dichiara assorbito il quarto; cassa e rinvia, in relazione al motivo accolto, ad altra sezione della Corte d'Appello di Firenze, anche per le spese del giudizio di legittimità. Roma 27 aprile 1993.