Crisi d'Impresa e Insolvenza


Il Caso.it, Sez. Giurisprudenza, 23971 - pubb. 11/01/2020

Ai fini della dichiarazione di fallimento, lo stato di insolvenza deve essere valutato secondo dati oggettivi

Cassazione civile, sez. I, 13 Agosto 2004, n. 15769. Pres. Olla. Est. Di Amato.


Fallimento - Stato di insolvenza - Oggettiva sussistenza dello stato di insolvenza - Sufficienza ai fini della dichiarazione di fallimento - Interruzione brutale del credito bancario - Rilevanza - Esclusione - Limiti



Ai fini della dichiarazione di fallimento, lo stato di insolvenza deve essere valutato secondo dati oggettivi, prescindendo da qualsiasi indagine in ordine alle relative causa; pertanto, l'interruzione brutale del credito bancari, se anche può essere causa di risarcimento del danno ove in concreto assuma connotati del tutto imprevisti ed arbitrari, non consente, tuttavia, di ritenere insussistente lo stato di insolvenza se da tale condotta, ancorché illegittima, sia derivato uno stato di impotenza economica dell'imprenditore, mentre a diversa conclusione potrebbe giungersi soltanto nel caso in cui l'imprenditore fosse inadempiente esclusivamente nei confronti degli istituti che avessero illegittimamente esercitato il recesso dal rapporto di apertura di credito. (massima ufficiale)


Massimario Ragionato



 


Fatto

Il Tribunale di Lamezia Terme, con sentenza dell'8 luglio 1997, dichiarava il fallimento di G.V., su istanza della Banca Nazionale del Lavoro, del Banco di Napoli e della Cassa di Risparmio di Calabria e Lucania. Il G.V. proponeva opposizione, deducendo la mancanza sia della qualità di imprenditore commerciale sia dello stato di insolvenza. I creditori istanti ed il curatore del fallimento si costituivano contestando la fondatezza dell'opposizione. Il Tribunale, con sentenza del 5 luglio 1999, rigettava l'opposizione.

G.V. proponeva appello che la Corte di Catanzaro rigettava, con sentenza del 4 luglio 2000, osservando, per quanto qui ancora interessa, che:

1) il G.V. rivestiva la qualità di imprenditore commerciale sia in relazione ad una attività di agente di assicurazione sia in relazione ad una attività di compravendita di opere d'arte; 2) quanto alla prima attività, il carattere di impresa commerciale si poteva desumere da un portafoglio clienti di circa lire 380.000.000, dalla utilizzazione di una sede di circa 120 mq., dalla assunzione nel 1996 di una dipendente, da ricavi per provvigioni di lire 50.632.000 nell'anno 1995 e di lire 46.713.200 nell'anno 1996 e dal fatto che nella veste di agente di assicurazioni il G.V. aveva chiesto ed ottenuto credito da alcune banche; in ogni caso, l'attività in questione doveva essere valutata nel complesso delle attività svolte dal G.V.; 3) in particolare, quanto alla attività di commercio di opere d'arte, la qualità di imprenditore commerciale, dichiarata dallo stesso interessato in alcuni atti giudiziari, era stata assunta dal G.V., pure in assenza di vendite documentate, con l'acquisto di almeno 167 opere d'arte effettuato, anche avvalendosi di finanziamenti, allo scopo di rivenderle, come lo stesso G.V. aveva espressamente dichiarato e come era dimostrato dallo svolgimento di attività di promozione di un artista e delle sue opere (esposizione in mostre, invio di opere a critici ed a giornalisti specializzati). Altri elementi significativi potevano trarsi da una richiesta di proroga di credito, inoltrata alla C. in data 11 gennaio 1995 e giustificata dallo svolgimento di una attività di finanziamento di mostre internazionali; da una lettera del 30 giugno 1995 con cui il G.V. giustificava il mancato ripianamento dell'esposizione debitoria con lo slittamento di una vendita; dalla modifica nel 1994 della partita IVA con la menzione, in aggiunta alle precedenti, anche dall'attività di "commercio all'ingrosso di opere d'arte e quadri". Tutti tali elementi consentivano di affermare che era già iniziata l'attività commerciale e che il G.V. aveva completato l'organizzazione dell'impresa nei suoi elementi strutturali e funzionali; 4) quanto alla sussistenza dello stato di insolvenza, lo stesso non si poteva escludere né in relazione alla pretesa illegittimità del recesso dagli affidamenti, che gli istituti di credito, secondo il ricorrente, avevano deciso senza motivo, né in relazione alle contestazioni sull'ammontare dei debiti. Il G.V., infatti, come risultava dalle lettere inviate alle banche aveva ammesso, anche dopo le opposizioni ai decreti ingiuntivi chiesti ed ottenuti dagli istituti di credito, una esposizione verso gli stessi di dieci miliardi di lire, parzialmente ma significativamente confermata con lo stesso atto d'appello con cui ammetteva un debito di almeno cinque miliardi. Pertanto, il recesso delle banche si poteva considerare come effetto e non come causa dello stato di insolvenza e, comunque, non immotivato poiché, da un lato, l'ingente esposizione del G.V. si protraeva da diversi anni, interessando almeno cinque primari istituti di credito e, d'altro canto, negli ultimi anni le movimentazioni del conto si erano ridotte, anche in relazione alla cessazione di una precedente attività di collettore delle imposte per alcuni comuni. Né si poteva pensare che le banche, conoscendo lo scopo perseguito dall'appellante con i fidi a lui accordati, non avrebbero potuto richiedere il rientro senza prima attendere l'esito dell'investimento, atteso che altrimenti il rischio d'impresa sarebbe stato trasferito sugli istituti bancari; 5) quanto alla consistenza del patrimonio del G.V., gli immobili, sui quali gravavano ipoteche giudiziali per tre miliardi di lire, avevano un valore complessivo, dichiarato dal debitore, di lire 700.000.000= mentre i beni mobili, consistenti in opere d'arte di notevole valore, non erano facilmente liquidabili, con la consegnante impotenza del G.V. a fare fronte al normale pagamento dei debiti; 6) l'insolvenza non si poteva escludere neppure in relazione ai versamenti ed alle movimentazioni sui conti correnti intrattenuti dal G.V. sia perché i pregressi versamenti erano inidonei a provare una liquidità o, comunque, una capacità economica attuale, sia perché i versamenti non avevano ripianato neppure in minima parte l'esposizione debitoria del G.V., sia perché, infine, i movimenti si erano ridotti drasticamente negli anni, in corrispondenza della cessazione dell'attività di collettore già svolta dal G.V.; infine, l'assunto di potere fare fronte alle esposizioni debitorie, se depurate dagli interessi illegittimamente richiesti (capitalizzazione trimestrale con superamento della soglia d'usura), andava disatteso sia per la genericità della deduzione, con cui neppure erano stati precisati gli importi illegittimamente pretesi, sia perché contraddetto dalle lettere con le quali il G.V. aveva riconosciuto il suo debito, sia perché, da un lato l'art. 25 del d.l.vo 4 agosto 1999, n. 342, aveva dettato una disciplina transitoria che faceva salve le clausole relative alla produzione di interessi anatocistici e, d'altro canto, la legge n. 108 del 1996, in tema di usura, doveva ritenersi inapplicabile alla fattispecie poiché i crediti delle banche erano maturati prima della sua entrata in vigore.

Avverso detta sentenza G.V. propone ricorso per cassazione, deducendo otto motivi. Il curatore del fallimento, la s.p.a. Intesa Gestioni Crediti, cessionaria del credito sul quale la C. aveva fondato l'istanza di fallimento, e la s.p.a. Banca Nazionale del Lavoro resistono con controricorso. La s.p.a. Banco di Napoli, la s.p.a. Banca C. - Gruppo Intesa, che la Corte di appello ha estromesso dal giudizio in quanto, pur essendole stato conferito un ramo d'azienda della C. non era succeduta nel rapporto controverso, e la s.p.a. CARIPLO, che ha incorporato la C., tutte ritualmente intimate, non hanno svolto attività difensiva. Il ricorrente e la controricorrente Banca Nazionale del Lavoro hanno presentato memoria ex art. 378 c.p.c..

 

Diritto

1. Con il primo motivo il ricorrente dichiara di mantenere ferma la "convocazione in giudizio della C., tenuto conto delle poco chiare vicende negoziali intervenute nel tempo e di una distribuzione di ruoli che parrebbe non del tutto conforme alla semplificazione effettuata dalla Corte di merito".

Il motivo è inammissibile per genericità poiché neppure prende in considerazione le ragioni poste a base dell'estromissione dal giudizio della C., limitandosi a dedurre una scarsa chiarezza della situazione.

2. Con il secondo motivo il ricorrente deduce violazione degli artt. 1 e 5 della l. fall. nonché il vizio di motivazione, lamentando che la Corte di merito aveva erroneamente qualificato l'attività di agente di assicurazione come attività d'impresa, senza tenere adeguatamente conto delle concrete modalità di svolgimento dell'attività ed attribuendo apoditticamente significato all'esistenza di un portafoglio clienti di appena lire 380.000.000 ed alla assunzione di una dipendente, senza considerare le agevolazione delle quali il G.V. si era avvalso per rendere compatibile tale onere con il reddito ricavato.

Con il terzo motivo il ricorrente deduce la violazione degli artt. 1 l. fall. e 2082 cod. civ. nonché il vizio di motivazione, lamentando che erroneamente gli era stata attribuita l'ulteriore qualifica di imprenditore in relazione ad una attività di mercante d'arte, atteso che nella specie erano mancate le iniziative necessarie per lo svolgimento di una attività commerciale; in particolare, il ricorrente non aveva venduto neppure una delle opere acquistate e non aveva avuto, per realizzare tale attività, nessuna organizzazione, nessuna immobilizzazione tecnica e nessuna attrezzatura. Né la prova dello svolgimento di una attività d'impresa poteva desumersi dalla pretesa attività di organizzazione di mostre e di promozione degli autori atteso che tale attività non era rimasta provata e, comunque, avrebbe avuto carattere meramente preparatorio. Quanto all'affermazione della Corte che riteneva provata almeno una vendita, il ricorrente afferma che la lettera indirizzata alla C. in data 30 giugno 1995, con la quale si prospettava lo slittamento di una vendita, aveva il solo scopo di preparare una successiva proposta di ripianamento del debito e, comunque, non provava affatto che una vendita fosse stata realizzata.

I suddetti motivi, che attengono alla sussistenza del presupposto soggettivo della dichiarazione di fallimento, devono essere esaminati dando la precedenza al terzo motivo, con cui si contesta lo svolgimento di una attività di mercante d'opera d'arte, e ciò sia perché il tema ha assorbito le maggiori energie processuali sia per ragioni di economia processuale poiché la questione è, comunque, rilevante nell'esame dei successivi motivi. Si deve anche premettere che l'accertamento dei requisiti necessari per potere qualificare un soggetto come imprenditore commerciale spetta al giudice di merito, il cui apprezzamento è incensurabile in sede di legittimità, se sorretto da motivazione congrua, immune da vizi logici e giuridici (Cass. 24 febbraio 1995, n. 2107). Ciò premesso, il terzo motivo è infondato nella parte in cui deduce violazioni di legge ed è inammissibile nella parte in cui, censurando la motivazione, chiede nella sostanza una rivalutazione del merito.

Quanto al momento in cui si acquista la qualità di imprenditore, l'art. 2082 cod. civ. attribuisce decisivo rilievo all'effettivo esercizio di una attività d'impresa. L'adesione al principio di effettività, tuttavia, consente di per sé soltanto di escludere che si abbia esercizio di attività di impresa in relazione a mere intenzioni ovvero in relazione all'assolvimento di meri adempimenti formali (Cass. 9 dicembre 1976, n. 4577), mentre lascia intatta la questione di stabilire quando si ha l'effettivo inizio dell'attività d'impresa. A questo fine il dato dell'organizzazione, come ha bene messo in evidenza autorevole dottrina, gioca un ruolo fondamentale poiché in presenza di un "esteriore apparato aziendale" la qualità di imprenditore commerciale si acquista anche con il compimento di un singolo atto riconducibile a quella organizzazione ("atto dell'organizzazione") ed anzi si discute se la stessa attività di organizzazione possa assumere i connotati dell'attività di impresa (in senso affermativo v. Cass. 6 maggio 1980, n. 2996 e Cass. 18 dicembre 1994, n. 10728, entrambe in tema di concorrenza sleale); quando, invece, manca un siffatto apparato, perché l'attività viene svolta con mezzi anche rudimentali, sufficienti comunque ad integrare il requisito dell'organizzazione (Cass. 29 gennaio 1973, n. 467; Cass. 16 settembre 1983, n. 5589), soltanto la reiterazione di atti, oggettivamente suscettibili di essere qualificati come atti d'impresa, rende manifesto che non si tratta di operazioni isolate, ma di attività professionalmente esercitata.

Questi principi sono stati osservati dalla Corte di Catanzaro che, come riferito in narrativa, da un lato, per l'esistenza di una attività d'impresa, ha ritenuto sufficiente una rudimentale e limitata organizzazione incentrata in una persona e sorretta anche solo da scarsi mezzi materiali e personali e, d'altro canto, ha ritenuto che una siffatta minima organizzazione esisteva nella fattispecie, considerato che "la continuità delle compravendite e l'elevato numero di opere acquisite ha necessariamente comportato una certa organizzazione per il trasporto e la conservazione dei dipinti, nonché per l'organizzazione di mostre e anche per l'invio (in visione) a critici ed esperti" senza che fosse necessaria alcuna ulteriore particolare attrezzatura.

Il dato dell'organizzazione, che nell'accertamento della Corte di merito assume gli estremi di un apparato aziendale esistente ma non percepibile all'esterno, viene quindi esattamente integrato con l'accertamento di una pluralità di atti di acquisto (che hanno condotto il G.V. ad acquisire oltre centosessantacinque opere di importanti pittori) compiuti al dichiarato scopo di una successiva vendita, in un contesto di accesso al credito per rilevanti importi. Tali acquisti, unitamente all'attività di promozione degli autori delle opere, svolta al fine di accrescerne il valore, sono stati ritenuti atti di una esistente, anche se limitata, organizzazione d'impresa. In proposito, si deve ricordare che questa Corte, con un risalente ma mai contraddetto precedente, ha già affermato il principio che atti d'impresa possono aversi anche prima che si siano instaurati rapporti con i terzi destinatari del prodotto dell'impresa, allorché siano stati posti in essere atti economici preparatori che permettano, come nella specie, di individuare l'oggetto dell'attività ed il suo carattere commerciale (Cass. 10 settembre 1974, n. 2460). Questo principio deve essere confermato e la Corte territoriale ne ha fatto corretta applicazione.

Alla infondatezza della denunziata violazione di legge si accompagna l'inammissibilità del motivo nella parte in cui denunzia il vizio di motivazione in relazione alla attribuzione della natura di atti di esercizio dell'impresa ai menzionati acquisti di opere d'arte ed attività promozionali. In proposito, la Corte di merito, con motivazione congrua, ha affermato che gli atti di acquisto erano atti d'impresa in quanto accompagnati da una volontà di rivendere, che non solo era stata espressamente dichiarata dal G.V., che aveva anche esteso la propria partita IVA allo svolgimento di tale attività, ma era provata da circostanze obiettive quali una attività di promozione degli autori, diretta a valorizzarne le opere e consistita nell'organizzazione di mostre e nell'invio di quadri, a giornalisti ed esperti del settore. In particolare, lo svolgimento di quest'ultima attività è stato congruamente ritenuto dalla Corte di merito sulla base delle dichiarazioni dello stesso G.V. e di tale Antonio Colloca, critico d'arte e direttore d'una galleria d'arte a Chianciano. Di tali elementi di prova il ricorrente chiede una nuova valutazione non consentita in questa sede.

L'individuazione di una pluralità di sistematici atti d'impresa anteriori all'inizio delle vendite assorbe ogni rilievo in ordine alla inammissibilità della censura nella parte in cui chiede una nuova valutazione degli elementi sulla cui base la Corte di merito ha ritenuto sussistente almeno un atto di vendita. Egualmente assorbito, per la sufficienza, ai fini del requisito soggettivo del fallimento, dello svolgimento anche di una sola attività d'impresa, resta il secondo motivo relativo, come riferito, alla attribuzione della qualità di imprenditore sulla base dello svolgimento di una parallela attività di agente di assicurazioni.

3. Con il quarto motivo il ricorrente lamenta la violazione dell'art. 5 l. fall. ed il vizio di motivazione in relazione al mancato approfondimento di alcuni punti quali: l'esistenza di aperture di credito per circa 10 miliardi di lire, revocate senza che vi fosse stato un mutamento della situazione economica e patrimoniale; il versamento in pochi anni di oltre 20 miliardi di lire, a fronte del quale la Corte aveva immotivatamente affermato che l'esposizione non si era ridotta; la contestazione della legittimità della revoca dei fidi e la contestazione dell'ammontare dei crediti vantati dalle banche; il valore del patrimonio del G.V.; la liquidità disponibile, ricondotta immotivatamente all'attività di collettore delle imposte.

Con il quinto motivo il ricorrente deduce la violazione dell'art. 1845 cod. civ. ed il vizio di motivazione, in relazione alla ingiustificata revoca dei fidi, lamentando che la Corte di merito aveva Illogicamente affermato che l'insolvenza era anteriore ai recessi, mentre risultava dagli atti che alcune banche, messe in allarme da un equivoco insorto nel rapporto con la C. circa la scadenza di una rata di pagamento concordata con il G.V., avevano chiesto ed ottenuto decreti ingiuntivi, iscrivendo ipoteca giudiziale e determinando altre banche a presentare istanza di fallimento per evitare il consolidamento delle garanzie acquisite dalle prime. Il fallimento, pertanto, era conseguito ad un comportamento imprevisto ed arbitrario degli istituti di credito, che, conoscendo lo scopo perseguito dal ricorrente con i fidi a lui accordati, non avevano, contrariamente a quanto affermato dalla Corte di appello, il diritto di procedere al recesso senza aspettare l'esito dell'investimento cui gli affidamenti erano preordinati.

Il quarto ed il quinto motivo devono essere esaminati congiuntamente, in quanto strettamente connessi, e sono infondati. Nella giurisprudenza di questa Corte è consolidato il principio secondo cui, ai fini della dichiarazione di fallimento, lo stato di insolvenza deve essere valutato secondo dati oggettivi, prescindendo da qualsiasi Indagine in ordine alle relative cause (v. ex multis Cass. 19 novembre 1992, n. 12383, in tema di inadempimento di un pactum de non petendo, da parte di creditori del ceto bancario; Cass. 20 giugno 2000, n. 8374). Pertanto, l'interruzione brutale del credito, se anche può essere causa di risarcimento del danno "ove in concreto assuma connotati del tutto imprevisti ed arbitrari" (Cass. 21 maggio 1997, n. 4538; Cass. 14 luglio 2000, n. 9321), non consente, tuttavia, di ritenere insussistente lo stato di insolvenza se da tale condotta, ancorché illegittima, sia derivato uno stato di impotenza economica dell'imprenditore. La conclusione potrebbe essere diversa soltanto nel caso in cui l'imprenditore fosse inadempiente esclusivamente nei confronti della banca o delle banche che avessero illegittimamente esercitato il recesso dal rapporto di apertura di credito. In proposito, tuttavia, il ricorrente non ha dedotto alcunché. Ciò assorbe ogni ulteriore considerazione sul fatto che nella stessa prospettazione del ricorrente, dopo una generica affermazione dell'illegittimità del recesso di tutti gli istituti di credito, si precisa come dopo un disguido con una banca si sia innestata una reazione a catena che ha indotto al recesso, in successione, tutti gli istituti di credito; il che naturalmente contraddice la generica deduzione da cui muove la censura, che non potrebbe trovare adeguato fondamento neppure in un preteso obbligo delle singole banche di attendere l'esito dell'affare in vista del quale era stato concesso il credito; infatti, un tale obbligo della banca, se non è oggetto di una specifica pattuizione, non discende necessariamente dal principio secondo cui il contratto deve essere eseguito secondo buona fede (art. 1375 cod. civ.), tanto più se la condotta, ancorché in ipotesi illegittima, di altri istituti di credito ha modificato il credito del quale gode l'imprenditore.

Il necessario riferimento alla situazione determinatasi dopo il recesso delle banche dai rapporti di apertura di credito assorbe ogni altra considerazione anche in ordine alla pretesa assenza di modificazioni della situazione patrimoniale che aveva consentito in passato la concessione di un rilevante credito ovvero in ordine alla pretesa precedente disponibilità di una elevata liquidità, che, comunque, non aveva determinato l'estinzione delle passività.

4. Con il sesto motivo il ricorrente deduce la violazione dell'art. 5 l. fall. ed il vizio di motivazione in relazione alla valutazione del patrimonio del fallito, lamentando che l'assenza di un mercato per le opere d'arte possedute dal G.V. era stata affermata illogicamente perché le opere, alle quali era stato riconosciuto grande pregio, non erano accora state messe in vendita.

Il motivo è infondato. La Corte di merito, infatti, pur avendo riconosciuto il pregio delle opere acquisite dal G.V. e pur avendo ammesso in ipotesi il loro notevole valore, ha esattamente affermato che soltanto la loro agevole liquidazione avrebbe consentito di affermare che il G.V. era in condizioni di fare fronte al normale pagamento dei debiti. Muovendo da tale presupposto, conforme ai principi affermati da questa Corte in tema di rapporti tra patrimonio ed insolvenza, la Corte territoriale, con una valutazione di merito, sorretta da motivazione immune da vizi logici e giuridici e quindi non censurabile in questa sede, ha dedotto la non agevole liquidabilità sia dalla natura dei beni sia dal fatto che il G.V. non solo non aveva venduto (o non era riuscito a vendere) le opere in suo possesso, neppure quando era pressato dagli istituti bancari che avevano dato corso ad azioni giudiziarie, ma non era riuscito neanche a farli accettare in garanzia dalle banche. Sulla base di tali indizi, indipendentemente dalla esistenza o meno di un mercato delle opere possedute dal G.V., la Corte di merito ha motivato del tutto logicamente la non facile convertibilità in danaro dei beni in questione.

5. Con il settimo motivo il ricorrente deduce la violazione dell'art. 1845 cod. civ. ed il vizio di motivazione, lamentando che la Corte di merito aveva sottovalutato gli elementi (modestia dell'attività di agente di assicurazione contrapposta alla rilevanza degli affidamenti) dai quali, poteva desumersi la conoscenza da parte delle banche dello scopo degli affidamenti.

Il motivo è infondato. La sentenza impugnata non ha affatto escluso la conoscenza da parte delle banche dello scopo degli affidamenti chiesti dal G.V., ma ha ritenuto, esattamente, come si è visto nell'esame del quinto motivo, che non sussisteva un obbligo delle banche di attendere l'esito dell'affare per il quale gli affidamenti erano stati concessi.

6. Con l'ottavo motivo il ricorrente deduce la violazione dell'art. 5 l. fall. ed il vizio di motivazione, lamentando che la sussistenza dell'insolvenza era stata affermata senza tenere conto delle contestazioni dei crediti delle banche formulate nei giudizi di opposizione ai decreti ingiuntivi; in proposito, secondo il ricorrente, non poteva trascurarsi che alcune di queste contestazioni avevano già trovato conferma in sede di verificazione del passivo, considerato che il giudice delegato aveva ridimensionato notevolmente le pretese delle banche; inoltre, le contestazioni del ricorrente erano ancor più giustificate alla luce dei principi affermati dal legislatore in tema di trasparenza (legge n. 153 del 1992) e in tema di limite degli interessi (legge n. 108 del 1996) nonché dalla giurisprudenza in tema di anatocismo.

Il motivo è inammissibile per genericità. Le contestazioni delle pretese dei creditori possono avere rilievo nel giudizio di opposizione alla dichiarazione di fallimento soltanto se sono specifiche e valgono a ricondurre i debiti dell'imprenditore in limiti compatibili con la sua capacità di soddisfare regolarmente le proprie obbligazioni. Nella specie, invece, il ricorrente contesta genericamente l'ammontare delle pretese degli istituti di credito senza alcun confronto con la propria capacità di adempiere.

Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come in dispositivo.

 

P.Q.M.

rigetta il ricorso; condanna il ricorrente al rimborso delle spese di giudizio liquidate, in favore della s.p.a. Banca Nazionale del Lavoro e della s.p.a. Intesa Gestione Crediti, per ciascuna in euro 5.000,00 per onorari e in euro 100,00 per esborsi, oltre spese generali. IVA e CP e, in favore del fallimento di Giovambattista Ventura, in euro 4.000,00 per onorari e in euro 100,00 per esborsi, oltre spese generali, IVA e CP.

Così deciso in Roma nella camera di consiglio del 4 febbraio 2004.

Depositata in cancelleria il 13 agosto 2004.