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Il Caso.it, Sez. Giurisprudenza, 23986 - pubb. 11/01/2020.

Assoggettabilità a procedure concorsuali del piccolo artigiano


Cassazione civile, sez. I, 20 Settembre 1995, n. 9976. Pres. Corda. Est. Nardino.

Fallimento - Piccolo artigiano - Assoggettabilità a procedure concorsuali - Condizioni


L'artigiano può perdere i connotati di "piccolo imprenditore" e divenire soggetto passivo di procedure concorsuali, qualora organizzi ed estenda la propria attività in modo ed in misura tali da farle assumere le caratteristiche dell'impresa industriale e da indirizzarla al conseguimento del profitto, e non solo del guadagno - normalmente modesto - ricavabile da un'attività organizzata prevalentemente con il lavoro proprio e della propria famiglia. (massima ufficiale)

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE I

 

Composta dagli Ill.mi Sigg. Magistrati:

Dott. Mario CORDA Presidente

" Salvatore NARDINO Rel. Consigliere

" Vincenzo PROTO "

" Mario CICALA "

" Giuseppe SALMÈ "

ha pronunciato la seguente

 

SENTENZA

sul ricorso proposto

da

DI DIONISIO ALBERTO e ANDRENACCI LAURA elettivamente domiciliati in Roma c-o la Cancelleria Civile della Corte Suprema di Cassazione rappresentati e a difesi dall'avv. Domenico Cozzi giusta delega in calce al ricorso;

Ricorrente

contro

CURATELA del fallimento "CONFEZIONI MORRIS" di MARINOZZI DEA in persona del Curatore Fernando Misticoni, elettivamente domiciliato in Roma via F. Confalonieri 5 presso l'avv. Emanuele Coglitore che la rappresenta e difende unitamente all'avv. Giuseppe Di Maira giusta delega in calce al controricorso: in data 4.10.94 viene depositato atto con il quale si fa presente il cambio di domicilio da via Otranto 36 a via Federico Confalonieri 5;

Controricorrente

avverso la sentenza 423-91 della Corte di Appello de L'Aquila dep. il 23.12.1991;

è presente per il resistente l'avv. E. Coglitore che chiede rigetto del ricorso.

il Cons. Dr. Nardino svolge la relazione;

il P.M. dott. Nardi conclude per l'inammissibilità del ricorso.

 

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con sentenza del 6 marzo 1989 il Tribunale di Teramo dichiarava revocata, ai sensi dell'art. 67 L. Fall., la vendita di alcuni immobili intervenuta tra Marinozzi Dea, titolare della ditta "Confezioni Morris" (successivamente fallita), ed i coniugi Alberto Di Dionisio e Laura Andrenacci, in quanto stipulata nel biennio anteriore alla data della sentenza dichiarativa di fallimento per un prezzo notevolmente inferiore a quello di mercato dei beni. Lo stesso Tribunale condannava inoltre i convenuti al pagamento del controvalore di altri immobili alienati dalla Marinozzi con lo stesso contratto e successivamente rivenduti dagli acquirenti a terzi. Il gravame proposto dai predetti coniugi veniva rigettato dalla Corte d'Appello de L'Aquila con sentenza in data 13 dicembre 1991 sulla base delle seguenti considerazioni:

- Correttamente il Tribunale aveva dichiarato inammissibili per tardività, in quanto proposte nella comparsa conclusionale, le domande dei convenuti tendenti a far dichiarare l'inopponibilità ad essi della sentenza di fallimento (ai sensi degli artt. 18 L. Fall. e 404 c.p.c.) nonché l'insussistenza della qualità di imprenditore

commerciale della Marinozzi al momento della vendita, tanto più che tali domande, sulle quali la curatela del fallimento non aveva accettato il contraddittorio, risultavano formulate come vere e proprie domande riconvenzionali di accertamento, in violazione del disposto dell'art. 167 c.p.c.- - Gli appellanti non avevano fornito elementi certi di prova, idonei a superare la presunzione - posta a loro carico dall'art. 67, 1 comma, l. Fall. - di conoscenza dello stato d'insolvenza della venditrice all'epoca della stipulazione del contratto. - L'allegazione degli appellanti relativa alla mancata conoscenza della qualità di imprenditore della Marinozzi costituiva mera riproposizione della questione di inopponibilità agli acquirenti della sentenza dichiarativa di fallimento e non appariva, comunque, confortata da valida prova.

- La domanda, avanzata dalla curatela ed accolta dal Tribunale, di condanna dei convenuti al pagamento del controvalore degli immobili rivenduti a terzi dagli acquirenti non integrava una mutatio, ma una semplice emendatio libelli, dovendosi la stessa ritenere compresa nella originaria domanda di revocatoria.

Avverso tale sentenza hanno proposto ricorso per cassazione il Di Dionisio e l'Andrenacci sulla base di quattro motivi illustrati con memoria.

La curatela del Fallimento Marinozzi ha resistito con controricorso.

 

MOTIVI DELLA DECISIONE

I ricorrenti hanno dedotto i motivi di censura appreso riassunti:

1 ) Violazione e falsa applicazione degli artt. 1, 67 L. Fall.;

2082, 2083, 2084 cod. civ.; 9, 10, 12, 13 L. 25 luglio 1956 n. 860;

1, 2, 6, 6, 7 L (NDR: così nel testo). 23 ottobre 1956 n. 1202;

omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa punti decisivi della controversia.

Assumono i ricorrenti, richiamando i primi tre motivi dell'appello, che all'epoca del rogito di vendita (11 giugno 1980) la Marinozzi aveva la qualifica di artigiana, come risulta dal certificato di iscrizione della medesima "nell'albo artigianale" e dalla documentazione prodotta in primo grado. Sarebbe, pertanto, incorsa in errore la Corte del merito per essersi limitata ad osservare che la sentenza dichiarativa del fallimento della Marinozzi era opponibile erga omnes, senza considerare che, per l'esperibilità della revocatoria fallimentare, occorreva dimostrare che gli acquirenti conoscessero la qualifica di imprenditore della venditrice, posto che "l'insolvenza presa in considerazione dalla legge fallimentare" è soltanto quella di chi, "rivestendo la qualifica di imprenditore commerciale, possa essere assoggettato alla dichiarazione di fallimento". I giudici del merito avrebbero, di conseguenza, dovuto escludere la sussistenza, nel caso di specie, dei presupposti dell'azione di cui all'art. 67 L. Fall., non potendosi "retrodatare" all'epoca del rogito di compravendita la conoscenza, da parte degli acquirenti, della qualità di imprenditore, successivamente assunta dalla Marinozzi, e mancando comunque la prova della conoscenza di una "insolvenza commerciale" della venditrice e degli "sporadici protesti", peraltro "di scarsa entità", da lei subiti.

2 ) Violazione e falsa applicazione degli artt. 67, comma 1 nn. 3 e 5 L. Fall., 2699, 2700, 2083 cod. civ.; delle leggi nn. 860 e 1202 del 1956.

Secondo i ricorrenti, i giudici del merito avrebbero erroneamente affermato che gli appellanti non avevano assolto l'onere della prova della mancata conoscenza dello stato d'insolvenza della Marinozzi all'epoca della vendita, avendo omesso di valutare "elementi di fatto e documenti", dai quali emergeva invece in modo certo che gli acquirenti erano in buona fede convinti di contrattare con un"'artigiana seria ed onesta", costretta a vendere gli immobili a causa della loro scarsa redditività e dell'elevato costo di manutenzione. Sarebbe inoltre carente la motivazione della sentenza circa il valore dei beni, i quali risultavano in pessimo stato di conservazione ed erano occupati da inquilini.

3 ) Violazione delle norme in materia di prova testimoniale ed omessa motivazione circa un punto decisivo della controversia. I ricorrenti lamentano che la loro deduzione di mezzi istruttori in ordine alla loro buona fede ed alla inscentia decoctionis, reiterata in grado di appello, sia stata disattesa senza alcuna motivazione.

4 ) Violazione e falsa applicazione dell'art. 67 L. Fall. in base al rilievo (subordinato) che, essendo la revocatoria fallimentare diretta alla mera declaratoria di inefficacia dell'atto di disposizione dei beni del fallito nei confronti dei creditori, non si sarebbe potuta pronunciare la "condanna del terzo acquirente alla restituzione del bene al fallimento o, in difetto, al pagamento del controvalore relativamente ai due appartamenti venduti con atti 3-12-83 e 4-6-84".

II) Osserva preliminarmente il Collegio che non risulta investito da specifiche censure il capo della sentenza impugnata con il quale la Corte del merito ha dichiarato l'inammissibilità delle domande - qualificate "riconvenzionali" - proposte in prime cure dai convenuti con la comparsa conclusionale e volte ad ottenere la declaratoria di inopponibilità ad essi della sentenza di fallimento della Marinozzi e di insussistenza, al tempo della vendita, della qualità di imprenditrice di costei. Di tali questioni, pertanto, non si può più discutere nel presente giudizio di legittimità; e sono inammissibili i rilievi dei ricorrenti che, indirettamente ed in termini generici, tendono a riproporle.

Sono del pari precluse in questa sede le questioni attinenti allo stato di conservazione ed al valore di mercato degli immobili oggetto della compravendita revocata.

I giudici di primo grado hanno, infatti, accertato e quelli di secondo grado hanno confermato, con apprezzamento insindacabile, che il contratto in contestazione rientrava tra gli atti indicati nel primo comma dell'art. 67 L. Fall., rispetto ai quali la legge pone a favore del fallimento una presunzione Juris tantum di conoscenza dello stato d'insolvenza del soggetto (poi) fallito da parte del terzo che ha tratto vantaggio dall'atto revocando. Nè i ricorrenti contrastano in alcun modo le pertinenti considerazioni sulle quali è fondato l'anzidetto accertamento.

III) Tutto ciò premesso, osserva la Corte come i ricorrenti ripropongano, a sostegno delle doglianze formulate con i primi due mezzi, argomentazioni già prospettate in sede di merito e motivatamente disattese, insistendo sulla circostanza che essi non conoscevano la Marinozzi come imprenditrice commerciale, eventualmente assoggettabile alla disciplina del fallimento, ma erano in buona fede convinti di contrattare con un'"artigiana", come tale iscritta nell'albo professionale della Camera di Commercio e tale qualificatasi nell'atto pubblico di compravendita ed in altri documenti. Aggiungono, ripetendo testualmente espressioni mutuate dalla sentenza di questa Corte n. 3745 del 1976, che la sola insolvenza considerata dalla legge fallimentare è quella del soggetto che, rivestendo la qualifica di imprenditore commerciale, e passibile di dichiarazione di fallimento; e addebitano alla Corte d'Appello di avere disapplicato tale principio, avendo ritenuto irrilevante, ai fini del giudizio circa l'assolvimento dell'onere della prova gravante sugli acquirenti degli immobili, il fatto che costoro ignorassero senza loro colpa la condizione di fallibilità della venditrice.

Tali assunti sono, però, palesemente infondati.

A prescindere dalla persistente discordanza di opinioni circa il rilievo, agli effetti che qui interessano, della conoscenza, da parte del convenuto in revocatoria fallimentare, della qualità di imprenditore commerciale dell'autore dell'atto revocando, ed anche a voler considerare siffatta conoscenza come una componente necessaria del presupposto soggettivo della scientia decoctionis (in tal senso aderendo alla tesi accolta nella menzionata sentenza n. 3745-76, ma non da tutti condivisa, con riferimento alla conoscenza della qualità di socio illimitatamente responsabile di una società in stato di insolvenza), è sufficiente considerare, per rigettare le censure in esame, che nelle ipotesi riconducibili - come quella di specie - alle previsioni del primo comma dell'art. 67 L. Fall. spetta pur sempre al convenuto in revocatoria dimostrare, sulla base di elementi anche presuntivi ma certi ed univoci, di non aver conosciuto lo stato di insolvenza della controparte come imprenditore commerciale e di non essere stato quindi in grado di valutare il rischio connesso al compimento di atti a titolo oneroso con un soggetto che, a causa dell'anzidetta qualifica, avrebbe potuto esser dichiarato fallito, con conseguente revocabilità degli atti medesimi, se posti in essere nei periodi "sospetti" stabiliti dall'art. 67.

Orbene, nella presente fattispecie emerge in modo

incontrovertibile dal necessario collegamento tra le argomentazioni svolte nella sentenza di primo grado (espressamente o implicitamente richiamate nella sentenza di appello) e le considerazioni esposte in quest'ultima decisione che i giudici del merito hanno concordemente ritenuto insufficiente ad integrare la prova della inscientia decoctionis, da parte dei ricorrenti (estesa - come si è detto - alla mancata conoscenza della "condizione di fallibilità" della Marinozzi) il solo fatto che costei risultasse ancora iscritta, alla data del rogito, nell'albo delle imprese artigiane. Tale iscrizione, infatti, non aveva, nel vigore della legge 25 luglio 1956 n. 860, efficacia costitutiva ne' valeva a sottrarre in modo assoluto l'"artigiano" alla disciplina del fallimento, posto che, per costante orientamento della giurisprudenza, l'artigiano può perdere i connotati di piccolo imprenditore e divenire soggetto passivo di procedure concorsuali, qualora organizzi ed estenda la propria attività in modo ed in misura tali da farle assumere le caratteristiche dell'impresa industriale e da indirizzarla al conseguimento del profitto, e non solo del guadagno, normalmente modesto, ricavabile da un'attività organizzata prevalentemente con il lavoro proprio e della propria famiglia (cfr. Cass. nn. 2310-87, 5443-81, 28-75).

Correttamente, dunque, i giudici del merito hanno escluso che la circostanza sulla quale fanno leva i ricorrenti (iscrizione della Marinozzi nell'albo delle imprese artigiane ed utilizzo della relativa qualifica nei documenti contrattuali) potesse assumere rilevanza decisiva ai fini dell'assolvimento dell'onere della prova gravante su di essi. E non è superfluo ricordare che, secondo quanto gli stessi ricorrenti riferiscono, già i giudici di primo grado avevano ipotizzato (con valutazione sicuramente condivisa dalla Corte d'Appello) il superamento, da parte della Marinozzi, dei limiti propri della piccola impresa artigiana, osservando che costei, con effetto dal 1 luglio 1980, era stata iscritta a sua domanda "nel settore industriale", sulla base di una situazione di fatto che poteva farsi ragionevolmente risalire alla data dell'atto di vendita (11 giugno 1980), avuto riguardo all'epoca (necessariamente precedente) della presentazione della domanda e del tempo occorrente per l'istruttoria della pratica.

Alla luce di tali considerazioni non merita censura, ne' sotto il profilo giuridico ne' sul piano della congruità e coerenza logica della motivazione, la conclusione raggiunta dalla Corte d'Appello, secondo cui i pochi elementi ai prova presuntiva offerti dagli appellanti apparivano "tutt'altro che gravi precisi e concordanti" e non consentivano perciò di vincere l'opposta presunzione di conoscenza dello stato d'insolvenza della Marinozzi ne' di dimostrare che gli acquirenti ignorassero - come ancor oggi apoditticamente assumono - la qualità di imprenditore commerciale della venditrice, assoggettabile, nonostante la (solo formale) iscrizione nell'albo delle imprese artigiane, alla disciplina del fallimento. I ricorrenti, peraltro, omettono di indicare quali altre circostanze "esterne", specifiche ed oggettivamente riscontrabili sarebbero state "obliterate" dai giudici di appello, sicché le loro doglianze si esauriscono nel contrapporre al convincimento dei giudici del merito, circa il mancato assolvimento dell'onere della prova, l'asserzione di avere, invece, fornito prove adeguate della inscientia decoctionis riferibile ad un imprenditore commerciale, con l'inammissibile pretesa di ottenere da questa Corte una diversa valutazione delle stesse circostanze di fatto che hanno formato oggetto di esame e di corretto apprezzamento nei precedenti gradi di giudizio.

In definitiva la sentenza impugnata, sfrondata di talune MOTIVI DELLA DECISIONE

affermazioni imprecise o superflue, che non incidono apprezzabilmente sull'esattezza sostanziale della soluzione accolta e delle ragioni che la sostengono, resiste alle inconsistenti critiche formulate con i primi due motivi di ricorso; i quali vanno, di conseguenza, rigettati.

IV) Palesemente inammissibile è il terzo motivo, con il quale i ricorrenti si dolgono della mancata ammissione di "mezzi istruttori ... riguardanti la buona fede e la inscientia decoctionis", senza precisare quali fossero l'oggetto ed il contenuto delle prove richieste e così privando il Collegio della possibilità di valutarne la rilevanza rispetto al factum demonstrandum. V) È, infine, infondato il quarto mezzo, perché l'assunto con esso dedotta contrasta con l'opinione della dottrina prevalente e con il costante orientamento della giurisprudenza secondo cui, in tema di azione revocatoria fallimentare, il terzo acquirente è responsabile della garanzia patrimoniale sottratta ai creditori ed ha l'obbligo di reintegrarla, restituendo la cosa acquistata o, nel caso in cui ciò non sia possibile, il suo valore attuale (cfr. Cass. nn. 6185-84, 347-83, 1016-76, S.U. 1169-73).

VI) Per le considerazioni fin qui svolte il ricorso va rigettato, con la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese del giudizio per effetto della loro totale soccombenza.

 

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti, in solido, a rimborsare alla parte resistente le spese del giudizio, liquidate in L. 65.000 oltre L. 3.000.000 (tremilioni) per onorario. Così deciso in Roma l'8 novembre 1994.