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Il Caso.it, Sez. Giurisprudenza, 24042 - pubb. 11/01/2020.

Temporanea difficoltà di adempiere e insolvenza


Cassazione civile, sez. I, 24 Agosto 2004. Pres. Saggio. Est. Celentano.

Temporanea difficoltà di adempiere - Differenze con l'insolvenza


L'espressione "temporanea difficoltà di adempiere", che figura nell'art. 187 legge fallim. quale presupposto dell'ammissione alla procedura di amministrazione controllata, non individua un fenomeno qualitativamente e concettualmente diverso dall'insolvenza di cui all'art. 5 della stessa legge, differenziandosi la procedura concorsuale minore soltanto per l'elemento prognostico, ossia per la previsione della possibilità di risolvere la crisi finanziaria dell'impresa nel periodo massimo indicato dall'art. 187 cit. (massima ufficiale)

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA

 

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SAGGIO Antonio - Presidente -

Dott. PANEBIANCO Ugo Riccardo - Consigliere -

Dott. CELENTANO Walter - rel. Consigliere -

Dott. MARZIALE Giuseppe - Consigliere -

Dott. SALVAGO Salvatore - Consigliere -

ha pronunciato la seguente:

 

 

Svolgimento del processo

Il Tribunale di Padova, con decreti in data 21.12.1983, rigettò le istanze presentate autonomamente dalla Società Saccarifera del Rendina s.p.a., dalla Società Italiana per l'Industria degli Zuccheri s.p.a., dalla s.p.a. Cavarzere Produzioni Industriali per l'ammissione alla procedura di amministrazione controllata, ai sensi dell'art. 187 l.f..

Con sentenza emessa sotto la stessa data del 21.12.1983, quel Tribunale dichiarò lo stato di insolvenza delle predette società, le quali furono assoggettate alla procedura di amministrazione straordinaria secondo la legge n. 95 del 1979. Ciascuna di queste società propose, autonomamente, opposizione alla sentenza che la riguardava, chiamando in giudizio dinanzi al Tribunale di Padova il Commissario governativo, l'Associazione Nazionale dei Bieticoltori, il Consorzio Nazionale dei Bieticoltori, l'Associazione Bieticoltori Ferraresi, l'Associazione Bieticoltori Veneti, nonché Triggiani Mauro od altri singoli produttori, richiedendo la revoca della sentenza dichiarativa dello stato di insolvenza, la revoca o la declaratoria di invalidità e/o inefficacia dei decreti emessi in data 21.12.1983 con i quali lo stesso Tribunale di Padova aveva rigettato le loro istanze di ammissione alla procedura di amministrazione controllata e la condanna dei convenuti al risarcimento dei danni anche ai sensi dell'art. 96 c.p.c.. Nei giudizi spiegarono intervento adesivo alle istanze degli opponenti, la Società Generale de Sucreries s.a. e la s.p.a. Finanziaria Industriale Veneta.

Con altro autonomo e separato atto, la Società Finanziaria Aspe s.p.a.. Marini Clarelli Nicolò, Marini Clarelli Emanuele Manfredi, Gabriella Padovani, quali azionisti della società, proposero opposizione alla sentenza dichiarativa dello stato di insolvenza della società medesima e convennero in giudizio, dinanzi allo stesso Tribunale di Padova, il Commissario Straordinario della società suddetta nonché il Commissario Straordinario della s.p.a. Cavarzere Produzioni Industriali, istante - quest'ultima - dell'azione di accertamento dello stato di insolvenza della Finanzia Ind.le Venata s.p.a. richiedendo la revoca della sentenza dichiarativa. Anche in questo giudizio spiegò intervento adesivo alle ragioni degli opponenti la Societè Generale de Sucreries.

In tutti i giudizi suddetti si costituirono alcuni dei convenuti, resistendo alle domande; altri restarono contumaci. Riunite le cause, il Tribunale, con sentenza in data 29.11.1994, ritenuto il difetto di legittimazione passiva dell'Ass. nazionale dei Bieticoltori, del Consorzio nazionale dei Bieticoltori, dell'Ass.ne Bieticoltori Ferraresi e dell'Ass.ne Bieticoltori Veneti, rigettò nel merito le opposizioni alle sentenze dichiarative dello stato di insolvenza.

All'esito del giudizio di gravame, per le cui fasi di svolgimento anche Istruttorio si fa rinvio alla sentenza ora impugnata, la Corte di Appello di Venezia, ha respinto l'impugnazione principale proposta dagli opponenti ed ha accolto l'appello incidentale proposto da alcuni degli appellati per il regolamento delle spese del giudizio di primo grado.

Avverso la sentenza, emessa il 13.03.2000 sotto il numero 457, hanno proposto ricorso per Cassazione, con unico atto, la Società Italiana per l'Industria degli Zuccheri s.p.a., la s.p.a. Cavarzere Produzioni Industriali, la Societè Generale de Sucrerie s.a. in liquidazione, la s.r.l. Prima.

Con ordinanza n. 10299 emessa in esito all'udienza del 4.6.2003, questa Corte ha disposto l'integrazione del contraddittorio nei confronti di Barbieri Sandro, di Di Pasquale Nicola, di Faccioli Enrico e di Pra Giuseppe nonché la rinnovazione della notificazione del ricorso nei confronti di Tosi Giuseppe, Marini Clarelli Giuseppe, Marini Clarelli Olimpia e Padovani Gabriella.

Le ricorrenti hanno provveduto in tal senso (atto depositato il 03.12.2003.

Resistono con separati controricorso:*

 

Motivi della decisione

1. Va disaminata in via preliminare la questione,

dedotta dalle ricorrenti con la memoria datata 02.03.2004, della possibile nullità delle sentenze emesse dal Tribunale di Padova e dalla Corte di Appello di Venezia che si pretende discenda dalla "situazione di incertezza, non eliminabile altrimenti, in ordine ai soggetti cui la decisione si riferisce".

Tale prospettazione di nullità non ha fondamento alcuno. Rispetto agli istanti per la dichiarazione di insolvenza - Umberto Napoletano e Vittorio Napoletano di (indicativo della paternità) Pasquale, i quali si costituirono (vedi la comparsa di risposta, dalla quale si ricava, leggendo il mandato scritto a margine, che il di era divenuto fu) dinanzi al tribunale per resistere all'opposizione - fu ritualmente costituito il contraddittorio, mentre l'erronea indicazione nella sentenza di una parte inesistente (Di Pasquale Nicola), che non produce nullità alcuna, può essere corretta, anche nella sentenza emessa in grado di appello, con il procedimento di cui all'art. 287 c.p.c.. 2. La sentenza ora impugnata è articolata come segue:

da, innanzitutto, per risolto, sia pure implicitamente, il problema processuale dell'ammissibilità dell'impugnazione contestuale, con il medesimo atto di opposizione (conf. Cass. n. 6565 e 6509 del 1996, ed altre precedenti, per l'unicità sostanziale della statuizione concernente sia il rigetto dell'istanza di ammissione alla procedura temporanea sia la dichiarazione di fallimento, sulla base di una valutazione complessiva della situazione economica dell'impresa) e dei decreti di rigetto delle istanze di ammissione alla diversa procedura di amministrazione controllata e della dichiarazione di insolvenza, come presupposto della procedura di amministrazione straordinaria;

muove dal rilievo che l'espressione temporanea difficoltà, con il quale la norma dell'art. 187 l.f. indica il presupposto oggettivo della procedura di amministrazione controllata, non individua un fenomeno quantitativamente e concettualmente diverso dalla insolvenza di cui all'art. 5 della l.f., differenziandosi i due fenomeni soltanto per l'elemento prognostico favorevole, ossia per la previsione che la crisi dell'impresa possa essere risolta nel periodo massimo consentito per la procedura temporanea, senza che reati esclusa la sostanziale identità qualitativa dei due presupposti oggettivi;

enuncia che l'applicazione di tale principio giuridico al caso di specie comportava da un lato la conclusione che, con la stessa richiesta di ammissione alla procedura di amministrazione controllata, le società richiedenti riconoscevano la sussistenza in concreto di una situazione di impossibilità di adempiere regolarmente le proprie obbligazioni, dall'altro la conseguenza che una volta riconosciuta l'inammissibilità del ricorso alla procedura temporanea ed esclusa quindi la concreta possibilità del superamento delle condizioni di illiquidità delle società richiedenti, quella medesima situazione, che più non avrebbe potuto essere considerata come transeunte, veniva a configurare lo stato di insolvenza;

trae da ciò l'ulteriore conseguenza, sul piano logico-giuridico, che una volta che la sentenza dichiarativa dell'insolvenza si fosse mostrata resistente alle critiche relative alla ritenuta insussistenza dei requisiti per l'ammissione alla procedura di amministrazione controllata, con ciò stesso si sarebbe dovuto ritenere raggiunta la prova positiva in ordine allo stato di insolvenza, restandone assorbita la disamina delle specifiche doglianze che tale situazione contestavano e con esse anche delle relative istanze istruttorie.

Poste tali premesse, e dopo aver esposto il convincimento che, per effetto dalla novella introdotta dalla legge n. 319 del 1978, modificativa dell'art. 187 l.f., e in particolare con la previsione che la procedura di amministrazione controllata poteva essere aperta qualora (nel concorso delle altre condizioni) fossero emerse comprovate possibilità di risanare l'impresa, doveva necessariamente escludersi che la procedura in questione potesse essere utilizzata per soddisfare le obbligazioni dell'impresa o attraverso strumenti sostanzialmente liquidatori, o anche mediante il trasferimento a terzi dell'azienda o, comunque, con l'adozione di attività negoziali che comportassero la prosecuzione dell'attività d'impresa da parte di soggetto diverso da quello ammesso alla procedura stessa - la sentenza passa alla disamina delle censure relative alla ritenuta, dal tribunale, insussistenza delle condizioni per ammettere le società richiedenti alla procedura di amministrazione controllata. All'esito di tale disamina, la Corte di merito da conto del proprio convincimento nel senso che, poste le suddette premesse in diritto, il programma di risanamento prospettato dalle società richiedenti non rispettava i requisiti richiesti per l'ammissione alla procedura di amministrazione controllata.

Lo fa con un duplice ordine di considerazioni, riassumibili nel giudizio che "oltre che non rispondente alle finalità della legge" (secondo le considerazioni che la Corte ha svolto alle pagine 20 e 21 della sentenza), "il programma di risanamento neppure presentava concrete possibilità di trovare attuazione" (secondo le considerazioni argomentate alle pagine da 21 a 29, sino al punto n. 8, della sentenza).

Ritenuto, in conclusione, che le istanze di ammissione alla procedura di amministrazione controllata fossero state respinte con piena rispondenza alle norme della legge fallimentare, sul punto delle condizioni di ammissibilità a detta procedura, la Corte di Appello, richiamando le premesse in diritto da cui ha preso le mosse nel giudizio, ha rilevato "l'inconcludenza delle argomentazioni delle parti appellanti diretta a lo stato di insolvenza delle società". Ha ritenuto ancora che tale rilievo di inconcludenza fosse assorbente e tale da condurre, di per sè, al rigetto dei motivi di gravame sul punto. Tuttavia la stessa Corte ha argomentato ulteriormente sul tale questione (punti da n. 10 a n. 14, da pag. 29 a pag. 35 della sentenza), svolgendo altre considerazioni confermative, a suo giudizio, della sussistenza dello stato di insolvenza. 3. La sentenza è censurata con tre motivi, come segue rubricati e svolti.

Il primo: "violazione degli artt. 93 e 95 del Trattato di Roma". Le ricorrenti richiamano le sentenze della Corte di Giustizia comunitaria emesse in data 1.12.1998 e 17.06.1999 nonché la sentenza di questa Corte n. 9681 del 1999 e sostengono la tesi dalla necessaria disapplicazione della legge n. 95 del 1979, per contrasto con l'art. 92 del Trattato e della altrettanto necessaria cassazione delle sentenze dichiarative dello stato di insolvenza, in quanto pronunciate a norma, dell'art. 1 della legge n. 95/1979, sul dedotto presupposto che "l'intera, leggo costituisca ex se un vero e proprio 'progetto di aiuti non previamente notificato alla Commissionè, che per tale sua natura non richiede alcun accertamento sui provvedimenti, successivi al decreto di ammissione". Tale motivo di ricorso va rigettato per infondatezza. Esso introduce questioni estranee alla materia del giudizio e del tutto irrilevanti rispetto ad essa.

Nel sistema della legge n. 95 del 1979, la sentenza (di accertamento) dichiarativa dello stato di insolvenza, ancorché emessa "a norma dell'art. 1 "della legge stessa, e destinata a fungere non più che da presupposto della procedura di amministrazione straordinaria, che e aperta con il successivo decreto (art. 1 comma 5^) dell'autorità amministrativa al quale vanno, in realtà, ricondotti tutti gli effetti dell'assoggettamento dell'impresa alla procedura. E dunque, l'illegittimità di diritto comunitario "del regime di aiuti di Stato, introdotto con la legge n. 95 del 1979" (in tal senso, letteralmente, la decisione della Commissione delle Comunità Europee emessa il 16.05.2000, l'ordinanza della Corte di Giustizia in data 24.07.2003 concernente il regime transitorio di cui all'art. 106 del D.Lgs. n. 270 del 1999, e già prima le pronunce della stessa Corte

di Giustizia e di questa Corte dinanzi richiamate) è destinata a non spiegare rilevanza alcuna nel presente giudizio, il cui oggetto è limitato al controllo di legittimità sia dei decreti con i quali furono rigettate le istanze di ammissione alla procedura di amministrazione controllata sia della sentenza dichiarativa dello stato di insolvenza - gli uni e l'altra contrastati dalle attuali ricorrenti con l'opposizione ex art. 18 della legge fallimentare, che è la forma tecnico-processuale di introduzione del giudizio medesimo (altro è che detta illegittimità di diritto comunitario, in quei termini desumibili dalle ricordate pronunce della Corte di Giustizia e di questa Corte, possa essere fatta valere all'interno del procedimento di amministrazione straordinaria investendone i relativi atti, a partire dal decreto con la quale esso è aperto). Il secondo motivo denuncia la "violazione degli artt. 5, 187 e 195 l. fall.". Due le censure svolte:

con la prima, le ricorrenti contrastano e censurano come violazione di legge "l'equiparazione, dichiarata dalla sentenza impugnata, tra la difficoltà temporanea di adempiere regolarmente le proprie obbligazioni", nelle quali esse individuano il presupposto oggettivo della procedura concorsuale temporanea di cui agli artt. 187 e ss. della legge fallimentare, e lo stato di insolvenza di cui all'art. 5 della stessa legge.

Su tale premessa esse censurano la sentenza nella parte in cui ha tratto dalla presentazione delle istanze per l'ammissione alla procedura di amministrazione controllata "la confessione, da parte di essa società istanti, della sussistenza dello stato di insolvenza" ed ha conseguentemente ritenuto "automaticamente dimostrato lo stato di insolvenza".

Con la seconda investono il giudizio di "non rispondenza alle finalità della legge" che la Corte di merito ha reso a proposito del programma di risanamento presentato dalle società. La censura è svolta contro l'affermazione di principio, contenuta nella sentenza secondo la quale il piano di risanamento dell'impresa non può contenere previsioni liquidatori.

Tale motivo è infondato in entrambe le censure. Con l'affermazione che "l'espressione temporanea difficoltà non individua un fenomeno qualitativamente e concettualmente diverso dalla insolvenza di cui all'art. 5 della l.f.", differenziandosi la procedura concorsuale minore soltanto per l'elemento prognostico, ossia per la previsione della possibilità di risolvere la crisi finanziaria dell'impresa nel periodo massimo indicato dalla norma dell'art. 187 l.f., ferma tuttavia la identità qualitativa, ontologica e concettuale del presupposto oggettivo nei due procedimenti a confronto, la Corte di merito ha fatto corretta applicazione della legge. Dell'affermata identità oggettiva del presupposto delle due procedure - denominati nell'una temporanea difficoltà di adempiere e nell'altra insolvenza - e prova (anche secondo le opinioni della dottrina) non soltanto la circostanza che soltanto in forza della moratoria biennale (v. il richiamato, dall'art. 168, divieto di iniziare o proseguire azioni esecutiva) e della comprovata prospettiva di risanamento l'imprenditore è in grado di superare la crisi finanziaria (che altrimenti lo porterebbe al fallimento) ma anche il disposto normativo dal quale si ricava l'automatismo della dichiarazione di fallimento in presenza di determinati comportamenti dell'imprenditore ammesso alla procedura di amministrazione controllata. In tal senso e l'elaborazione giurisprudenziale di questa Corte (v. la sentenza n. 9581 del 1997 richiamata dalla Corte veneta, nonché le altre n. 699 dello stesso 1997, ma già S.U. n. 4370 del 1977). Rilevato poi che la Corte di Appello ha fatto discendere il suo giudizio circa la sussistenza dello stato di insolvenza non soltanto dall'avvenuta presentazione delle istanze di ammissione alla procedura temporanea bensì anche da altre, autonomamente considerate (da pag. 29 e ss.), circostanze di fatto, resta dimostrata l'infondatezza della censura in esame, la quale, come si è detto dinanzi, e argomentata sulla premessa che la Corte abbia "automaticamente" ritenuto per certo lo stato di insolvenza sulla base del dedotto duplice errore di aver equiparato il presupposto oggettivo della procedura ex art, 187 ss. l.f. allo stato di insolvenza di cui all'art. 5 l.f. e di aver ritenuto corrispondente ad una "confessione di insolvenza" la presentazione delle istanze di ammissione alla procedura temporanea.

Infondata è anche la seconda censura.

Non è erronea in diritto l'affermazione della Corte veneta che sulla base della novella introdotta dalla legge n. 391 del 1978 modificativa dell'art. 207 l.f. e in particolare della previsione contenuta nella norma che la procedura in parola potrà essere ammessa qualora (nel concorso delle altre condizioni) vi siano comprovate possibilità di risanare l'impresa, dovesse escludersi non soltanto che la procedura in questione potesse essere utilizzata per soddisfare le obbligazioni attraverso strumenti sostanzialmente liquidatori, ma altresì, mediante il trasferimento a terzi dell'azienda o, comunque, con l'adozione di attività negoziali che comportassero la prosecuzione dell'attività da parte di un soggetto diverso da quello ammesso alla procedura. Ed invero, se pure dovesse ammettersi che, sempre ai fini dell'ammissibilità alla procedura in questione ed in linea con la configurazione normativa della stessa, il risanamento dell'impresa possa tollerare anche l'alienazione di cespiti non strategici, e liquidazioni parziali, resta che l'obiettivo strategico aia in ogni caso quello della conservazione degli elementi essenziali dall'impresa e delle sue attività economiche e che proprio in funzione di questa continuità rivitalizzanda debba fondatamente prefigurarsi il risanamento, onde è del tutto corretto ritenere non rispondente alle finalità della legge la previsione che il risanamento finanziario dell'impresa sia attuato con l'uso di strumenti comunque liquidatori o di quegli altri mezzi indicati dalla Corte suddetta.

Di tale premessa teorica, in punto di diritto, la Corte di merito ha fatto poi applicazione al caso di specie, disaminando il piano prospettato dalle società ora ricorrenti ed esprimendo la motivata valutazione (pag. 20 e 21 della sentenza) che, in concreto e proprio perché proponeva soluzioni (in alternativa: "rinuncia ad effettuare la campagna", ovvero, quale opzione di gran lunga preferibile, una "gestione degli stabilimenti condotta da una società terza nella prospettiva, da attuarsi proprio nel biennio, di cessione degli stabilimenti, così che questa società avrebbe assunto il duplico ruolo di mandataria nella gestione dell'attività saccarifera e di imprenditore in proprio nello svolgimento diretto dell'attività connessa all'acquisto di materie prime e alla vendita del prodotto a terzi) non in linea con gli scopi di risanamento dell'impresa, il piano medesimo non rispettava i requisiti anzidetto per l'ammissione delle società istanti alla procedura di amministrazione controllata. Tale seconda parte della disamina condotta dalla Corte allo scopo di dimostrare in concreto la non corrispondenza del piano alle finalità della procedura e per ritenere insussistente il presupposto, o la condizione, della procedura indicato dalla norma dell'art. 187 l.f., ossia la conservazione dell'impresa a mezzo di un idoneo piano di risanamento, non è censurato dalle ricorrenti.

Ne consegue che il terzo motivo di ricorso, rubricato "omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa il punto decisivo della controversia riguardante il giudizio di inadeguatezza ed inattuabilità del piano di risanamento - violazione degli artt. 2697, 2727 cod. civ. - violazione dell'art. 187 l. fall." e che

investe la sentenza nel giudizio espresso dalla Corte di merito, per sua esplicita dichiarazione (pag. 21), soltanto per mera completezza di motivazione - di inadeguatezza e di irrealizzabilità (neppure presentava concrete possibilità di trovare attuazione) del piano, deve essere ritenuto inammissibile.

Il quarto motivo di ricorso attiene all'accertamento dello stato di insolvenza. Esso denuncia la "omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione sul punto dalle risultanze documentali riguardanti il problema della insussistenza dello stato di insolvenza". Il motivo non merita accoglimento.

Dell'accertato stato di insolvenza irreversibile, nel quale erano venute a trovarsi le società, ha sentenza ha dato ampia, puntuale e corretta motivazione, che non e punto inficiata dalle critiche svolte dalle ricorrenti.

Il giudizio della Corte si fonda, in sintesi, su due rilievi: il primo relativo all'ingente indebitamento, ammontante a complessivi 246.337 milioni di lire alla data del 31.03.1983, delle società verso le banche (debiti dei quali la Corte ha rilevato esigibilità, stante il mancato verificarsi della condizione alla quale era subordinata la moratoria - pactum de non patendo temporaneo, sino al 30.06.1984 - cui le banche si erano dichiarate disponibili) e all'indebitamento verso i bieticoltori, per oltre 100 miliardi di lire soltanto relativamente al periodo antecedente il 1983, nonché verso i trasportatori e gli istituti previdenziali; il secondo, relativo all'impossibilità del superamento di tale situazione di crisi a) per l'indisponibilità dei bieticoltori a continuare nelle forniture di materia prima, sicché le società non sarebbero state in grado di provvedere, nell'immediato futuro, al regolare pagamento dei debiti già accumulati, b) per l'insufficienza del finanziamento dello Stato per 43 miliardi di lira, che, secondo la stessa relazione degli organi amministrativi, avrebbe coperto "meno di un terzo del debito verso i bieticoltori per i conferimenti di bietole fatti negli anni 1982/1983".

Alla Corte di Appello, le ricorrenti addebitano:

a) con formulazioni al limite della genericità

ciò va detto perché la specificità della censura non può risultare dai prospetti riportati alla pagine 45 del ricorso - di aver trascurato l'esame di documenti (gli stati passivi e il c.d. " piano stralcio") e di aver conseguentemente errato nella individuazione della misura dell'indebitamento. Sennonché tale dedotto errore della Corte e smentito dalle stesse cifre riportate negli indicati prospetti che corrispondono ai dati esposti nella motivazione della sentenza ed alle stesse riferibilità temporali. Nessuna censura è mossa al rilievo della Corte di merito concernente il superamento della moratoria concessa dalle banche sino al 30.06.1984 e la conseguente esigibilità, alle scadenze, dell'intera debitoria.

b) di aver omesso ogni riferimento alla consistenza dell'attivo, di aver trascurato l'esame delle disponibilità (le risorse) indicate nella memoria difensiva del 30.11.1983. Anche tale censura è infondata. Gli elementi attivi, qualificati come " risorse finanziarie " e indicate nei prospetti a pagina 47 del ricorso sono stati complessivamente valutati dalla Corte di Appello (pag. 33 della sentenza) e fatti oggetto del corretto rilievo che "l'accertamento dell'attivo patrimoniale della sua ipotetica superiorità rispetto al passivo non avrebbe escluso lo stato di insolvenza, che non sarebbe stato possibile sanare attraverso la (necessariamente futura) alienazione dei cespiti patrimoniali".

In definitiva, la situazione finanziaria che la Corte di merito ha accertato per le società ora ricorrenti risponde al concetto giuridico di insolvenza (che nell'elaborazione giurisprudenziale è comunemente definita come una situazione funzionale, e non transeunte, di impotenza economica che si realizza quando l'inprenditore non è più in grado di adempiere regolarmente e con mezzi normali le proprie obbligazioni, essendo venute meno le condizioni di liquidità e di credito necessario all'esercizio della relativa attività rimanendo irrilevanti l'eventualità che l'attivo superi il passivo allorché l'incapacità di adempiere si concreti e si manifesti attraverso la crisi di liquidità).

Anche il giudizio della Corte circa l'inutilità dei mezzi istruttori resiste alle censure proposte, alcune delle quali, peraltro, si fondano su affermazioni relative a fatti incontrollabili (che "nessun produttore, all'infuori dei 48 che avevano presentato istanze per la dichiarazione di Insolvenza, aveva mai affermato di aver rifiutato la fornitura della materia prima") o anche a motivazioni interne irrilevanti ("la ragione del ricorso all'amministrazione controllata sta - non già nella consapevolezza dell'insolvenza, come ritenuto dalla Corte di Appello, bensì nel tentativo di esse società saccarifere di sottrarsi alla pressione dei concorrenti, delle associazioni dei bieticoltori e del potere politico"). Considerata, infatti, la materia del giudizio l'esistenza dello stato di insolvenza delle società e ancora considerando che il giudizio di merito della Corte è basato sul rilievo (pag. 32 e 33) che " anche volando prescindere dalla, comunque sussistente, esigibilità dai crediti (bancari e non) al momento della dichiarazione dello stato di insolvenza, l'insolvenza, stessa avrebbe dovuto ritenersi sussistente in considerazione del fatto che, attesa la concreta impossibilità di dar corso alla normale attività produttiva per la mancata fornitura della materia prima da parte dei bieticoltori, le società non sarebbero state comunque in grado di provvedere - nell'immediato futuro - al regolare pagamento dei debiti comunque già accumulati", trova ragione il conseguente giudizio di "superfluità" delle richieste probatorie.

Rapportato ai termini del suddetto giudizio di merito, la valutazione espressa dalla Corte in ordine alle richieste istruttorie appare adeguatamente e correttamente motivata nei rilievi che: a) l'accertamento dell'attivo patrimoniale e della dedotta ipotetica superiorità rispetto al passivo non avrebbe escluso lo stato di insolvenza; b) le indagini, anche documentali, richieste non avrebbero portato al risultato di dimostrare la possibilità di acquisire la liquidità necessaria per rendere reversibile il riconosciuto, ed accertato, stato di insolvenza.

Il ricorso va dunque rigettato.

Le spese seguono la soccombenza.

 

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna le ricorrenti al pagamento delle spese del giudizio liquidate per ciascuno dei resistenti in complessivi euro 10.200,00 (diecimiladuento) di cui euro 200,00 per esborsi ed euro 10.000,00 per onorario, oltre le spese generali e gli accessori come dovuti per legge.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Prima Civile della Corte di Cassazione, il 9 marzo 2004. Depositato in Cancelleria il 24 agosto 2004