Diritto Fallimentare


Il Caso.it, Sez. Giurisprudenza, 2234 - pubb. 14/06/2010

Responsabilità del creditore istante e specialità della disciplina

Cassazione civile, sez. I, 26 Novembre 2008, n. 28226. Est. Rordorf.


Revoca della dichiarazione di fallimento – Responsabilità dell'istante – Assoggettabilità alla disciplina ex art. 96 cod. proc. civ. – Sussistenza – Concorso con azione di responsabilità ai sensi dell'art. 2043 cod. civ. – Configurabilità – Esclusione – Fondamento. (15/06/2010)



In tema di revoca della dichiarazione di fallimento pronunciata in difetto delle condizioni di legge, la relativa responsabilità del creditore istante trova la propria disciplina specifica nell'art. 21, comma terzo, della legge fall. (vigente all'epoca dei fatti) e costituisce comunque applicazione dell'art. 96 cod. proc. civ., che regola tutti i casi di responsabilità risarcitoria per atti o comportamenti processuali, ponendosi con carattere di specialità rispetto all'art. 2043 cod. civ. e senza che sia configurabile un concorso, anche alternativo, tra i due tipi di responsabilità; in caso di istanza di fallimento proposta dal difensore munito di procura rilasciata per un processo diverso - nella specie per il solo esercizio dell'azione monitoria - la sua attività processuale non si riflette sulla parte e resta riferibile, in coerenza con l'art. 1711 cod. civ., esclusivamente alla sua responsabilità. (fonte CED – Corte di Cassazione)



 

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SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Il sig. G. T., amministratore e socio unico della G. s.r.l., dichiarata fallita dal Tribunale di Torino, propose opposizione a detta dichiarazione di fallimento e formulò domanda di risarcimento dei danni nei confronti tanto della sig.ra G. P., ad istanza della quale figurava essere stato dichiarato il fallimento, quanto degli avvocati E. A. e P. C., che quell'istanza avevano presentato quantunque la procura loro rilasciata dalla sig.ra G. P. si riferisse solo all'esercizio di un'azione monitoria e non anche alla richiesta di fallimento.

Nella contumacia del curatore, gli altri convenuti si costituirono in giudizio chiedendo il rigetto delle domande. Gli avvocati E. A. e P. C. spiegarono anche domanda di manleva nei confronti della sig.ra G. P., ed il solo avv. E. A. chiese ed ottenne di poter chiamare in causa, a scopo di garanzia, la Assicurazioni * s.p.a. con cui aveva stipulato una polizza di assicurazione per i rischi da responsabilità professionale. La Assicurazioni *, costituitasi a propria volta, chiese che l'avv. P. C. fosse condannata a rivalerla di quanto eventualmente avesse dovuto corrispondere all'avv. E. A. in forza della polizza con lui stipulata.

Il tribunale, avendo reputato che la procura rilasciata dalla sig.ra G. P. agli avv. E. A. e P. C. non abilitasse costoro a proporre ricorso per dichiarazione di fallimento della G., revocò il fallimento. Rigettò tuttavia la domanda di risarcimento dei danni, perché ritenne che la richiesta di fallimento non fosse imputabile alla sig.ra G. P. e che nei confronti degli avv. E. A. e P. C., i quali non rivestivano la qualifica di creditori istanti, non fosse applicabile la disposizione prevista dall'allora vigente L. Fall., art. 21, comma 3.

Sul gravame proposto dal sig. G. T., la Corte d'appello di Torino, con sentenza emessa il 30 aprile 2003, in parziale riforma della pronuncia di primo grado, condannò in solido gli avv. E. A. e P. C. al risarcimento dei danni sofferti dalla società G. a causa della dichiarazione di fallimento, liquidando detti danni, equitativamente, in complessivi Euro 5.000,00 (tenuto conto del concorso di colpa della società danneggiata); condannò inoltre la Assicurazioni * a rivalere l'avv. E. A. (al netto della franchigia prevista dalla polizza assicurativa), respingendo invece la domanda di rivalsa proposta dalla stessa Assicurazioni * nei confronti dell'avv. P. C.; e condannò infine gli avv. E. A. e P. C. al rimborso della metà delle spese processuali di entrambi i gradi in favore dell'appellante, compensando dette spese nei confronti della compagnia assicurativa.

La corte torinese motivò siffatta decisione osservando: che effettivamente la procura rilasciata dalla sig.ra G. P. agli avvocati E. A. e P. C. per richiedere un decreto ingiuntivo non autorizzava costoro a presentare istanza per fallimento della G., tanto più che i medesimi difensori non si erano neppure previamente informati dalla propria cliente, il cui credito era stato frattanto estinto mediante pagamento; che all'errata dichiarazione di fallimento aveva peraltro colposamente concorso anche il legale rappresentante della medesima G., avendo egli omesso di rendere pubblico il trasferimento della sede sociale e non essendo comparso dinanzi al tribunale per far presente che il credito della sig.ra G. P. era stato frattanto estinto per pagamento; che la domanda di risarcimento dei danni subiti dalla società era stata avanzata anche a norma dell'art. 2043 c.c., onde essa ben poteva essere diretta nei confronti di soggetti diversi dal creditore istante indicato dalla citata disposizione della L. Fall., art. 21; che la domanda di rivalsa proposta dalla Assicurazioni * nei confronti dell'avv. P. C., sul presupposto che il solo avv. E. A. fosse assicurato, non aveva fondamento, giacché la polizza assicurativa copriva la responsabilità di tutti gli avvocati che collaboravano allo studio legale "E. A. e R.", ivi compresa la stessa avv. P. C..

Avverso tale sentenza gli avv. E. A. e P. C. hanno proposto ricorso per cassazione articolato in due motivi. Il sig. G. T. ha replicato con controricorso, formulando altresì due motivi di ricorso incidentale.

Anche la Assicurazioni * ha depositato un controricorso, contente un motivo di ricorso incidentale (subordinato al mancato accoglimento di quello principale), illustrato poi con memoria. I ricorrenti principali hanno, a propria volta, replicato ai due ricorsi incidentali con altrettanti controricorsi. Nessuna difesa hanno invece spiegato in questa sede il curatore del fallimento e la sig.ra G. P..

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. I ricorsi proposti avverso la medesima sentenza debbono essere preliminarmente riuniti, come dispone l'art. 335 c.p.c.. 2. Conviene anzitutto procedere all'esame del ricorso principale, il cui primo motivo (genericamente intitolato "Violazione e falsa applicazione di diritto") contiene diversi profili di doglianza. 2.1. I ricorrenti, anzitutto, contestano che la procura rilasciata ai propri legali dalla creditrice sig.ra G. P. per agire in via monitoria nei confronti della debitrice G. non implicasse anche la possibilità di chiedere il fallimento di quest'ultima, posto che il mandato professionale comporta sempre l'attribuzione del potere di scegliere, in relazione agli sviluppi della causa, la condotta processuale ritenuta più rispondente agli interessi del cliente. L'istanza di fallimento sostengono ancora i ricorrenti - appariva d'altronde giustificata dal fatto che, al decreto ingiuntivo emesso nei confronti della medesima G., aveva fatto seguito un pignoramento negativo e che la società risultava irreperibile. Insistono poi i ricorrenti nel sottolineare che ad essi non compete la qualifica di "creditore istante", richiamata dal terzo comma dell'allora vigente L. Fall., art. 21, e sottolineano come, in presenza di una dichiarazione di fallimento erroneamente pronunciata dal tribunale, non sia consentito addossarne la responsabilità a chi quel provvedimento si è limitato a richiedere, tanto meno per colpa grave.

2.2. Anche il secondo motivo del ricorso principale, in cui si fa questione di vizi di motivazione dell'impugnata sentenza, attiene a questioni diverse.

Dopo aver richiamato le ragioni per le quali, a loro parere, l'istanza di fallimento appariva pienamente giustificata alla luce del comportamento tenuto dalla G., i ricorrenti lamentano che la corte d'appello non abbia tenuto conto del fatto che la sig.ra G. P. non avesse tempestivamente informato i propri legali dell'avvenuto pagamento del credito. Ne deducono che avrebbe dovuto essere accolta la domanda di manleva da loro proposta nei confronti della medesima sig.ra G. P..

Sostengono, poi, di aver sollevato eccezioni di nullità della citazione, a norma degli artt. 163 e 164 c.p.c., del tutto ignorate dalla corte torinese; e censurano l'impugnata sentenza anche per avere proceduto all'individuazione ed alla liquidazione equitativa del danno senza adeguata motivazione.

Si dolgono, infine, del mancato addebito alla compagnia di assicurazione dell'onere delle spese processuali da essi sostenute per resistere alla pretesa dell'attore e della compensazione delle spese legali afferenti al loro rapporto con la stessa assicuratrice. 3. Il primo motivo del ricorso è, per alcuni aspetti, inammissibile, per altri infondato (anche se - come si vedrà - occorre rettificare in punto di diritto la motivazione dell'impugnata sentenza). 3.1. Inammissibili sono le censure concernenti la portata della procura alle liti rilasciata dalla sig.ra G. P. ai propri legali ed in base alla quale costoro hanno proposto l'istanza di fallimento di cui si tratta.

Una tal questione presuppone, con ogni evidenza, un accertamento di fatto in ordine al contenuto effettivo ed ai limiti dell'anzidetta procura, il cui tenore non è però riportato in ricorso (come il principio di autosufficienza del ricorso medesimo avrebbe invece imposto di fare). Non potendo il giudice di legittimità svolgere egli stesso accertamenti di fatto, ne' quindi apprezzare i documenti di causa in modo diverso dal giudice di merito, cui tale compito appartiene, le considerazioni svolte a questo riguardo dai ricorrenti non possono esser prese in considerazione.

3.2. Non sono fondate le doglianze secondo cui non avrebbe potuto essere addebitata alcuna responsabilità ai difensori, non essendo essi parte del procedimento giudiziario instaurato con l'istanza di fallimento.

La responsabilità che può derivare da una dichiarazione di fallimento pronunciata in difetto delle condizioni di legge - responsabilità che, all'epoca dei fatti di causa, trovava la propria specifica disciplina nell'allora vigente L. Fall., art. 21 - costituisce un'attuazione, nel particolare settore delle procedure concorsuali, delle regole dettate in via generale dall'art. 96 c.p.c. (cfr., in tal senso, Cass. 21 febbraio 2007, n. 4096; Cass. 15 giugno 1999, n. 5934; e Cass. 4 settembre 1998, n. 8781).

Risultano pertanto applicabili alla fattispecie in esame i principi da tempo elaborati dalla giurisprudenza di questa corte in ordine alla responsabilità aggravata contemplata dal citato art. 96, ed in particolare quello per il quale siffatta responsabilità, pur rientrando concettualmente nel genere della responsabilità per fatti illeciti, ricade interamente, in tutte le sue ipotesi, sotto la disciplina del medesimo art. 96, senza che possa configurarsi un concorso, anche alternativo, tra i due tipi di responsabilità (Cass. 24 luglio 2007, n. 16308; Cass. 12 marzo 2002, n. 3573; Cass. 12 gennaio 1999, n. 253; Cass., sez. un., 6 febbraio 1984, n. 874; e Cass. 18 gennaio 1983, n. 477).

Deve quindi essere rettificata l'affermazione della corte d'appello, nella parte in cui ha inteso prescindere dalla speciale disposizione dettata in materia dallo (allora vigente) della L. Fall., art. 21, comma 3, ed ha reputato di poter decidere la controversia come se questa avesse ad oggetto una pretesa risarcitoria genericamente riconducibile alla previsione dell'art. 2043 c.c.. Ciò premesso, va richiamato anche il principio enunciato dalle sezioni unite nella sentenza 10 maggio 2006, n. 10706, in forza del quale, in caso di azione o di impugnazione promossa dal difensore senza effettivo conferimento della procura da parte del soggetto nel cui nome egli dichiari di agire nel giudizio o nella fase di giudizio di che trattasi (come nell'ipotesi di procura ad litem rilasciata per processi o fasi di processo diverse da quello per il quale l'atto è speso), l'attività del difensore non riverbera alcun effetto sulla parte e resta attività processuale di cui il legale assume esclusivamente la responsabilità: donde consegue l'ammissibilità della sua condanna a pagare le spese del giudizio. Tale principio, che è coerente con la previsione dell'art. 1711 c.c., comma 1, secondo cui l'atto che esorbita dal mandato resta a carico del mandatario, non può non trovare applicazione anche con riguardo alla responsabilità aggravata, contemplata dal citato art. 96, atteso altresì il carattere accessorio della relativa disciplina rispetto a quello delle spese processuali.

Come, dunque, è a carico del difensore privo di procura che deve esser pronunciata la condanna al pagamento delle spese sostenute dalla controparte nel processo che detto difensore abbia intrapreso senza averne il potere, così anche l'eventuale condanna al risarcimento dei danni per responsabilità aggravata, ove ne ricorrano gli estremi, in un simile caso va pronunciata nei confronti del difensore.

3.3. Giova ancora aggiungere che, ai fini dell'accertamento della responsabilità processuale aggravata in sede di fallimento, va distinta l'ipotesi in cui la revoca della dichiarazione consegua all'inesistenza del credito fatto valere dall'istante, da quelle dipendenti dalla mancanza di alcuno dei presupposti (processuali o sostanziali) necessari per la dichiarazione stessa: perché, nella prima ipotesi, è sufficiente a far sorgere la responsabilità l'aver agito senza la normale prudenza nel richiedere la dichiarazione di fallimento, mentre nelle seconde si richiede una condotta dolosa o gravemente colposa (Cass. 15 giugno 1999, n. 5934; e Cass. 4 settembre 1998, n. 8781).

Ma la questione se sussistessero o meno, nella specie, elementi tali da rendere ragionevole la proposizione dell'istanza di fallimento della quale si discute - al pari di quella del grado di colpa in cui i ricorrenti versavano - si risolve in una valutazione di merito, con riguardo alla quale non rientra nei poteri di questa corte rovesciare la motivata valutazione del giudice d'appello.

4. Anche molti dei profili di censura contenuti nel secondo motivo di ricorso sono parzialmente inammissibili e parzialmente infondati. 4.1. La doglianza concernente il mancato esame di un'asserita eccezione di nullità dell'atto di citazione è inammissibile, in quanto nel ricorso non è indicato in quale precedente difesa tale eccezione sarebbe stata formulata nel corso del giudizio di merito, nè le ragioni specificamente poste a fondamento dell'eccezione stessa: onde non è neppure possibile in questa sede vagliare la rilevanza e la decisività della proposta censura.

Del pari inammissibili, perché non decisive ne' comunque volte ad evidenziare un qualche vizio logico della motivazione, quanto piuttosto a sollecitare una non consentita rivisitazione del giudizio di merito, sono le considerazioni svolte nel ricorso per sostenere la ragionevolezza dell'iniziativa assunta con l'istanza di fallimento di cui si discute, pur se in difetto di idonea procura alle liti. 4.2. Manifestamente privo di fondamento è l'assunto che pretende di ravvisare un vizio di motivazione della sentenza impugnata perché non avrebbe tenuto adeguato conto del fatto che la sig.ra G. P. non aveva tempestivamente informato i propri difensori dell'avvenuta riscossione del credito: il che implicherebbe un concorso di colpa della medesima sig.ra G. P. nell'illegittima dichiarazione di fallimento della società debitrice.

La prospettata questione è, invero, del tutto irrilevante. Ove pure il descritto comportamento della sig.ra G. P. corrisponda a realtà, esso non inciderebbe in alcun modo sulle ragioni della responsabilità dei legali, i quali evidentemente, in assenza d'informazioni da parte della cliente che li aveva incaricati solo di procedere alla riscossione del credito in via monitoria, a maggior ragione avrebbero dovuto astenersi dall'assumere ulteriori iniziative, estranee al mandato ricevuto.

4.3. Appare invece fondata la doglianza avente ad oggetto l'insufficienza della motivazione in tema di accertamento dell'esistenza del danno risarcibile e di sua liquidazione. La corte d'appello, come detto, ha proceduto ad una liquidazione equitativa del pregiudizio sofferto dalla società G. in conseguenza della non dovuta dichiarazione di fallimento. Non si è tuttavia data carico di identificare il tipo di pregiudizio ravvisato, ne' di indicarne specificamente gli elementi costitutivi, limitandosi ad affermare - ma ad altro proposito e soltanto incidentalmente - che l'illegittimo comportamento dei convenuti aveva "concorso a causare quanto meno dei danni all'immagine della s.r.l. G.".

Una simile espressione non consente di considerare assolto l'onere del giudice di merito di motivare come, in base alle risultanze di causa, egli abbia ravvisato l'esistenza del danno da liquidare, e lascia incerti financo sulla natura di tale danno (se, cioè, siano stati ravvisati e liquidati solo danni all'immagine, o anche di altro tipo, e quale).

Ma, anche a voler ammettere che la corte territoriale abbia inteso accertare e liquidare esclusivamente il danno all'immagine della società, difetta nell'impugnata sentenza qualsiasi indicazione che permetta di stabilire in base a quali elementi quell'accertamento è avvenuto. Se è vero, infatti, che in via generale un pregiudizio all'immagine di una società commerciale può ritenersi naturalmente insito nella dichiarazione di fallimento della società medesima, è nondimeno evidente che la portata in concreto di un siffatto evento è ben diversa a seconda della situazione in cui la società effettivamente si trova, del campo in cui opera, della durata del periodo in cui ha dovuto sopportare il marchio negativo del fallimento e di molteplici altri possibili varianti legate alla sua specificità. Ne consegue che lo stesso danno all'immagine non può essere soltanto genericamente postulato, se non altro perché la sua quantificazione richiede sia fornita la prova degli elementi di fatto sopra esemplificativamente indicati, tanto più in una situazione nella quale i ricorrenti riferiscono di avere eccepito e documentato (mediante la produzione di certificati della camera di commercio) la mancanza di ogni effettiva operatività della società la cui immagine si assume essere stata danneggiata.

Non è ovviamente escluso che, in casi del genere, il giudice possa procedere a liquidare il danno con valutazione equitativa, come prevede l'art. 1226 c.c. (richiamato dal primo comma del successivo art. 2056, e sicuramente applicabile anche nello specifico settore della responsabilità processuale aggravata).

Ma, per poterlo fare, è indispensabile che egli dia conto delle ragioni per le quali non è stato possibile l'accertamento puntuale del pregiudizio subito dalla parte e che, comunque, la parte stessa fornisca tutti gli elementi indispensabili ad offrire parametri plausibili di quantificazione, non essendo altrimenti ammissibile che il potere discrezionale del giudice sia adoperato per surrogare la mancata individuazione della prova del danno nella sua esistenza (si vadano, a tal proposito, tra le altre, Cass. 15 febbraio 2008, n. 3794; e Cass. 12 aprile 2006, n. 8615).

Nel caso di specie, viceversa, la corte torinese non fornisce indicazione alcuna circa gli elementi di prova del danno e circa possibili parametri di liquidazione del medesimo, limitandosi - come detto - a postulare l'esistenza di un danno alla società per poi apoditticamente quantificarlo in via equitativa. Donde il vizio di motivazione sul punto - la cui decisività è incontestabile - al quale deve necessariamente far seguito la cassazione dell'impugnata sentenza, con assorbimento degli ulteriori profili di censura dedotti nel ricorso principale in ordine al regime delle spese processuali. 5. Passando ora all'esame del ricorso incidentale proposto dal sig. G. T. nell'interesse della G., va premesso che solo il secondo dei due motivi dei quali esso si compone - inerente anch'esso all'identificazione ed alla prova del danno risarcibile - risulta totalmente assorbito dal parziale accoglimento del ricorso principale e dalla conseguente necessità di una nuova valutazione di merito in argomento.

Conserva invece attualità il primo motivo del ricorso, nel quale ci si duole dell'affermata corresponsabilità della stessa società G. nella causazione dell'evento lesivo; corresponsabilità che, a dire del ricorrente incidentale, avrebbe dovuto invece essere esclusa, o comunque non arbitrariamente quantificata nella misura del 50%. Non dalla mancata pubblicità del mutamento della sede sociale della G., o dal mancato espletamento di attività difensiva nella fase prefallimentare, sarebbe infatti dipeso il danno, bensì dal fatto, del tutto indipendente, che i legali della sig.ra G. P. avevano preso un'incauta iniziativa non rientrante nei limiti del loro mandato.

6. La riferita censura è infondata.

Il ricorrente incidentale trascura che il danno asseritamente subito dalla G. è dipeso unicamente dalla dichiarazione di fallimento. Se quindi è vero che, in mancanza dell'iniziativa degli avvocati E. A. e P. C., a quella dichiarazione non si sarebbe verosimilmente mai pervenuti, è vero del pari che, ponendosi in condizione di essere reperibile ed espletando l'attività difensiva che sarebbe naturale attendersi da parte di chi veda altri chiedere il proprio fallimento senza adeguata ragione, la società avrebbe potuto evitare l'esito pregiudizievole che si è invece determinato. Quanto poi alla misura dell'accertato concorso di colpa, trattasi di una valutazione di merito che, per sua stessa natura, non può essere ancorata a parametri predeterminati ed oggettivi; ne' il ricorrente enuncia (al di là delle non condivisibili osservazioni sul nesso di causalità già prima richiamate) le ragioni per le quali la percentuale di concorso avrebbe dovuto essere determinata altrimenti. 7. Il ricorso incidentale proposto dalla Assicurazioni * è stato espressamente subordinato al mancato accoglimento del ricorso principale. L'esito di questo determina perciò l'assorbimento di detto ricorso incidentale.

8. Discende da quanto fin qui detto che l'impugnata sentenza deve essere cassata, in relazione al profilo di censura accolto, con conseguente rinvio della causa alla Corte d'appello di Torino, in diversa composizione, che provvederà anche in ordine alle spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M.

LA CORTE

a) riunisce i ricorsi;

b) rigetta il 1 motivo del ricorso principale (ricorso n. 14667/04);

c) accoglie, nei limiti di cui in motivazione, il 2^ motivo del medesimo ricorso;

d) rigetta il 1^ motivo del ricorso incidentale proposto dal sig. G. T., quale legale rappresentante della G. s.r.l. (ricorso n. 16433/04);

e) dichiara assorbiti i profili di censura non esaminati del ricorso principale, il 2^ motivo del già richiamato ricorso incidentale, nonché il ricorso incidentale proposto dalla Assicurazioni * s.p.a. (ricorso n. 17735/04);

f) cassa l'impugnata sentenza in relazione alla censura accolta e rinvia la causa alla Corte d'appello di Torino, in diversa composizione, demandandole di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, il 6 novembre 2008.

Depositato in Cancelleria il 26 novembre 2008


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