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Il Caso.it, Sez. Giurisprudenza, 2267 - pubb. 28/06/2010.

Opposizione allo stato passivo: domande nuove e riconvenzionali


Cassazione civile, 22 Marzo 2010. Est. Ceccherini.

Fallimento – Opposizione allo stato passivo – Natura impugnatoria – Configurabilità – Conseguenze – Domande nuove – Ammissibilità – Esclusione – Domande riconvenzionali – Ammissibilità – Esclusione – Fondamento. (29/06/2010)


L'art. 99 della legge fall., nel testo novellato dapprima dal d.lgs. n. 5 del 2006, e successivamente dal d.lgs. n. 169 del 2007, configurando il giudizio di opposizione allo stato passivo in senso inequivocabilmente impugnatorio, esclude l'ammissibilità di domande nuove, non proposte nel grado precedente, quali le domande riconvenzionali, non essendo tali domande previste dal comma quinto di tale disposizione, il quale contiene la precisa indicazione del contenuto della memoria difensiva del curatore fallimentare e specificamente delle difese che in quella sede devono essere svolte a pena di decadenza, comprensiva delle eccezioni e delle prove, mentre non fa menzione di eventuali domande riconvenzionali. (fonte CED – Corte di Cassazione)

omissis

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
La T. G. s.r.l. aveva proposto al Comune di M. di realizzare sul suo territorio, attraverso un programma integrato d’intervento una struttura polifunzionale comprensiva di una struttura cinematografica multisala. Dovendo a tal fine modificare il piano regolatore generale, il Comune sottoscrisse un accordo di programma D.Lgs. n. 267 del 2000, ex art. 34 con la Regione Lombardia, comprendente la realizzazione di un nuovo tratto della strada provinciale (variante SP 131). Successivamente lo stesso Comune sottoscrisse un’apposita convenzione con la societa’ per regolare l’esecuzione degli obblighi discendenti dal predetto accordo di programma, subordinata espressamente alla realizzazione della nuova strada provinciale per il tratto di accesso all’insediamento previsto, nonche’ all’ultimazione di una strada intercomunale M. - N., in fase di realizzazione, che costituiva l’unica possibilita’ di accesso al Comune di M. della nuova struttura. Dopo che il progetto relativo alla strada provinciale fu approvato dalla Provincia di Milano e dai comuni interessati, con le modifiche richieste dal Comune di L. (variante B2) e con i relativi costi aggiuntivi, il Comune di M., in attesa della realizzazione della nuova strada provinciale, e per assicurare il temporaneo accesso alla struttura, chiese al Comune di N. l’autorizzazione per far accedere i mezzi al cantiere attraverso la via * nel territorio dello stesso Comune di N.. L’autorizzazione fu concessa da questo subordinatamente ad una serie di condizioni, precisate con due Delib. 15 dicembre 2004, nn. 73 e 74, implicanti a carico della societa’ diverse obbligazioni, di realizzazione di opere viarie e di pagamento di somme. Le due deliberazioni erano accompagnate da schemi di convenzione: di esse, la prima, n. 73, fu spontaneamente eseguita dalla societa’, che vi aveva interesse, mentre la seconda, sottoscritta dal solo rappresentante legale della societa’, rimase ineseguita, e il Comune decise di chiudere l’accesso alla struttura multisala attraverso la via *, con un provvedimento che fu impugnato in sede amministrativa. Successivamente, dichiarato il fallimento della T. G. s.r.l., con ricorso al Tribunale di Monza in data 12 luglio 2007, il Comune di N. propose opposizione allo stato passivo del fallimento medesimo, con il quale era stata decretata la parziale esclusione dei crediti vantati dall’opponente nei confronti della societa’ fallita. In particolare, era stato escluso il credito di Euro 1.367.168,81, oltre agli accessori, fondato sulla Delib. comunale 15 dicembre 2004, n. 74. La curatela del fallimento si costitui’, resistendo alla domanda e proponendo domanda riconvenzionale di pagamento di Euro 380.000,00, in relazione all’esecuzione di opere di viabilita’ e pubblica illuminazione realizzate dalla societa’ in bonis sul territorio comunale, allegando l’inadempimento da parte del Comune di specifici accordi per la chiusura illegittima della via di accesso alla multisala di sua proprieta’. Con decreto depositato il 2 gennaio 2008, il Tribunale ha respinto l’opposizione del Comune, avendo accertato che la convenzione allegata alla Delib. n. 74 del 2004, sulla quale si fondava la pretesa dell’ente, non sottoscritta dall’ente medesimo, doveva qualificarsi alla stregua di mera puntuazione dell’accordo che doveva seguire, e che la domanda non poteva essere accolta neppure sotto il profilo del danno derivato da una supposta responsabilita’ precontrattuale, danno che sarebbe consistito, secondo la prospettazione dell’ente stesso, soltanto nella lesione dell’interesse positivo all’esecuzione del contratto non concluso, e nella necessita’ di sostenere delle spese per lavori sostitutivi di quelli non eseguiti dalla societa’; e ha posto le spese del giudizio a carico della parte soccombente. Per la cassazione del decreto ricorre il Comune di N. con atto notificato il 4 febbraio 2008 (reg. gen. n. 3771/08), per cinque motivi. Ad esso il fallimento resiste con controricorso e ricorso incidentale, e con memoria. Lo stesso fallimento ha proposto separato ricorso con atto notificato in data 5 febbraio 2008 (reg. gen. n. 3570/08), per due motivi, illustrati anche con memoria. Ad esso il Comune di N. resiste con controricorso.

MOTIVI DELLA DECISIONE
All’udienza collegiale i tre ricorsi, proposti contro il medesimo decreto, sono stati riuniti a norma dell’art. 335 c.p.c.. Il ricorso del Comune di N., portante il 3771/08, siccome notificato un giorno prima del ricorso del fallimento T. G., portante il numero di registro generale 3570/08, deve qualificarsi come principale. Con il primo motivo del ricorso del Comune di N. si censura il decreto impugnato per violazione degli artt. 1321 e 1337 c.c. e per vizi di motivazione. Il Tribunale non avrebbe tratto le conseguenze dell’accertata sottoscrizione dello schema di convenzione da parte del legale rappresentante della societa’, non avendo considerato che la corrispondenza successivamente intercorsa tra le parti verteva sull’aspetto formale, della consacrazione in forma solenne della convenzione, ma non sul contenuto degli obblighi assunti dalla societa’; e non avendo neppure tenuto conto del fatto che il deposito del documento in giudizio comportava in ogni caso il perfezionamento del contratto, e che il contratto medesimo aveva avuto un inizio di esecuzione. Il mezzo si conclude con il quesito di diritto, se un contratto tra il privato e la pubblica amministrazione possa ritenersi perfezionato o produttivo di effetti giuridici in forza dell’incontro della volonta’ del privato e dell’approvazione degli organi competenti, o comunque a seguito della concreta esecuzione da parte del privato delle opere previste dalla convenzione. Il quesito, multiplo e di contenuto eterogeneo, che, mentre lascia cadere alcune censure svolte con l’esposizione del motivo (produzione del contratto in giudizio) mescola questioni di fatto e di diritto, ancor prima che infondato (perche’ l’approvazione degli organi competenti del Comune non equivale alla manifestazione di volonta’ negoziale di accettazione nei confronti del privato) e’ inammissibile per la ragione assorbente che l’accertamento compiuto dal giudice di merito, circa la riserva delle parti di stipulazione della convenzione, risponde ad una quaestio voluntatis non sindacabile nel presente giudizio di legittimita’, laddove - come nel caso di specie - puntualmente motivata in modo esente da vizi logici e giuridici. Con il secondo motivo si censura, per violazione degli artt. 61 e 118 c.p.c., e per vizi di motivazione, la decisione del tribunale che, senza accogliere l’istanza di assunzione di una consulenza tecnica per la descrizione dello stato dei luoghi prima della Delib. consiliare n. 74 del 2004 e dopo di essa, e dei lavori eseguiti dalla societa’, nonche’ di quelli resisi necessari ed eseguiti poi dal Comune dopo l’inadempimento della societa’, e per la quantificazione del relativo costo, e senza neppure esaminare i documenti prodotti dalla parte allo stesso fine, aveva dichiarato la domanda non provata. Si formula il quesito se il giudice possa respingere l’istanza di consulenza tecnica formulata da una delle parti ritenendo nel contempo non provata la situazione di fatto accertabile in forza di essa; e se possa il giudice di merito omettere l’esame di documenti decisivi che, a causa della loro formulazione tecnica, richiedano competenze extragiuridiche. Con il terzo motivo si denunciano vizi di motivazione in ordine alla sussistenza del rapporto di causalita’ tra il comportamento della societa’ e il danno subito dall’ente e costituito dai costi sostenuti per l’esecuzione dei lavori. Detto nesso era stato escluso in base al mero rilievo che la deliberazione dell’ente, concernente i lavori di cui si chiedeva il pagamento, non menzionava l’inadempimento della societa’, ne’ la necessita’ di lavori sostitutivi. Si deduce che il nesso di causalita’ in questione discendeva dalle stesse competenze urbanistiche dell’ente desumibili dalle norme di legge che regolano la materia. Si formula un quesito di diritto circa la possibilita’ del giudice di negare il nesso di causalita’ tra fatto ingiusto, o inadempimento, e danno senza far riferimento al quadro normativo e limitandosi a verificarne la sussistenza nei documenti di causa concernenti il comportamento che si assume dannoso. I due mezzi, strettamente connessi, devono essere esaminati insieme. In ordine alla mancata ammissione della consulenza tecnica e all’omesso esame di documenti deve premettersi che si tratta di questioni suscettibili di esame in sede di legittimita’ esclusivamente sotto il profilo del vizio di motivazione della sentenza, la quale abbia deciso sul punto controverso senza avvalersi dell’opera di un consulente tecnico e senza esaminare i documenti asseritamente decisivi; a norma, dunque, dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, e non anche per violazione di norme di diritto sostanziale (art. 360 c.p.c., n. 3) o per nullita’ del procedimento (art. 360 c.p.c., n. 4). Di conseguenza al riguardo non e’ configurabile un quesito di diritto, ed e’ inammissibile il quesito formulato a conclusione del mezzo in esame. Lo stesso quesito peraltro, se esaminato sotto il profilo, astrattamente pertinente, delle indicazioni richieste dall’art. 366 bis cpv. c.p.c., e’ insufficiente, giacche’ non contiene la prescritta chiara indicazione del fatto controverso, in relazione al quale la motivazione si assume omessa o contraddittoria, ovvero le ragioni per le quali la dedotta insufficienza della motivazione la rende inidonea a giustificare la decisione. L’indicazione a tal fine richiesta ha per oggetto specifici elementi di fatto, sia pure complessi, sui quali la motivazione sarebbe insufficiente (cfr. Cass. Sez. un. 14 ottobre 2008 n. 25117); e di questi elementi deve essere illustrato il carattere decisivo. Su questi aspetti, il mezzo d’impugnazione e’ carente. L’altro motivo e’ correttamente posto sotto la rubrica del vizio di motivazione. Anche in questo caso, tuttavia, si formula a conclusione del mezzo d’impugnazione un quesito di diritto, come tale incongruente; e anche in tal caso il supposto quesito non si presta ad essere valorizzato sotto il profilo delle indicazioni richieste dall’art. 366 bis c.p.c.. In esso, infatti, il punto controverso decisivo, in relazione al quale si denuncia il vizio di motivazione, e’ indicato nel nesso di causalita’ tra "fatto ingiusto o inadempimento" e danno. Tale nesso, tuttavia, riguarda la relazione tra due fatti, e non e’ esso stesso un fatto, bensi’ il risultato di un giudizio valutativo, ancorato a parametri normativi. Nella fattispecie si sostiene che le competenze del Comune in materia urbanistica imponevano al giudice di eseguire alcuni lavori, resi necessari della mancata esecuzione - da parte dell’impresa - dei lavori descritti in una precedente deliberazione dello stesso ente. Ma, in mancanza di un’adeguata illustrazione del punto da parte del Comune ricorrente, non e’ identificabile in tale valutazione un accertamento di fatto, sindacabile con il mezzo in esame. Nel caso in esame, invece, la sentenza di rigetto della domanda dell’ente non e’ basata su presupposti di fatto contrastanti con l’assunto del Comune, circa la necessita’ di intervenire con lavori di sistemazione, bensi’ su questioni di diritto attinenti alla natura della responsabilita’ attribuita alla societa’ e alla configurabilita’ di danni risarcibili. Tenuto conto della motivazione del decreto impugnato, nel ricorso manca un’illustrazione dell’influenza decisiva che la consulenza o i documenti avrebbero avuto nell’ammissione del credito al passivo. Con il quarto motivo si denuncia la violazione degli artt. 337 e 2043 c.c. e il vizio di motivazione del decreto, nel punto in cui ha negato l’esistenza di un danno risarcibile in forza della responsabilita’ precontrattuale. L’ente lamentava che l’impresa non avesse adempiuto se non in minima parte le obbligazioni derivanti dallo schema di convenzione sottoscritto, e che a seguito dell’adempimento parziale si era trovato nella necessita’ di effettuare delle ulteriori opere viarie sostenendo dei costi per la somma quantificata. Il tribunale avrebbe da un lato omesso di considerare che il fatto illecito attribuito alla societa’, una volta esclusa la sussistenza di un inadempimento contrattuale, e supposto che non fosse inquadrabile nella figura della responsabilita’ precontrattuale, doveva in ogni caso essere valutato sotto il profilo della responsabilita’ extracontrattuale, essendo consistito nel compimento di opere produttive di danni, che imponevano alla pubblica amministrazione, per i compiti istituzionali che le sono attribuiti, di intervenire con tutte le opere a tal fine richieste; e dall’altro avrebbe escluso il danno da responsabilita’ precontrattuale sulla base di una nozione ingiustificatamente restrittiva dell’interesse negativo protetto. Il mezzo si conclude con il quesito se, in caso di illegittima rottura delle trattative e violazione dell’affidamento riposto dalla pubblica amministrazione nel contraente privato, il giudice possa valutare l’illecito sotto il profilo dell’art. 2043 c.c.; e se, accertata la responsabilita’ ex art. 2337 c.c., il giudice debba aver riguardo a tutti i danni che siano conseguenza immediata e diretta dell’illegittimo recesso dalle trattative o dalla stipulazione del contratto, tenuto conto dei doveri di cura dell’interesse pubblico che incombono sulla pubblica amministrazione. Il profilo attinente ad una supposta responsabilita’ extracontrattuale dell’impresa a norma dell’art. 2043 c.c., e’ infondato, perche’ la domanda fondata sull’illecito aquiliano ha altro contenuto e altri presupposti rispetto a quella fondata sull’inadempimento del contratto, che era stato allegato dall’ente, sicche’, se non proposta dalla parte sulla base di pertinenti allegazioni, non puo’ essere esaminata d’ufficio dal giudice. Il Tribunale ha invece esaminato la questione della configurabilita’ di una responsabilita’ precontrattuale, derivante dal rifiuto dell’impresa di concludere il contratto di contenuto corrispondente allo schema di convenzione sottoscritto, e ha escluso la risarcibilita’ del danno prospettato, perche’ non corrispondente all’interesse negativo leso. La somma richiesta a tale titolo, infatti, corrispondeva al costo delle opere che l’impresa non aveva eseguito, e che erano previste nell’accordo non concluso. Tale giudizio e’ immune da censure. Va precisato, innanzi tutto, che l’amministrazione ricorrente non contesta che le opere di viabilita’ eseguite corrispondono a quelle che avrebbe dovuto eseguire l’impresa in base alla convenzione sottoscritta, e che pertanto i relativi costi non corrispondono all’interesse negativo dell’ente, a non contrattare; ma sostiene che si tratta ugualmente di conseguenze del comportamento illecito dell’impresa, poggiando tale affermazione esclusivamente sulle competenze in materia urbanistica dei comuni. La tesi, sebbene sia argomentata sulla base di una nozione diversa dell’interesse negativo nella responsabilita’ precontrattuale, inette capo ad un quesito che la fa dipendere dalla supposta applicabilita’ dell’art. 2043 c.c. vale a dire da una premessa in diritto, costituente oggetto della censura gia’ respinta per altra ragione. Per il resto e’ sufficiente considerare che, per giurisprudenza assolutamente costante di questa Corte, in caso di violazione della norma di cui all’art. 1337 c.c. il risarcimento del danno e’ limitato al cosiddetto interesse negativo (per limitarsi agli ultimi anni, v. Cass. 7 febbraio 2006 n. 2525; 10 giugno 2005 n. 12313; 23 febbraio 2005 n. 3746; 10 ottobre 2003 n. 15172; 18 luglio 2003 n. 11243; 14 febbraio 2000 n. 1632). Il mezzo d’impugnazione deve pertanto essere rigettato. Con il quinto ed ultimo motivo si censura per violazione degli artt. 91 e 92 c.p.c. e vizio di motivazione il regolamento delle spese, poste a carico dell’ente con la sola motivazione della soccombenza, sebbene anche la curatela fosse soccombente in ordine alla domanda riconvenzionale svolta. L’ente denuncia altresi’ la liquidazione forfetaria delle spese fatta d’ufficio, in assenza di nota depositata dalla controparte. Il mezzo si conclude senza enunciazione di quesiti di diritto, ma esclusivamente con una sintesi del motivo d’impugnazione, in cui si chiede se sia conforme a diritto la condanna di una parte alle spese processuali integrali in assenza (recte: presenza) di una reciproca soccombenza, e se il giudice, nel quantificare le spese legali da addossare alla parte soccombente, possa procedere d’ufficio ad una liquidazione complessiva delle stesse senza indicare i criteri nel concreto utilizzati per giungere ad una siffatta quantificazione. La questione dell’omessa compensazione delle spese, in caso di reciproca soccombenza, e’ inammissibile, perche’ verte sull’esercizio di un potere che l’art. 92 cpv. c.p.c. attribuisce al giudice configurandolo come discrezionale, e sottraendolo pertanto al sindacato di legittimita’. Il vizio di motivazione, denunciato in ordine alla liquidazione forfetaria sia dei diritti e sia degli onorari in mancanza di nota spese depositata, quantunque gia’ altre volte affermato da questa Corte, deve essere coordinato con il principio dell’interesse all’impugnazione. Per poter giustificare la cassazione della sentenza, infatti, il mezzo d’impugnazione non puo’ essere meramente esplorativo, ma deve rendere esplicito e se del caso illustrare l’interesse che vi ha la parte che fa valere il vizio. Trattandosi, qui, della parte soccombente, l’interesse in questione postula che il giudice di merito abbia ecceduto i limiti tariffar, con riguardo alle voci indicate nella tariffa applicabile per i diritti, e, per gli onorari, anche con riguardo ai limiti massimi in essa previsti. A tal fine, la parte impugnante, mentre ha l’onere di allegare l’intervenuta violazione dei limiti tariffari, non e’ esonerata dall’indicare quale fosse la tariffa applicabile alla causa ratione temporis per i diritti, e in ragione del valore della causa anche per gli onorari, e quali prestazioni risultassero dagli atti di causa concretamente eseguite nel giudizio di merito, si’ da consentire a questa Corte di verificare l’interesse della parte a censurare il difetto di motivazione sul punto. In mancanza di tali allegazioni il mezzo e’ inammissibile perche’ generico. Il ricorso incidentale del fallimento (reg. gen. 7293/08), concernente l’omesso esame di eccezioni pregiudiziali, e’ logicamente condizionato all’accoglimento del ricorso del Comune, ed e’ pertanto assorbito dal rigetto di questo (v. Cass. Sez. un. 6 marzo 2009 n. 5456). Con il suo ricorso proposto separatamente, e che deve ora essere esaminato (reg. gen. n. 3570/08), la curatela denuncia l’omessa pronuncia sulla domanda riconvenzionale, da essa svolta nel giudizio di opposizione al passivo. Essa aveva chiesto, infatti, il pagamento di somme relative all’esecuzione di opere - di viabilita’ e di pubblica illuminazione - realizzate dalla T. G. sul territorio di N., essendo il Comune inadempiente agli accordi presi, per avere illegittimamente chiuso la via di accesso alla multisala oggetto del piano urbanistico di cui all’accordo di programma intervenuto con la Regione Lombardia e il Comune di M.. Si tratta delle opere di viabilita’, previste in una deliberazione comunale, che erano state eseguite dalla societa’, sebbene essa contestasse la legittimita’ della deliberazione sia perche’ poneva a suo carico degli oneri urbanistici, in mancanza del presupposto di legittimita’ dell’esecuzione di un piano edilizio attuativo all’interno del territorio comunale, e sia perche’ la convenzione non era stata trasfusa in un formale atto pubblico. Con il secondo motivo si censura ancora l’omesso esame della domanda riconvenzionale, sotto il profilo del difetto di motivazione. Le censure sono infondate, perche’ la domanda riconvenzionale proposta dalla curatela fallimentare nel giudizio di opposizione al passivo era inammissibile. Secondo la consolidata giurisprudenza di questa Corte, formatasi anteriormente alla riforma L. Fall., art. 99 (avvenuta prima con il D.Lgs. 9 gennaio 2006, n. 5, art. 84 con decorrenza 16 gennaio 2006, e applicabile ratione temporis alla fattispecie; e poi con il D.Lgs. 12 settembre 2007, n. 169, art. 6, comma 4 con decorrenza 1 gennaio 2008), nel procedimento di opposizione allo stato passivo, in cui sono preminenti le esigenze di celerita’ nello svolgimento del giudizio, non sono ammissibili domande riconvenzionali che siano solo genericamente o indirettamente ricollegabili al rapporto sul quale il creditore ha fondato la propria richiesta di insinuazione al passivo, e non invece rigorosamente dipendenti dal medesimo fatto dal quale trae origine detta pretesa creditoria; con la conseguenza che, ove il curatore fallimentare proponga, nel giudizio di opposizione allo stato passivo, una vera e propria domanda riconvenzionale, questa e’ inammissibile, pur quando eventualmente si ricolleghi al medesimo rapporto al quale ha fatto riferimento il creditore ricorrente, se si fondi su un fatto - e, dunque, su un titolo - diverso (Cass. 1 agosto 1996 n. 6963). In base a queste premesse (le quali non escludono del tutto la possibilita’ di proposizione di una domanda riconvenzionale della curatela fallimentare nel giudizio di opposizione allo stato passivo, proposto dal creditore in tutto o in parte escluso), nel caso in esame la domanda doveva essere dichiarata inammissibile. Il titolo sul quale essa si fondava, costituito dall’esecuzione delle opere previste in una deliberazione comunale ma senza che fosse stato stipulato il relativo contratto, e dall’inadempimento del Comune all’impegno preso, di consentire l’accesso al cantiere da una strada compresa nel suo territorio comunale, pur ricollegandosi allo stesso rapporto dedotto nella domanda di ammissione al passivo, era autonomo rispetto al titolo sul quale si fondava quella domanda, e che era costituito dall’inadempimento della societa’ alle obbligazioni derivanti dalla convenzione allegata alla Delib. n. 74 del 2004. Occorre pero’ aggiungere che la questione deve oggi essere esaminata sotto la diversa prospettiva imposta dalla riforma del procedimento di accertamento del passivo nel fallimento, nella fase necessaria che precede l’eventuale opposizione, e nel successivo ed eventuale giudizio di opposizione. Prima di tale riforma, infatti, il procedimento in questione era regolato bensi’ come procedimento giurisdizionale, ma senza contraddittorio, essendo il contraddittorio posticipato alla fase successiva ed eventuale dell’opposizione. Sulla domanda di ammissione al passivo, pertanto, il giudice si pronunciava direttamente, ancorche’ con l’assistenza del curatore, ammettendo in tutto o in parte i crediti, con l’eventuale relativo grado di prelazione, e indicando quelli in tutto o in parte non ammessi, con l’esposizione sommaria delle ragioni dell’esclusione totale o parziale di essi o delle relative garanzie. La posizione delle parti, nel successivo giudizio di opposizione, era pertanto genericamente paragonabile a quello che esse assumono nell’opposizione ad un provvedimento assunto inaudita altera parte, in cui deve assicurarsi - per la prima vola - la pienezza del contraddittorio e del diritto di difesa. In tale quadro, anche l’ammissibilita’ della domanda riconvenzionale della curatela doveva tener conto del fatto che l’opposizione introduceva un giudizio a tutti gli effetti di primo grado; e i rimedi impugnatori previsti contro il provvedimento conclusivo del giudizio di opposizione erano quelli tipici della sentenza di primo grado, comprendendo in particolare l’appello, ed escludendo quindi di regola il ricorso diretto per Cassazione. Il quadro appena descritto e’ stato radicalmente modificato con la novella n. 5 del 2006. In essa, l’opposizione del creditore o del titolare di beni mobili o immobili per le domande respinte, strutturata come le altre impugnazioni dello stesso decreto - quella del curatore, del creditore concorrente e del titolare di diritti su beni mobili o immobili per domande accolte, e quella di revocazione del provvedimento determinato da falsita’, dolo, errore essenziale di fatto o mancata conoscenza di documenti non prodotti per causa non imputabile - e’ regolata in modo dettagliato con una disciplina autonoma, e non potrebbe essere assimilata ad altri giudizi di opposizione che si propongono davanti allo stesso giudice (significativo, in questo senso, e’ l’espresso divieto di partecipazione al collegio da parte del giudice delegato al fallimento). La configurazione di tali giudizi in senso inequivocabilmente impugnatorio appare incompatibile con l’ammissibilita’ di domande nuove, non proposte nel grado precedente, quali le domande riconvenzionali. A cio’ si aggiunge che per queste domande il simultaneus processus non potrebbe estendersi ai gradi d’impugnazione, con conseguente grave lesione delle esigenze di celerita’ nello svolgimento del giudizio, che anche nel mutato quadro normativo sovrintendono alla disciplina del procedimento. A questo riguardo, la formulazione della L. Fall., art. 99, comma 5, nel testo stabilito dal D.Lgs. n. 5 del 2006 (D.Lgs. n. 169 del 2007, comma 7) contiene la precisa indicazione del contenuto della memoria difensiva del curatore fallimentare, e specificamente delle difese che in quella sede devono essere svolte a pena di decadenza, comprensiva delle eccezioni e delle prove, mentre non fa menzione di eventuali domande riconvenzionali. Al silenzio deve attribuirsi in questo caso il significato di esclusione della possibilita’ di introdurre nel giudizio d’impugnazione domande nuove, e specificamente domande riconvenzionali. Cio’ premesso, si deve ricordare il consolidato insegnamento di questa Corte, per il quale la proposizione di una domanda inammissibile non determina l’insorgere di alcun potere - dovere del giudice adito di pronunciarsi su di essa, con conseguente esclusione di qualsivoglia vizio di omessa pronuncia della sentenza emessa (Cass. 22 dicembre 1998 n. 12789; 7 agosto 2003 n. 11933; 20 marzo 2006 n 6094; 7 maggio 2009 n. 10489). In conclusione il mezzo d’impugnazione deve essere respinto in forza del seguente principio di diritto:
a norma della L. Fall., art. 99, nel testo introdotto dal D.Lgs. 9 gennaio 2006, n. 5, art. 84 e successivamente modificato dal D.Lgs. 12 settembre 2007, n. 169, art. 6, comma 4 nel giudizio d’impugnazione del decreto di esecutivita’ dello stato passivo, indicato nell’art. 96 della stessa legge, non e’ consentita la proposizione di nuove domande che, se proposte, devono essere dichiarate inammissibili.

P.Q.M.
LA CORTE Rigetta il ricorso principale proposto dal Comune di N.; dichiara assorbito il ricorso incidentale del Fallimento T. G. s.r.l., n. 7293/08; rigetta il ricorso incidentale del Fallimento T. G. s.r.l., n. 3570/08; compensa le spese del giudizio di legittimita’ tra le parti. Cosi’ deciso a Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Prima della Corte suprema di Cassazione, il 13 gennaio 2010. Depositato in Cancelleria il 22 marzo 2010