L'Arbitrato


Il Caso.it, Sez. Giurisprudenza, 21736 - pubb. 28/05/2019

Clausola compromissoria societaria e applicazione della legge vigente al momento della stipulazione della convenzione di arbitrato

Cassazione civile, sez. I, 22 Maggio 2019, n. 13842. Est. Terrusi.


Arbirato - Clausola compromissoria societaria, inserita nello statuto anteriormente alla novella di cui al D.Lgs. n. 40 del 2006 - Impugnazione del lodo per errores in iudicando - Ammissibilità



In caso di clausola compromissoria societaria, inserita nello statuto anteriormente alla novella di cui al D.Lgs. n. 40 del 2006, è ammissibile l’impugnazione del lodo per errores in iudicando anche ove, per decidere, gli arbitri abbiano conosciuto di questioni compromettibili e il giudizio non abbia a oggetto l’invalidità di delibere assembleari, poiché il riferimento del D.Lgs. n. 5 del 2003, art. 36 all’art. 829 c.p.c. va sì correlato al nuovo comma 3 della disposizione citata, ma pur sempre implica che, per stabilire se l’impugnazione sia ammessa dalla legge, si abbia riguardo alla legge vigente al momento della stipulazione della convenzione di arbitrato. (Redazione IL CASO.it) (riproduzione riservata)


 


Fatti di causa

La corte d’appello di Firenze, con sentenza in data 25-7-2013, rigettava l’impugnazione proposta da * s.p.a. e da B.P.M., A. , B. e C. nei confronti del lodo arbitrale pronunciato il 27-12-2010 su domanda di A.B. , socia di * s.r.l..

Con tale lodo, e per quanto ancora interessa, l’arbitro unico, aveva (i) dichiarato la nullità o inefficacia della sottoscrizione, da parte di * s.p.a., di un primo aumento di capitale deliberato dalla controllata * s.r.l. in data 12-10-2005 e, come effetto conseguente, la nullità o inefficacia della sottoscrizione di un secondo aumento di capitale deliberato dalla medesima * il 29-3-2007; (ii) condannato in solido, ai sensi dell’art. 2497 c.c., la società * e gli amministratori di questa e di * - B. , T. , C.C. e Be. - al risarcimento dei danni patiti dall’attrice.

A fronte di tale decisione la corte d’appello negava che vi fosse stata contraddittorietà del dispositivo arbitrale, ovvero contraddittorietà tra dispositivo e motivazione, in merito all’avvenuta declaratoria di nullità o inefficacia delle due citate sottoscrizioni; dichiarava inammissibile la doglianza inerente la violazione di regole di diritto di ordine pubblico sotto i profili dell’assetto finale di interessi realizzato dal lodo e della violazione di regole relative al merito della controversia, poiché le norme richiamate nell’impugnazione - gli artt. 1418, 2466, 2344 e 3479-ter (rectius 2479-ter) c.c. - non erano tali; riteneva infondata la terza e ultima doglianza investente il capo della pronuncia arbitrale sul danno, non sussistendo le dedotte violazioni del contraddittorio e delle regole procedimentali nella fase di svolgimento della c.t.u..

I soccombenti * s.p.a., B. , T. , C.C. e Be. hanno proposto ricorso per cassazione articolando tre motivi. La D.B. si è costituita resistendo con controricorso. Si è infine costituita con controricorso la curatela del sopravvenuto fallimento di * s.p.a..

 

Le parti hanno depositato memorie.

 

Ragioni della decisione

I. - Col primo motivo i ricorrenti denunziano la violazione e falsa applicazione degli artt. 115 e 829 c.p.c., nonché in sequenza degli artt. 2342, 2343, 2464, 2465, 2466, 2479-ter e 2481-bis c.c..

Ascrivono alla corte d’appello di aver errato nel dichiarare inammissibile la censura afferente la declaratoria di nullità o inefficacia delle due sottoscrizioni di aumento di capitale in base alla disciplina dell’art. 829 c.p.c., comma 3, in quanto all’arbitrato in questione si sarebbe dovuta applicare, ratione temporis, non tale norma ma quella di cui all’art. 829, comma 2, nel testo anteriore al D.Lgs. n. 40 del 2006, la quale consentiva l’impugnabilità del lodo per semplice violazione di regole di diritto tout court.

Col secondo motivo i ricorrenti denunziano la violazione e falsa applicazione degli artt. 115, 116 e 829 c.p.c., nonché degli artt. 2464, 2465, 2466, 2479-ter e 2481-bis c.c., in relazione all’omesso esame di fatto decisivo (art. 360 c.p.c., n. 5), integrato dalla circostanza che nella determinazione del credito nascente dal rapporto tra le due società, dalla cui asserita fittizietà sarebbe derivata l’invalidità dell’intera operazione di aumento di capitale di * s.r.l., non era stata contestata l’effettiva sussistenza dei costi per i servizi di ricerca prestati da *, ma soltanto il reale valore dei medesimi. Dacché la conseguenza che almeno per un importo ridotto l’effettività del debito di * verso * si sarebbe dovuta considerare incontroversa, e dunque non si sarebbe potuto considerare fittizio il finanziamento effettuato da * onde soddisfare il debito stesso.

Col terzo motivo infine i ricorrenti denunziano la violazione e falsa applicazione degli artt. 115, 116, 194 e 829 c.p.c. e art. 2497 c.c. in ordine alla pronuncia di risarcimento dei danni, censurando la sentenza per aver totalmente travisato la fattispecie e per aver errato nella determinazione del danno risarcibile.

II. - In relazione al primo mezzo non può farsi a meno di notare che la corte d’appello di Firenze ha mancato di specificare quando fosse stata stipulata la convenzione di arbitrato. Si è limitata a osservare che l’allora secondo motivo di impugnazione, per come prospettato, era inammissibile, "non ricorrendo in relazione alla diffusa contestazione di errores in iudicando, la dedotta violazione integrante il caso di nullità prevista dall’art. 829 c.p.c., comma 3, seconda parte".

Ora i ricorrenti sostengono che la convenzione di arbitrato era stata stipulata il 10-10-2002, all’atto della costituzione della * s.r.l., cosicché il regime giuridico conferente sarebbe stato da individuare nell’art. 829 c.p.c., comma 2, nel testo anteriore al D.Lgs. n. 40 del 2006, il quale, come noto (e come meglio si dirà), non operava distinzioni, in tema di arbitrato, tra regole di diritto ordinarie e regole di diritto involgenti principi di ordine pubblico.

La tesi dei ricorrenti è fondata nei termini che seguono.

III. - L’impugnata sentenza è manifestamente errata quanto al problema delle modalità di deduzione dell’errore di diritto (si dice: "per come prospettato").

Occorre infatti sottolineare che, quale che sia, o quale che sia stata, la modalità di deduzione (o di prospettazione) dell’errore in iure non rileva affatto.

Si era dinanzi a una questione giuridica, sicché ciò che la corte d’appello avrebbe dovuto considerare era solo il regime d’impugnazione del lodo: se cioè fosse o meno ammissibile, nella concreta fattispecie, impugnare il lodo per violazione di regole di diritto, così come era stato fatto.

Nonostante le dianzi citate regole fossero state qualificate, nell’impugnazione del lodo, come regole di ordine pubblico, la corte d’appello - ove l’impugnazione per errores in iudicando fosse stata ammissibile - avrebbe dovuto esaminare comunque le censure proposte, perché implicanti un rilievo di mancata osservanza di regole di diritto.

IV. - Oltre che da tale errore, la sentenza è inficiata anche dall’omesso accertamento del dato essenziale in base al quale discernere il regime giuridico pertinente all’impugnazione del lodo, che è legato all’epoca di stipulazione della clausola compromissoria.

I ricorrenti hanno affermato che la clausola compromissoria era risalente al 2002. In ordine a simile circostanza, e in ogni caso in ordine all’epoca di stipulazione della clausola compromissoria, la corte fiorentina non ha svolto alcuna considerazione.

Occorre dire che, almeno in termini impliciti, la medesima circostanza sembra confermata anche dal controricorso, mercè l’affermazione che in data successiva all’entrata in vigore della riforma di cui al D.Lgs. n. 40 del 2006 lo statuto della società - "contenente la clausola compromissoria" era stato modificato nella (sola) parte relativa alla nomina dell’arbitro unico, senza "minimamente alterare le regole di impugnazione dei lodo rese sulla base della clausola stessa".

L’accertamento a tal riguardo è naturalmente riservato al giudice del merito, ma può osservarsi che, in base a quanto nel controricorso riferito, sembra abbastanza chiaro che la clausola compromissoria statutaria era preesistente al 2006 ed era stata adeguata al nuovo regime relativo alle sole modalità di nomina dell’arbitro. Il che rileva anche ai fini di cui al D.Lgs. n. 5 del 2003, art. 34 onde affermare che l’arbitrato in questione era soggetto alla disciplina speciale citata; la quale disciplina - giova ulteriormente rammentare - è applicabile ove le clausole compromissorie siano giustappunto contenute in atti costitutivi o, attesa l’equiparazione derivante dall’art. 2328 c.c., in statuti.

V. - Da questo punto di vista l’insistito riferimento della parte controricorrente alla mancata specificazione, nell’avverso ricorso, del contenuto della clausola e al mancato deposito dello statuto non assume alcuna rilevanza.

Tanto sarebbe da associare a un presunto difetto di autosufficienza, ma gli è che la diretta verifica della clausola (o dello statuto) da parte di questa Corte non è affatto indispensabile (come invece si dice nel controricorso) in vista della decisione.

Non lo è perché non questa Corte Suprema ma il giudice del merito doveva (e dovrà) accertare l’effettivo contenuto della clausola detta al fine di stabilire la fondatezza o meno delle censure in ordine agli errori di diritto asseritamente commessi dall’arbitro.

In effetti la parte controricorrente ha aggiunto che la appena accennata modifica della clausola statutaria sarebbe stata altresì conforme alla volontà "di assoggettare la clausola compromissoria de qua al nuovo regime introdotto dall’art. 829 c.p.c., comma 3". Ma anche in tal caso deve osservarsi che non è questa la sede per stabilire il fondamento o meno di tale affermazione, giacché essa postula accertamenti e valutazioni in fatto istituzionalmente riservati al giudice del merito.

VI. - Quel che invece rileva è il complesso di principi che avrebbe dovuto governare la valutazione della corte d’appello.

A questo fine è necessario premettere che si trattava pacificamente di un arbitrato societario regolato dal D.Lgs. n. 5 del 2003, art. 36.

L’art. 36 si poneva, e si pone, in relazione di specialità con la disciplina ivi appositamente richiamata, che era quella dell’allora art. 829 c.p.c., comma 2.

Vi è però che l’originario testo dell’art. 829 c.p.c., comma 2, prevedeva che, salvo deroghe convenzionali, i lodi arbitrali fossero sempre impugnabili per violazione di norme di diritto sostanziale; mentre nel suo nuovo testo, introdotto dal D.Lgs. n. 40 del 2006, art. 24, l’art. 829, comma 3, prevede all’opposto che l’impugnazione dei lodi arbitrali per violazione di norme di diritto sostanziale è ammessa solo "se espressamente disposta dalle parti o dalla legge".

In concreto ciò equivale a dire che il silenzio delle parti stipulanti rendeva in origine impugnabile il lodo arbitrale anche per violazione delle norme di diritto sostanziale. Mentre così non è in base all’art. 829, comma 3.

VII. - Come questa Corte, a sezioni unite, ha già affermato, l’art. 829, comma 3, riformulato dal D.Lgs. n. 40 del 2006, art. 24, si applica, ai sensi della disposizione transitoria di cui all’art. 27 del D.Lgs. n. 40 cit., a tutti i giudizi arbitrali promossi dopo l’entrata in vigore della novella - il che è quanto sostenuto in questa causa dalla parte controricorrente.

Tuttavia, ai fini dell’ammissibilità dell’impugnazione per violazione delle regole di diritto sul merito della controversia, la legge - cui l’art. 829, comma 3, rinvia - va identificata in quella vigente al momento della stipulazione della convenzione di arbitrato. Sicché si è detto, in caso di convenzione cd. di diritto comune stipulata anteriormente all’entrata in vigore della nuova disciplina, nel silenzio delle parti deve intendersi ammissibile l’impugnazione del lodo, così disponendo l’art. 829 c.p.c., comma 2, nel testo previgente, salvo che le parti stesse abbiano autorizzato gli arbitri a giudicare secondo equità o abbiano dichiarato il lodo non impugnabile (Cass. Sez. U n. 9284-16).

VIII. - La citata affermazione giurisprudenziale riguarda specificamente la convenzione arbitrale di diritto comune.

È un fatto però che, per l’arbitrato societario, al cui novero appartiene quello ora all’esame, viene in rilievo il D.Lgs. n. 5 del 2003, art. 36 cit., secondo il quale, "anche se la clausola compromissoria autorizza gli arbitri a decidere secondo equità ovvero con lodo non impugnabile, gli arbitri debbono decidere secondo diritto, con lodo impugnabile anche a norma dell’art. 829 c.p.c., comma 2, quando per decidere abbiano conosciuto di questioni non compromettibili ovvero quando l’oggetto del giudizio sia costituito dalla validità di delibere assembleari".

Il coordinamento tra le due previsioni va fatto tenendo presente che le stesse sezioni unite di questa Corte, con coeva decisione, hanno altresì rimarcato che, in caso di clausola compromissoria societaria, inserita nello statuto anteriormente alla novella, è ammissibile l’impugnazione del lodo per errores in iudicando ove "gli arbitri, per decidere, abbiano conosciuto di questioni non compromettibili ovvero quando l’oggetto del giudizio sia costituito dalla validità delle delibere assembleari", così espressamente disponendo la legge di rinvio, da identificarsi appunto con il D.Lgs. n. 5 del 2003, art. 36 (Cass. Sez. U n. 9285-16).

La decisione lascia aperto il problema laddove - come nella specie l’oggetto della controversia arbitrale implichi la cognizione di questione compromettibile ma non sia costituito dalla validità di impugnative di deliberazioni assembleari.

Infatti per stabilire l’oggetto di un arbitrato è necessario riferirsi alla domanda arbitrale. E si apprende dalla sentenza impugnata che la domanda arbitrale aveva avuto a oggetto, nel caso concreto, la semplice "nullità o inefficacia degli aumenti di capitale di XXXXXXXX s.r.l. sottoscritti da XXXX s.p.a. rispettivamente il 12 ottobre 2005 e il 27 marzo 2007" - il primo perché avvenuto mediante conferimento di un credito fittizio vantato da XXXX s.p.a. nei confronti di società terza (* s.r.l.), il secondo perché avvenuto previa attribuzione al socio * s.p.a. di un diritto di opzione corrispondente alla partecipazione societaria derivante dal primo aumento di capitale fittizio. Il tutto con l’aggiunta della domanda risarcitoria.

In sostanza, oggetto di arbitrato non era stata la validità o meno delle delibere assembleari di aumento di capitale (per le quali l’impugnativa per violazione di regole di diritto sarebbe stata certa, in base a Cass. Sez. U n. 9285-16), ma solo la validità delle conseguenti sottoscrizioni. Il che - si badi - è riconosciuto dagli stessi ricorrenti, i quali, illustrando il terzo motivo di ricorso, hanno specificato che finanche il lodo - in linea (deve ritenersi) con la domanda - non aveva "mai dichiarato nulle le deliberazioni di aumento di capitale di *, bensì le sottoscrizioni da parte di *".

IX. - In simile contesto, la soluzione non può che replicare l’esito della prima pronuncia sopra citata (Cass. Sez. U n. 9284-16).

Venendo in questione una clausola compromissoria societaria anteriore alla riforma del 2006, il rapporto di specialità corrente tra il D.Lgs. n. 5 del 2003, art. 36 e l’art. 829 c.p.c. pone in generale il problema della natura del rinvio: se cioè da intendere in senso materiale (al precedente testo, come indurrebbe a ritenere il riferimento al comma 2, che solo in quel testo disciplinava l’impugnazione del lodo), o in senso formale (e dunque al nuovo testo della norma richiamata).

Epperò tale problema, variamente affrontato in dottrina, qui non incide granché, dal momento che l’arbitrato ha trovato fondamento in una clausola compromissoria che si assume anteriore alla novella ex D.Lgs. n. 40 del 2006, cui si deve l’attuale testo dell’art. 829 c.p.c., comma 3.

È considerazione dirimente che il legislatore, con la speciale disciplina del D.Lgs. n. 5 del 2003, art. 36, ha inteso escludere la possibilità delle parti di rinunciare alla impugnabilità del lodo per errores in iudicando quando oggetto della controversia sia la validità di una delibera assembleare. Il che, per le clausole compromissorie societarie anteriori al D.Lgs. n. 40 del 2006, postulava (e postula) la portata inequivocabilmente derogatoria dell’art. 36 citato rispetto al testo pro tempore dell’art. 829 c.p.c., comma 2, mercè l’imposizione della pronuncia secondo diritto, e dunque della conseguente impugnabilità del lodo per errores in iudicando, anche contro l’originaria volontà delle parti, quando per decidere si fosse conosciuto di "questioni non compromettibili" ovvero quando l’oggetto del giudizio fosse stato costituito dalla "validità di delibere assembleari".

Quando invece la controversia avesse avuto un oggetto distinto implicante la cognizione di questioni compromettibili ma non inerenti alla validità di deliberazioni assembleari - la soluzione circa le condizioni di impugnabilità del lodo si sarebbe dovuta far discendere direttamente dall’art. 829, comma 2, in esatta sintonia con la disciplina arbitrale di diritto comune. E questo perché l’art. 829, comma 3, riformulato dal D.Lgs. n. 40 del 2006, art. 24, applicandosi, ai sensi della disposizione di cui all’art. 27 del medesimo D.Lgs., a tutti i giudizi arbitrali promossi dopo l’entrata in vigore della novella (come quello in esame), impone di considerare il rinvio, ai fini dell’ammissibilità dell’impugnazione per violazione delle regole di diritto sul merito della controversia, come operato alla legge vigente al momento della stipulazione della convenzione di arbitrato.

X. - In conclusione: (a) nella concreta fattispecie occorreva accertare se clausola compromissoria societaria fosse o meno anteriore al 2006, poiché l’oggetto dell’arbitrato non implicava un giudizio sulla validità delle deliberazioni, ma solo sulla validità della sottoscrizione degli aumenti di capitale (e sul danno), e poiché per decidere sul merito non risulta che l’arbitro dovesse estendere l’esame incidentale su questioni non compromettibili; (b) la corte d’appello non avrebbe potuto escludere l’ammissibilità delle censure di violazione di regole di diritto sol perché tali regole erano state invocate - senza esserlo - come regole di ordine pubblico.

Da questo punto di vista, completando la considerazione all’inizio svolta, va sottolineato che l’elemento inerente al come quelle regole fossero state invocate non interessa affatto, chiarissimo essendo che la norma, in caso di avvenuta deduzione di un error in iudicando in iure, viene in questione per quella che è. Per cui, ove con l’impugnazione sia consentito dedurre errori di tal genere, è compito del giudice stabilire se in concreto l’errore dedotto sussista, indipendentemente dalla qualificazione che delle norme afferenti sia stata data dall’impugnante.

In relazione ai sopra detti profili la corte d’appello di Firenze ha mancato di cogliere gli essenziali aspetti della controversia, finendo per sottrarsi alla verifica che il regime giuridico le imponeva quanto alla denuncia di possibili errori di diritto arbitrali.

La sentenza va cassata in relazione al primo motivo.

Ciò comporta l’assorbimento dei restanti.

La causa va rinviata alla medesima corte d’appello, in diversa composizione, ai fini dell’esame nel merito delle censure svolte.

Essa in particolare si atterrà al seguente principio: "in caso di clausola compromissoria societaria, inserita nello statuto anteriormente alla novella di cui al D.Lgs. n. 40 del 2006, è ammissibile l’impugnazione del lodo per errores in iudicando anche ove, per decidere, gli arbitri abbiano conosciuto di questioni compromettibili e il giudizio non abbia a oggetto l’invalidità di delibere assembleari, poiché il riferimento del D.Lgs. n. 5 del 2003, art. 36 all’art. 829 c.p.c. va sì correlato al nuovo comma 3 della disposizione citata, ma pur sempre implica che, per stabilire se l’impugnazione sia ammessa dalla legge, si abbia riguardo alla legge vigente al momento della stipulazione della convenzione di arbitrato".

La corte d’appello provvederà anche sulle spese del giudizio svoltosi in questa sede di legittimità.

 

P.Q.M.

La Corte accoglie il primo motivo di ricorso, assorbiti gli altri; cassa l’impugnata sentenza e rinvia, anche per le spese del giudizio di cassazione, alla corte d’appello di Firenze.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della prima sezione civile, il 5 febbraio 2019.

Depositato in Cancelleria il 22 maggio 2019