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Il Caso.it, Sez. Giurisprudenza, 23988 - pubb. 11/01/2020.

Fallimento: portata applicativa della sentenza della Corte Costituzionale n. 570 del 1989


Cassazione civile, sez. I, 22 Dicembre 1994, n. 11039. Pres. Salafia. Est. Cicala.

Fallimento - Sentenza della Corte Costituzionale n. 570 del 1989 - Portata applicativa - Distinzione tra piccolo, medio e grande Criteri - Artigianato - Assoggettabilità a fallimento - Condizioni


In tema di fallimento, ai fini della distinzione tra piccolo, medio e grande dopo la sentenza della Corte Costituzionale n. 570 del 22 dicembre 1989, che ha dichiarato illegittimo, per violazione dell'art. 3 Cost., l'art. 1, comma secondo, legge fallimentare, come modificato dall'art. 1 legge 20 ottobre 1952 n. 1375, nella parte in cui prevedeva che "quando è mancato l'accertamento ai fini dell'imposta di r.m., sono considerati piccoli imprenditori gli imprenditori esercenti un'attività commerciale nella cui azienda risulta un capitale non superiore a lire novecentomila" - bisogna tener conto dell'attività svolta, dell'organizzazione dei mezzi impiegati, dell'entità dell'impresa e delle ripercussioni che il dissesto produce nell'economia generale. In particolare, l'artigiano diventa un normale imprenditore commerciale e, conseguentemente deve essere assoggettato al fallimento, solo quando organizzi la sua attività in modo da costituire una base di intermediazione speculativa e da far assumere al suo guadagno, normalmente modesto, i caratteri del profitto, realizzando così una vera e propria organizzazione industriale, avente autonoma capacità produttiva, in cui l'opera del titolare non è più essenziale, ne' principale. (massima ufficiale)

 

Svolgimento del processo

Con sentenza del 31 maggio 1988 il Tribunale di Palermo respinse l'opposizione proposta dal sig. S. S. avverso la decisione con la quale in data 15 novembre 1986 era stato dichiarato il fallimento dello S. stesso.

Contro la sentenza interpose appello il sig. S. deducendo, in primo luogo la sua non assoggettabilità a fallimento essendo un artigiano addetto all'installazione e riparazione di apparecchiature elettriche, radiotelevisive e di telecomunicazioni, attività svolte con il proprio lavoro manuale e senza alcun dipendente.

La Corte d'appello, con decisione 16 novembre 1990 - 15 gennaio 1991, ha accolto il gravame, osservando che: a) l'attività svolta dallo S. e la circostanza che a tale attività lo stesso si dedicasse con lavoro manuale personale, senza occupare alcuno alle sue dipendenze, sono elementi che inducono ad escludere che possa qualificarsi come commerciale "un'impresa del genere in cui il lavoro personale prevale sugli altri elementi organizzativi, e costituisce l'oggetto diretto della prestazione, senza l'esplicazione di alcuna delle attività menzionate nell'art. 2195 cod. civ."; b) siffatte argomentazioni non possono ritenersi inficiate e contrastate dalle altre risultanze, considerate dal Tribunale, quali la disponibilità da parte dello S. di attrezzature varie stimate in L. 31.000.000, e l'esecuzione da parte dello S. medesimo di lavori per alcune emittenti locali per un importo di L. 40.000.000.

Invero, quanto all'attivo posto in bilancio, L. 10.000.000 riguardavano attrezzature speciali ed il resto era costituito da un'autovettura (valutata L. 8.000.000) e da denaro contante; mentre l'importo dei lavori riguardava l'attività svolta dallo S. nel corso di diversi anni e non solo nel 1986.

Contro la pronuncia della Corte d'appello di Palermo ha proposto ricorso per Cassazione il Fallimento di S. S. - in persona del curatore - articolando due motivi.

Resiste il sig. S. con controricorso.

 

Motivi della decisione

Con il primo motivo di ricorso la curatela lamenta violazione degli artt. 2195 c.c., 2082 e 2083 c.c. in relazione all'art. 360, nn. 3 e 5, c.p.c.; e quindi sostiene che il giudice di secondo grado avrebbe escluso che lo S. fosse titolare di una impresa commerciale fondandosi sulla disposizione dell'art. 2195 c.c. - che impone l'obbligo dell'iscrizione nel registro delle imprese per gli imprenditori che esercitano determinate attività - senza tener conto delle norme di cui agli artt. 2082 e 2083 cod. civ.. Lo stesso ricorrente riconosce però che la Corte d'appello ha fatto riferimento all'art. 2195 c.c. "solo perché non ha intravisto nell'attività dello S. alcuna delle attività menzionate nel suddetto articolo".

Il motivo di ricorso deve essere respinto.

A seguito della sentenza della Corte Costituzionale n. 570 del 13-22 dicembre 1989 (che ha dichiarato illegittimo, per violazione dell'art. 3 cost., l'art. 1, 2 comma, l. fall., come modificato dall'art. unico, l. 20 ottobre 1952, n. 1375, nella parte in cui prevede che "quando è mancato l'accertamento ai fini dell'imposta di r. m., sono considerati piccoli imprenditori gli imprenditori esercenti un'attività commerciale nella cui azienda risulta investito un capitale non superiore a lire novecentomila"), bisogna tener conto ai fini della distinzione tra piccolo, medio e grande imprenditore - della attività svolta, dell'organizzazione dei mezzi impiegati, dell'entità dell'impresa e delle ripercussioni che il dissesto produce nell'economia generale. E sotto questi molteplici profili la pronuncia della Corte di merito appare congruamente motivata e priva di vizi logici.

Infatti, l'artigiano diventa un normale imprenditore commerciale e, conseguentemente, può essere assoggettato a fallimento, solo quando organizzi la sua attività in modo da costituire una base di intermediazione speculativa e da far assumere al suo guadagno, normalmente modesto, i caratteri del profitto, realizzando così una vera e propria organizzazione industriale, avente autonoma capacità produttiva ed in cui l'opera del titolare non è più essenziale, nè principale, sicché non si è in presenza di un piccolo imprenditore (Cass. 15 ottobre 1981, n. 5403).

A questi principi di diritto si è pienamente adeguato il giudice di merito, con considerazioni in fatto prive di vizi logici e quindi non sindacabili in questa sede.

Con il secondo motivo la ricorrente deduce violazione dell'art. 18 R.D. 16.3.1942 n. 267 in relazione all'art. 360, n. 5, c.p.c., lamentando la mancata acquisizione del fascicolo fallimentare da parte della Corte d'appello.

È però insegnamento di questa Corte che anche nel giudizio fallimentare l'acquisizione del fascicolo di primo grado ha una funzione meramente sussidiaria e non può' essere considerata essenziale ai fini della validità del processo di appello.

L'inosservanza da parte del cancelliere del giudice d'appello dell'obbligo previsto dall'art. 347 c.p.c. di richiedere al cancelliere del giudice a quo la trasmissione del fascicolo d'ufficio, non comporta la nullità del procedimento, ma il potere del giudice d'appello di disporre l'acquisizione di detto fascicolo fino al momento della decisione della causa ed anche dopo la discussione; tale acquisizione costituisce atto dovuto solo qualora l'esame del fascicolo di primo grado si renda necessario ai fini della decisione della causa (Cass. 28 novembre 1992, n. 12769).

L'acquisizione del fascicolo di ufficio di primo grado, ai sensi dell'art. 347 3 comma c.p.c., è dunque affidata all'apprezzamento discrezionale del giudice dell'impugnazione, con la conseguenza che l'omissione di detto adempimento può' essere dedotta come motivo di ricorso per cassazione soltanto sotto il profilo del difetto di motivazione, nel caso in cui si adduca che dal fascicolo di primo grado il giudice di appello avrebbe potuto trarre elementi di valutazione idonei a suffragare una diversa soluzione della lite (Cass. 21 febbraio 1992, n. 2116).

Appare opportuno procedere a compensazione delle spese.

 

p.q.m.

La Corte rigetta il ricorso. Compensa fra le parti le spese.

Così deciso nella camera di consiglio della Prima Sezione Civile il giorno 11 aprile 1994.

Sentenza n. 11039 del 22/12/1994