Crisi d'Impresa e Insolvenza


Il Caso.it, Sez. Giurisprudenza, 23981 - pubb. 11/01/2020

Fallimento e trasformazione della società in società semplice

Cassazione civile, sez. I, 28 Aprile 1999, n. 4270. Pres. Cantillo. Est. Papa.


Fallimento - Società in accomandita semplice - Trasformazione della società in società semplice - Previsione come oggetto sociale dell'ente risultante dalla trasformazione della liquidazione delle attività dell'accomandita - Natura commerciale di tale attività - Qualificazione della società risultante dalla trasformazione come società irregolare - Configurabilità - Sussistenza - Conseguenze - Assoggettabilità a fallimento



Il principio - desumibile dalla disciplina degli artt. 2498 e 2500 cod. civ. in punto di trasformazione di società di persona in società di capitali - secondo cui la trasformazione di una società non dà luogo ad un nuovo ente, ma integra una mera mutazione formale di un'organizzazione, che sopravvive alla vicenda della trasformazione senza soluzione di continuità, deve reputarsi applicabile anche nel caso di mutamento inverso (trasformazione, cosiddetta regressiva, da società di capitali a società di persone) ed anche nei casi di mutamento nell'ambito di ognuno dei due tipi di società, come nell'ipotesi di trasformazione di una società in accomandita semplice in una società, la quale, essendo stata lasciata ferma l'identità ed integrità dell'impresa commerciale già gestita nella forma precedente, deve qualificarsi come "irregolare", ancorché nel relativo atto sia stata qualificata "semplice", dovendosi, in particolare, ravvisare quella identità ed integrità e, quindi, giustificarsi la qualificazione come società irregolare della società risultante dalla trasformazione, allorquando l'oggetto sociale dell'ente risultato dalla trasformazione sia stato limitato alla gestione della liquidazione delle attività e passività al fine di ottenere il massimo ricavato. (massima ufficiale)


Massimario Ragionato



 


Svolgimento del processo

Con sentenza del 3-24 aprile 1990, il Tribunale di Bologna dichiarò il fallimento della Società semplice V.C.F., già Litografia Ellebi S.a.s. - in precedenza a sua volta dichiarata fallita -, e di M. A., quale socia illimitatamente responsabile unitamente al marito S. P.. L'opposizione della A. - sugli assunti dell'incompetenza territoriale del Tribunale per precedente trasferimento di sede, della non assoggettabilità a fallimento della V.C.F., e della propria qualifica di socia accomandante in difetto di atti di ingerenza nella amministrazione -, in contraddittorio con le curatele dei due fallimenti e del creditore istante G. V. - unico convenuto costituitosi, resistendo all'opposizione -, fu respinta dal Tribunale, con sentenza del 1 luglio 1993.

Il gravame della A. - che riproponeva le sue prospettazioni, contrastando le conclusioni negative del primo giudice, sempre sulla resistenza del V. - è stato respinto dalla Corte di Appello di Bologna, con sentenza del 26 gennaio 1996 depositata col n. 238 il 17 febbraio succesivo (*).

Il giudice del gravame ha fondato la soluzione, negativa per l'appellante, delle prime due questioni, sul principio - espressamente desunto da Cass. 8924-1992 - in base al quale "la trasformazione di società non comporta l'estinzione di un soggetto e la creazione di un altro, ma una modificazione dell'atto costitutivo, della struttura e della forma, che conserva inalterata l'identità soggettiva dell'ente": ha, per tale via, ribadito la competenza del Tribunale di Bologna con riguardo alla sede originaria ed affermato che le obbligazioni gravanti sulla Litografia Ellebi S.a.s. avevano conservato la loro natura e le conseguenze che vi erano connesse, pur dopo la trasformazione in Società semplice V.C.F. Ha poi, relativamente al terzo mezzo, accertato, attraverso riscontri, partitamente esaminati, l'assoggettabilità al fallimento sia con riferimento alla società in accomandita, della quale i coniugi P. (accomandatario) e A. (accomandante) "erano soci senza alcuna reale differenziazione di ruoli, che solo formalmente mutavano nel tempo a seconda delle scelte del momento", sia con riguardo alla V.C.F., "comunque da ritenersi società commerciale, al di là del "nomen" adottato" e nella quale la appellante sicuramente "ha ricoperto il ruolo di socio illimitatamente responsabile".

Per la cassazione della sentenza ricorre la A., con quattro motivi, illustrati da memoria.

Nè le due Curatele intimate nè il creditore istante V. hanno svolto attività difensiva.

 

Motivi della decisione

Col primo motivo, la ricorrente denunzia violazione e falsa applicazione dell'art. 9 legge fall., negando la rilevanza, ai fini della determinazione della competenza, del momento del deposito del ricorso, e sostenendo quella del momento della dichiarazione di fallimento o, quanto meno, della convocazione in camera di consiglio del debitore, in vista della cd. istruttoria prefallimentare; osserva, in aggiunta, che, essendo intervenuto il trasferimento della sede - previa trasformazione della società - il 30 dicembre 1988, il deposito della "prima istanza nei confronti della Società V.C.F." (in data 19 settembre 1989) è stato comunque posteriore; e, finalmente, che, in applicazione dell'art. 2251 c.c., "lo spostamento di sede effettuato e formalizzato con atto notarile doveva considerarsi pienamente valido a tutti gli effetti e nei confronti di qualunque soggetto".

Deduce, attraverso il secondo mezzo, violazione e falsa applicazione degli artt. 2449 e 2082 c.c., rilevando, da un lato, che in caso di trasformazione va assoggettata a fallimento solo l'impresa derivante dalla vicenda modificativa, ed affermando, dall'altro, che il nuovo ente, essendo destinato a svolgere solo attività liquidatoria, non rivestiva la qualifica di imprenditore commerciale, necessaria per la dichiarazione di fallimento.

Con il terzo, collegato motivo, si duole del difetto di motivazione, rapportabile alle precedenti censure. In relazione alla prima, osserva che la sentenza impugnata "sostanzialmente nega la coincidenza tra sede legale e sede effettiva della V.C.F.", pure in assenza di circostanze univoche, idonee a superare la presunzione di coincidenza (richiamandosi a Cass. 3885-1996). In rapporto alla seconda, considera che l'affermazione della natura commerciale della nuova società non risulta corroborata da "alcun elemento che provi lo svolgimento da parte di questa di una attività che non sia di mera liquidazione delle posizioni facenti capo alla precedente società Ellebi S.a.s.".

Contesta, infine, la propria assoggettabilità al fallimento, quale socia accomandante, attraverso l'ultimo complesso motivo, col quale denunzia violazione e falsa applicazione degli artt. 147 legge fall. e 2320 c.c. Premette che erroneamente la corte territoriale ha affermato la responsabilità illimitata di lei sulla scorta di "elementi di rilievo davvero scarso ai fini della prova della supposta ingerenza della socia accomandante nella gestione della società", ed altrettanto erroneamente ha ritenuto di poterle estendere il fallimento, non trovando applicazione l'art. 147 nei confronti del socio accomandante. Dopo aver delineato le ipotesi di ingerenza nella gestione societaria alla stregua di precedenti giurisprudenziali e richiami dottrinali, esamina gli elementi valorizzati, nella prospettiva criticata, dal giudice "a quo": a) circa la costituzione di una fideiussione illimitata, nega rilievo agli aiuti del socio accomandante alla società, poiché gli stessi non configurano attività gestoria, essendo i soci accomandatari liberi di utilizzare nel modo più conveniente il finanziamento, laddove l'accomandante rimane in posizione non dissimile da quella di un terzo estraneo alla società; lamenta, d'altronde, non essersi il giudice "a quo" fatto carico della considerazione della "affectio coniugalis", che avrebbe dovuto comportare una maggiore cautela nella valutazione complessiva; ribadisce che a non diverse conclusioni si perverrebbe, sotto il profilo dell'art. 147 legge fall. cit.; b) quanto al contratto di affitto d'azienda, sostiene che la sottoscrizione di esso anche ad opera del socio accomandante non configura un atto di gestione, restando in realtà "pleonastica. ed irrilevante" rispetto all'operazione compiuta, tanto più che, avendo apposto la firma "in proprio", la ricorrente odierna avrebbe assunto un ruolo di mero "garante esterno"; c) contesta, infine, ogni partecipazione alle scelte aziendali, in particolare negando la rilevanza della sopravvenuta qualità di socia della V.C.F., al quale riguardo lamenta ulteriormente non essersi, nella sentenza impugnata, considerato che l'amministrazione della società semplice spettava al solo P., restandone - in forza dell'art. 23 dello statuto - la stessa A. esclusa, in deroga espressa all'art. 2267 c.c.

Il ricorso risulta infondato.

La disciplina della trasformazione delle società, positivamente fissata (artt. 2498-2500 c.c.) per i casi di passaggio da società di persone a società di capitali, è applicabile anche ai casi di mutamento inverso (trasformazione cd. regressiva), e, naturalmente, nell'ambito stesso dei due tipi di società (di capitali ovvero di persone); a qualche difficoltà va incontro la possibilità di trasformazione della società commerciale in società semplice, per la quale i soci della Litografia Ellebi S.a.s. sembrano aver seguito l'opinione che ritiene necessaria la modifica dell'oggetto sociale, nel senso della esclusione dell'esercizio di attività commerciale da parte della società trasformata. Su tali premesse, deve ribadirsi l'orientamento di questa Corte, secondo cui la trasformazione di una società non dà luogo ad un nuovo ente, ma integra mera mutazione formale di un'organizzazione (v., per tutte, Cass. 3638-1998), che sopravvive alla vicenda senza soluzione di continuità, anche nel caso di trasformazione di una società in accomandita semplice in società irregolare - così dovendosi qualificare, secondo i rilievi che seguono, una società "semplice" di tipo commerciale -, ferma restando l'identità e l'integrità dell'impresa commerciale da essa gestita (Cass. 2736-1995). Tutto ciò consente la soluzione dei primi tre profili di doglianza, in questa sede riproposti, con separate censure di violazione di legge e collegati vizi logici della motivazione.

Quanto alla competenza per la dichiarazione di fallimento, collegata al trasferimento della sede di poco successivo alla trasformazione, giova richiamare il costante indirizzo di questa Corte (fra le più recenti, Cass. 11055, 3652-1998), secondo cui, ai fini dell'applicazione dell'art. 9 legge fall., in caso di trasferimento della sede, la presunzione di coincidenza della sede effettiva con quella legale dell'ente va riferita alla sede precedente e non a quella successiva, tutte le volte in cui il trasferimento stesso risulti temporalmente vicino alla istanza di fallimento - e, quindi, ricompreso in epoca in cui debba considerarsi già manifestata o quanto meno imminente la crisi economica dell'impresa - in quanto, in tale evenienza, il mutamento del centro direttivo della società, carenti i presupposti naturali connessi all'evoluzione delle sue esigenze, si presenta sospetto, se non fittiziamente preordinato ad incidere proprio sulla competenza per territorio. A maggior ragione deve ritenersi del tutto ininfluente, sul piano della competenza, il trasferimento della sede sociale operato in epoca posteriore alla data di deposito dell'istanza di fallimento - equiparabile, sul piano degli effetti, alla proposizione della domanda giudiziale - che si pone come evento del tutto impeditivo rispetto alla (potenziale) rilevanza giuridica dei successivi mutamenti della situazione di fatto relativi all'impresa.

Ciò posto, nella decisione impugnata non risulta indicata la data del deposito del ricorso per conseguire il fallimento della società, beninteso nella forma e denominazione iniziale, mentre quella del trasferimento della sede della società dopo la trasformazione viene ricondotto ad un atto con sottoscrizioni autenticate del 30 dicembre 1988. Peraltro, dalla parte espositiva e con espresso riferimento alla sentenza di primo grado - che è stata integralmente confermata -, il momento determinante della competenza di cui all'art. 9 legge fall. viene rapportato al deposito del ricorso, con ulteriore precisazione della non opponibilità ai terzi sia della trasformazione che "del successivo trasferimento solo formale a Roma" (ivi, p. 4). Del resto, lo stesso andamento del primo motivo è nel senso - che, alla stregua della premessa, il collegio non può invece condividere - della rilevanza del momento della dichiarazione stessa o, quanto meno, della comparizione del fallendo all'udienza camerale, posizione espressamente confermata nella memoria illustrativa. È rimasta, invece, senza riscontro l'affermazione - che pur si legge in ricorso (p. 5 seg.) - circa l'anteriorità del ripetuto trasferimento rispetto al deposito della istanza, che viene datato al 19 settembre 1989, in contrasto tuttavia con la data cui, nella sentenza impugnata, si fa risalire la dichiarazione di fallimento della trasformata Litografia EIlebi S.a.s. (27 giugno 1989), la quale è invece anteriore alla dedotta presentazione del ricorso - relativo alla Società semplice V.C.F. -, con le evidenti implicazioni derivanti sia dalla unicità dell'ente sia dalla efficacia del trasferimento di sede.

Ne deriva l'infondatezza del primo motivo, con riguardo alla anteriorità - presupposta nella sentenza impugnata - del deposito dell'istanza di fallimento rispetto al trasferimento medesimo; mentre una eventuale anteriorità di quest'ultima vicenda - rispetto alla domanda di fallimento della società dopo la trasformazione - risulterebbe superata dalla già puntualizzata riferibilità della presunzione di coincidenza della sede effettiva con quella legale alla stessa società trasformata, il cui stato di crisi è confermato dalla sua dichiarazione di fallimento: il tutto, con assorbimento della questione circa l'opponibilità della vicenda societaria ai terzi, che il giudice "a quo" ha risolto negativamente, avuto riguardo al regime della pubblicità (art. 2300 c.c.) relativo alle società di persone (su cui, cfr. Cass. 2-1970).

La medesima impostazione non consente l'accoglimento del secondo motivo. La sentenza impugnata, con riguardo all'oggetto sociale dell'ente risultato dalla trasformazione - limitato alla "gestione della liquidazione delle attività e passività al fine di ottenerne il massimo ricavato" (patto 3 dello statuto) - ha affermato che anche la liquidazione dei debiti e dei crediti di un imprenditore collettivo è da considerare attività di carattere commerciale, la quale rende assoggettabile a fallimento l'ente: "infatti la liquidazione altro non è che una fase della vita della società commerciale destinata alla chiusura dei rapporti già iniziati nella esplicazione della impresa e necessariamente quindi l'attività della società creata a tale scopo (e a prescindere dalla legittimità o meno di tale operazione, aspetto questo che non è oggetto di gravame) partecipa di tale natura, che ne costituisce il presupposto" (sent., p. 6). Anche questa proposizione risulta immune da censure, sotto il profilo della violazione di legge. Deve infatti ribadirsi che lo svolgimento della (sola) attività liquidatoria non incide sull'identità e sull'integrità dell'impresa commerciale gestita dall'ente, poiché la cessazione dell'esercizio dell'impresa collettiva va riferita al compimento di quella stessa attività, con risoluzione dei requisiti soggettivi che sono alla base della società (Cass. 8924-1992), onde la mera mutazione formale è irrilevante ai fini proposti, non potendo incidere sulla qualità di imprenditore collettivo.

L'assenza di vizi, sotto il profilo della duplice dedotta violazione di legge, comporta il superamento del successivo motivo, attinente a corrispondenti - ed essi pure, quindi, insussistenti - vizi di motivazione.

Parimenti infondato è il quarto motivo.

Non è configurabile la denunziata violazione dell'art. 147 legge fall., sotto l'aspetto - talora valorizzato in dottrina - che l'accomandante, "secondo il codice civile, è un socio la cui responsabilità illimitata è solo accidentale ed eventuale, mentre l'art. 147 si riferisce solo ai casi in cui la responsabilità illimitata dei soci è connessa alla natura stessa della società" (ricorso, p. 11). L'opinione contrasta, in realtà, con il consolidato e risalente orientamento di questa Corte (Cass. 10431-1992, 6429-1984, 1632-1982, 3488-1969, 3094-1956, 158-1955), secondo il quale la disciplina sull'estensione del fallimento "si riferisce non soltanto ai soci illimitatamente responsabili per contratto sociale, ma anche a quegli altri soci che, pur essendo tenuti per contratto sociale a rispondere illimitatamente, abbiano assunto responsabilità illimitata e solidale verso i terzi in tutte le obbligazioni sociali, e pertanto il fallimento della società in accomandita semplice va esteso anche all'accomandante che si sia ingerito nell'amministrazione della società stessa" (Cass. 1632-1982 cit.). A tale orientamento il collegio non può non aderire, posto che, attraverso il meccanismo del cit. art. 147 (e, quindi, del successivo art. 148), può adeguatamente risolversi il problema pratico della realizzazione della responsabilità illimitata e solidale, stabilita nell'art. 2320 c.c., in sede fallimentare, dovendosi altrimenti "ipotizzare una macchinosa (e non prevista) azione di condanna contro l'accomandante ingeritosi, da parte del curatore, con successiva azione esecutiva su tutti i suoi beni", lasciando così sopravvivere un rapporto intersoggettivo tra fallimento della società e socio illimitatamente "pur essendo tale, non verrebbe responsabile, il quale, spogliato dell'amministrazione dei suoi beni, con evidenti difficoltà di procedura, aumento di costi e di conflitti contenziosi" (Cass. 1632-1982 cit.).

Nemmeno sussiste la lamentata violazione dell'art. 2320 c.c., avuto riguardo al criterio interpretativo enunciato, quale premessa maggiore, nella sentenza impugnata, secondo cui, "affinché vi sia ingerenza della accomandante nella amministrazione della società, è necessario il compimento di attività gestoria, implicante scelte proprie del titolare dell'impresa (cfr. Cass. 3563-1979), che possono attenere sia alla attività interna (gli "atti di amministrazione" di cui alla citata norma) sia all'attività esterna - si concretizzino o meno gli stessi in negozi giuridici -, ma che è necessario concernano sempre il momento genetico e decisionale di detta attività - che attiene alle scelte che la legge riserva all'accomandatario - e non quello meramente esecutivo" (ivi, p. 7 seg.). Il criterio, consentaneo all'orientamento giurisprudenziale consolidato (v., per tutte, più di recente, Cass. 4019-1994, secondo cui risultano compresi nel cd. divieto d'immistione "sia gli atti di gestione interna, sia quelli che hanno riflessi esterni a meno che non rinvengano la fonte della propria legittimità in apposita procura") non viene, in realtà, criticato dalla ricorrente, la quale, dopo avere essa stessa posto l'accento sulla rilevanza del potere e-o dell'attività decisionale ad opera dell'accomandante, finisce per contestare alcuni elementi, singolarmente considerati dal giudice "a quo", sostanzialmente incentrando la propria critica alla sentenza della corte di merito sul concorrente vizio di motivazione.

In tale critica, tuttavia, ispirata - come già si legge nella decisione impugnata - ad una "visione atomistica" di singoli atti o negozi, tralasciando la considerazione dell'intero contesto, a suo tempo valutato in primo grado (ivi, p. 8), totalmente si prescinde dalla premessa di ordine generale, puntualizzata dal medesimo giudice del gravame, col ricordare "in primo luogo, come già la sentenza dichiarativa di fallimento sottolineasse che l'A. era socio amministratore in altra società di persone, avente la medesima sede e la stessa attività della Ellebi - la Fotoincisa du (*) P. M. T. e C. s.n.c., della quale il V. fu dipendente prima di passare alla Ellebi -, di cui era socia anche tal M. T. P., che insieme alla odierna appellante aveva fornito le garanzie fideiussorie di cui si è detto; inoltre la stessa A. era stata anche socia della società in nome collettivo che si era poi trasformata nella società in accomandita semplice (e quindi socio illimitatamente responsabile della medesima compagine sociale oggetto delle successive trasformazioni) per poi chiudere come socio della società semplice V.C.F., di fatto anche in tale società senza limite alcuno di responsabilità, posto che nessuna pubblicità risulta essere stata data al patto di limitazione. Quindi già da tale intreccio di trasformazioni di società, di fatto rimaste immutate, e compagini sociali tra loro solo formalmente diverse può desumersi in via logica che di fatto i coniugi P. - A. abbiano sempre e pariteticamente gestito le attività economiche che a loro facevano capo e le relative società, di cui erano soci senza alcuna reale differenziazione di ruoli, che solo formalmente mutavano nel tempo a seconda delle convenienze del momento" (ivi, p. 8 seg.). In questo complessivo contesto che in sentenza si afferma, in punto di fatto, pacifico e che, in realtà, appare nella presente sede totalmente ignorato, il giudice "a quo" ha valutato gli elementi via via emersi, per affermare la violazione del ripetuto divieto di immistione: e risulta certo immune da vizi logici l'affermazione di rilevanza delle fideiussioni rilasciate (in maniera che nello stesso ricorso viene detta "illimitata"), "determinandosi così una sostanziale corresponsabilità" della socia accomandante, nonché della sottoscrizione del contratto di affitto d'azienda ad opera della socia medesima (la cui affermata veste di garante il giudice "a quo" fa espressamente coincidere con la qualità di gestrice dell'azienda). Nel medesimo contesto, finalmente, mentre non acquista rilievo il richiamo della ricorrente alla "affectio coniugalis", proprio perché si versa in ipotesi di società formalmente costituite, su una espressa "affectio societatis", il riferimento conclusivo alla posizione della A. nella V.C.F., quale società da ritenersi commerciale al di là del "nomen" adottato, e nella quale la suddetta ha ricoperto il ruolo di socio illimitatamente responsabile, non appare idoneamente contrastato con l'insistere sul patto di limitazione della responsabilità, ritenuto invece - ancora una volta, senza contestazione specifica - sfornito di operatività verso i terzi, dal giudice "a quo", per difetto della pubblicità richiesta dall'art. 2267 c.c.

II ricorso va, dunque, rigettato.

Stante la mancata costituzione degli intimati, nessuna statuizione va resa in ordine alle spese.

 

p.q.m.

Rigetta il ricorso.

Così deciso in Rema, il 4 dicembre 1998.

Sentenza n. 4270 del 28/04/1999