Crisi d'Impresa e Insolvenza


Il Caso.it, Sez. Giurisprudenza, 21297 - pubb. 27/02/2019

Formazione del consenso dei creditori e illegittima formazione delle classi. Legittimazione alla proposta concorrente del mandatario alla gestione dei crediti

Tribunale Napoli, 02 Febbraio 2018. Est. Maffei.


Concordato preventivo – Proposta concorrenti – Legittimazione – Mandatario alla gestione dei crediti – Esclusione

Concordato preventivo – Classi – Criteri di formazione – Collocamento in classi diverse di creditori con stessa posizione giuridica ed interessi economici omogenei – Esclusione



La proposta concorrente di concordato preventivo presuppone la titolarità in capo al proponente di crediti nei confronti del debitore, requisito, questo, che non può ritenersi sussistente in capo al soggetto incaricato della gestione dei crediti medesimi in forza di apposito mandato. (Franco Benassi) (riproduzione riservata)

Nel concordato preventivo, i creditori aventi la stessa posizione giuridica ed interessi economici omogenei non possono essere collocati in classi diverse riservando loro un trattamento differente. (Franco Benassi) (riproduzione riservata)


Massimario Ragionato



Segnalazione del Dott. Matteo Mantovani


1. - L’art. 163, comma 4, l.fall. attribuisce la facoltà di presentare una proposta concorrente ai creditori che, anche per effetto di acquisti successivi alla presentazione della domanda, vantano crediti pari ad almeno al 10% dei crediti risultanti dalla situazione patrimoniale, situazione che la dottrina preferisce intendere come riferita all’elenco dei creditori. Sebbene l’esegesi della norma veda contrapporsi all’orientamento che limita la legittimazione ai creditori concorsuali, - consentendo solo a chi già rivestiva tale qualità di acquistare ulteriori crediti fino al raggiungimento della soglia minima del 10% -, la dottrina prevalente che, anche prendendo spunto dalla Relazione illustrativa del D.L. n. 83 del 2015, preferisce leggere la disposizione nel senso che anche un terzo, che diventi creditore per acquisti successivamente al deposito del ricorso da parte del debitore, possa presentare una proposta concorrente, l’assunto comune da cui muovono entrambe le riportate elaborazioni concettuali àncora la legittimazione del proponente all’avvenuto acquisto dei crediti de quibus. La prima questione giuridica da dirimere, dunque, riguarda la qualificazione giuridica dei negozi intercorsi tra la (*) e gli istituti di credito cedenti i crediti asseritamente acquistati: secondo la prospettazione della società debitrice, si sarebbe in presenza di un mandato irrevocabile alla gestione dei crediti ceduti in vista del conseguimento delle necessarie maggioranze nell’ambito della procedura concordataria; secondo l’opposta ricostruzione della società proponente, il negozio configurerebbe una vera e propria cessione del credito. È ben noto che la cessione del credito è un negozio a causa variabile che può assolvere a diverse funzioni (vendita, donazione, adempimento, garanzia, mandato), nel quale il trasferimento del credito può avvenire a titolo gratuito o oneroso ed al quale si applica il principio della cosiddetta “presunzione di causa”, che può anche non essere indicata nello stesso negozio. (Cass. n. 14610 del 2004; in senso conforme Cass. n. 20143 del 2005). Questo orientamento trae giustificazione direttamente dalle implicazioni discendenti dalla stessa natura del negozio di cessione, che ha causa variabile, come ebbe ad osservare una non recente decisione, affermando che “nella disciplina della cessione di crediti la legge prescinde dallo scopo per cui si attua il trasferimento di crediti e si interessa unicamente dei suoi effetti; conseguentemente la struttura e la essenza del contratto non muta qualunque sia lo scopo (a titolo oneroso, a titolo gratuito o a titolo di garanzia)”(così Cass. n. 1518 del 1964; si vedano, pur, sulla cd. variabilità della causa Cass. n. 1244 del 1963 e n. 3004 del 1973). Ne discende che, sebbene il cessionario non debba dimostrare la causa della cessione, il debitore ceduto - cui, dato il carattere astratto del negozio di cessione, sono indifferenti vizi inerenti al rapporto causale sottostante -, è abilitato ad indagare sull’esistenza e sulla validità estrinseca e formale della cessione nonché sulla causa giustificativa del dedotto effetto traslativo allorquando dall’individuazione di quest’ultima possano derivare particolari e diversi effetti con riguardo alla sua posizione sostanziale (Cass. n. 1289 del 1968; in precedenza Cass. n. 423 del 1962. successivamente, Cass. n. 1257 del 1988 e Cass. n. 1510 del 2001; Cassazione civile, sez. III, 03/04/2009, n. 8145 Cassazione civile 15 marzo 2010 n. 6205 sez. lav. Cassazione civile 12 febbraio 2010 n. 3373 sez. III). Dando continuità all’orientamento sopra sinteticamente riportato, per risolvere il punto controverso in esame è necessario analizzare il contenuto dei summenzionati contratti di cessione, così da valorizzarne gli elementi caratteristici ai fini del loro inquadramento giuridico. Ebbene, reputa il Tribunale che detta analisi conduca a qualificare il negozio in questione come mandato alla gestione dei crediti, così aderendo all’impostazione della società debitrice.

Depongono in questo senso, non solo la previsione di un corrispettivo per la cessione meramente simbolico (un Euro) previsto dalle parti, ma anche le restanti clausole del convenuto regolamento contrattuale che, da un lato, determinano il corrispettivo “reale” all’esito della procedura concordataria e, dall’altro, nel prevedere un patto di retrovendita, subordinano la facoltà della cessionaria di alienare i crediti ceduti all’assenso delle banche cedenti. Appare evidente, quindi, che le parti, circoscrivendo gli effetti della pattuita cessione, a prescindere dalla qualificazione formale, abbiano inteso concludere un contratto di mandato, laddove, la ratio sottesa alla norma (art. 163 l. fall.) induce a riconoscere la legittimazione a presentare la proposta concorrente esclusivamente a coloro che siano divenuti creditori mediante l’acquisto dei crediti. Tale ratio è raffigurata nella relazione al disegno di legge per la conversione del D.L. n. 83 del 2015, ove è spiegato che uno degli “obiettivi” del legislatore è quello di “creare i presupposti per la nascita, anche in Italia, di un mercato dei distressed debt, già da tempo sviluppatosi in altri P. (*) in modo da consentirne un significativo smobilizzo”. Infatti, fra detti “presupposti” pare esservi proprio la limitazione della legittimazione ai soli creditori. Se questa limitazione non vi fosse, gli eventuali interessati potrebbero avanzare proposte concorrenti senza bisogno di acquistare crediti e, quindi, senza movimentare il mercato dei crediti non performanti; viceversa, in presenza di quella limitazione, “gli eventuali investitori interessati a compiere un’operazione di acquisto e risanamento di un’impresa in concordato” avranno l’onere, “per poter presentare una proposta alternativa”, di “acquistare crediti nei confronti dell’impresa in concordato; onere che pertanto costituisce, nel disegno del legislatore, una precondizione per poter dar vita all’auspicato “mercato dei distrussed debt”. Non potendosi, in definitiva, ravvisare, nei contratti stipulati un autentico acquisto dei crediti ceduti ed apparendo la cessione esclusivamente “nominale”, in quanto prettamente funzionale all’attuazione di un mandato di gestione, la (*) appare carente di legittimazione a presentare la formulata proposta concorrente.

 

2. - Proseguendo nel vaglio delle condizioni di ammissibilità della proposta de qua, il Collegio non può non constatare la carenza della relazione di cui al comma terzo dell’articolo 161 con specifico riguardo ai profili attinenti alla fattibilità del piano per gli aspetti che non sono stati oggetto di verifica da parte del commissario giudiziale. Ai fini della valutazione che il Tribunale è chiamato a rendere giova premettere che questo Collegio condivide - pur nella consapevolezza delle diverse opzioni interpretative proposte in dottrina - la tesi che attribuisce all’organo giudiziario un ruolo non esclusivamente e meramente volto all’accertamento dei requisiti formali estrinseci di ammissibilità alla procedura concordataria, bensì un ruolo che, pur non travalicando nel merito delle scelte proposte e della loro convenienza per il ceto creditorio, si estende alla verifica del possesso sostanziale dei requisiti di ammissione, fra cui la “fattibilità” del piano quale in concreto percorribile e certificata nella relazione di accompagnamento alla proposta, di cui all’art. 161 c. 2 l.fall. Non avrebbe, infatti, giustificazione effettiva la facoltà che l’art. 162 c. 1 l.fall. prevede, sulla possibilità del Tribunale di richiedere non solo la produzione di “nuovi documenti”, bensì anche di “apportare integrazioni al piano”, inciso che evidentemente non suppone mere incompletezze formali ma anche la necessità di integrare dati contabili, temporali, ecc. tali da meglio chiarificare la effettiva fattibilità della proposta e mettere in condizione i creditori di esprimere una valutazione ponderata in vista della votazione di cui agli artt. 177 e 178 l.fall. Con particolare riferimento al procedimento in esame occorre considerare quanto espresso dalla nota Cass. S.U. 23 gennaio 2013, secondo cui “Il giudice ha il dovere di esercitare il controllo di legittimità sul giudizio di fattibilità della proposta di concordato, non restando tale giudizio escluso dall’attestazione del professionista, mentre resta riservata ai creditori la valutazione in ordine al merito del detto giudizio, che ha ad oggetto la probabilità di successo economico del piano ed i rischi inerenti. Il controllo di legittimità del giudice si realizza facendo applicazione di un unico e medesimo parametro nelle diverse fasi di ammissibilità, revoca ed omologazione in cui si articola la procedura di concordato preventivo, verificando l’effettiva realizzabilità della causa concreta della procedura di concordato; quest’ultima, la quale deve essere intesa come obiettivo specifico perseguito dal procedimento, non ha contenuto fisso e predeterminabile, essendo dipendente dal tipo di proposta formulata, ma deve comunque essere finalizzata, da un lato, al superamento della situazione di crisi dell’imprenditore e, dall’altro, all’assicurazione di un soddisfacimento, sia pur ipoteticamente modesto e parziale, dei creditori”. In altri termini, ferma la valutazione dei creditori in ordine alla fattibilità economica della soluzione concordataria proposta, il Tribunale è comunque chiamato a valutare la legittimità della stessa, a vigilare sulla regolarità del procedimento, a sovraintendere e garantire la più corretta e trasparente informazione ai creditori (vero e proprio presupposto logico giuridico del consenso che essi sono chiamati ad esprimere) nonché a valutare la sussistenza della “causa concreta” della proposta concordataria oggetto dell’auspicata accettazione da parte dei creditori, sia pure nei casi limite in cui appaia prima facie o l’organo commissariale motivatamente evidenzi l’assenza di verosimile soddisfacimento per il ceto chirografario. Il sindacato di fattibilità non resta difatti escluso dall’attestazione del professionista. Rimane invece riservata ai creditori la valutazione in ordino al merito del detto giudizio, che ha a oggetto la probabilità di successo economico del piano e i rischi inerenti. Quest’ultimo concetto va peraltro razionalmente inteso in rapporto a quanto precisato a proposito della verifica della causa concreta del concordato stesso. E va poi calibrato sul profilo del concordato in continuità aziendale.

Dal primo punto di vista deve essere posta in adeguata luce l’implicazione generale del concetto, laddove si è detto che, realizzandosi il controllo di legittimità in “applicazione di un unico e medesimo parametro nelle diverse fasi di ammissibilità, revoca ed omologazione in cui si articola la procedura di concordato preventivo”, esso deve attuarsi mediante la diretta verifica della “effettiva realizzabilità della causa concreta”. Quest’ultima - la causa concreta - è da intendersi “come obiettivo specifico perseguito dal procedimento”, donde essa non ha un contenuto fisso e predeterminabile, essendo dipendente dal tipo di proposta formulata, pur se inserita - codesta - nel generale quadro di riferimento finalizzato al superamento della situazione di crisi dell’imprenditore e all’assicurazione di un soddisfacimento, sia pur ipoteticamente modesto e parziale, dei creditori. È evidente che l’esplicito riferimento alla causa concreta, evocando il richiamo di una prospettiva funzionale, suppone un controllo sul contenuto della proposta finalizzato a stabilirne l’idoneità ad assicurare la rimozione dello stato di crisi mediante il previsto soddisfacimento dei crediti rappresentati. Ciò significa che la verifica di fattibilità; proprio in quanto correlata al controllo della causa concreta del concordato, comprende necessariamente anche un giudizio di idoneità, che va svolto rispetto all’assetto di interessi ipotizzato dal proponente in rapporto ai fini pratici che il concordato persegue. Difatti non può esser predicato il primo concetto (il “controllo circa l’effettiva realizzabilità della causa concreta”) se non attraverso l’estensione al di là del mero riscontro di legalità degli atti in cui la procedura si articola, e al di là di quanto attestato da un generico riferimento all’attuabilità del programma. Da questo punto di vista non è esatto porre a base del giudizio una summa divisio tra controllo di fattibilità giuridica astratta (sempre consentito) e un controllo di fattibilità economica (sempre vietato). Il giudice, in verità, è tenuto a una verifica diretta del presupposto di fattibilità del piano per poter ammettere il debitore al concordato, e la differenza (nozionistica) appena richiamata è funzionale a chiarire che, mentre il sindacato del giudice sulla fattibilità giuridica, intesa come verifica della non incompatibilità del piano con norme inderogabili, non incontra particolari limiti, il controllo sulla fattibilità economica, intesa come realizzabilità nei fatti del medesimo, può essere svolto nei limiti nella verifica della sussistenza o meno di una manifesta inettitudine del piano a raggiungere gli obbiettivi prefissati, individuabile caso per caso in riferimento alle specifiche modalità indicate dal proponente per superare la crisi. Tanto vuol dire non solo che non è vero che il controllo di fattibilità economica, per usare l’espressione fin qui impiegata, sia in sé vietato (v. Cass. n. 11497-14, da ultimo, Cass. n. 26329-16). Vuol dire anche che, nella prospettiva funzionale, è sempre sindacabile la proposta concordataria ove totalmente implausibile. È difatti riservata ai creditori solo la valutazione di convenienza di una proposta plausibile, rispetto all’alternativa fallimentare, oltre che, ovviamente, la specifica realizzabilità della singola percentuale di soddisfazione per ciascuno di essi. I riportati principi tanto più vengono in rilievo quando si discorra di concordato in continuità aziendale supponente, come nella specie, un piano industriale pluriennale inteso a generare specifici flussi di cassa. In tal caso la rigorosa verifica della fattibilità “in concreto” presuppone un’analisi inscindibile dei profili giuridici ed economici, volta che il piano con continuità deve essere idoneo a dimostrare la sostenibilità finanziaria della continuità stessa. Tanto che esso deve contenere l’analitica indicazione dei costi e dei ricavi attesi dalla prosecuzione dell’attività, delle risorse necessarie e delle relative modalità di copertura (l.fall., art. 186-bis). È da puntualizzare che se è vero che il concordato con continuità aziendale non si atteggia, nel sistema, come un istituto diverso e “nuovo”, ma come semplice modalità del concordato stesso, è però anche logico che, per le caratteristiche che lo distinguono e per le particolari norme di favore attraverso le quali è agevolata la continuazione dell’impresa in crisi, esso debba esser circondato da una serie di cautele inerenti il piano e l’attestazione, tese a evitare il rischio di un aggravamento del dissesto a danno dei creditori. Invero la prosecuzione dell’attività deve essere comunque “funzionale al miglior soddisfacimento dei creditori” (ancora art. 186-bis). In definitiva, il piano concordatario che, come atto programmatico, il debitore è libero di formulare, condizionando l’esercizio e la realizzazione dei diritti di terzi, paralizzati dal divieto di azioni esecutive per la durata della procedura (l.fall., art. 168) ed esposti a una falcidia in certo qual modo aggravata dal concorso di creditori aventi diritto alla prededuzione o al pagamento anticipato (artt. 161 e 182-quinquies), suppone sempre un vaglio rigoroso, da parte del giudice, su tutti i presupposti e gli atti preparatori e strumentali condizionanti. Esplicitamente, d’altronde, l’art. 186-bis, u.c., attribuisce al giudice il compito di verificare, ai sensi della l.fall., art. 173, che l’esercizio dell’impresa, per come ipotizzato nel piano, non risulti infine manifestamente dannoso per i creditori. Cosicché l’alea che ne circonda l’esecuzione, e che è rimessa all’accettazione dei creditori, non si estende alla valutazione di esistenza effettiva dei presupposti della soluzione concordataria per come indicata nel piano e di inesistenza delle condizioni di manifesta dannosità. Ciò posto, svolgendo il sindacato che la fattispecie richiede in linea coi citati principi, il Tribunale non può non pervenire ad una valutazione di manifesta inattitudine del piano concordatario proposto dalla società concorrente in rapporto agli elementi evidenziati dal commissario giudiziale e dalla stessa società proponente. La proposta concorrente presentata dalla (*) è sostanzialmente differente da quella presentata da (*) in quanto prevede il soddisfacimento dei crediti dopo le dismissioni delle navi, in un arco temporale molto ampio durante il quale verrà gestita parte della flotta, nel frattempo non dismessa, e le cui utilità andranno a beneficio dei creditori. Si tratta, dunque, di una proposta concordataria caratterizzata dalla continuità aziendale indiretta propedeutica GDal primo punto di vista deve essere posta in adeguata luce l’implicazione generale del concetto, laddove si è detto che, realizzandosi il controllo di legittimità in “applicazione di un unico e medesimo parametro nelle diverse fasi di ammissibilità, revoca ed omologazione in cui si articola la procedura di concordato preventivo”, esso deve attuarsi mediante la diretta verifica della “effettiva realizzabilità della causa concreta”. Quest’ultima - la causa concreta - è da intendersi “come obiettivo specifico perseguito dal procedimento”, donde essa non ha un contenuto fisso e predeterminabile, essendo dipendente dal tipo di proposta formulata, pur se inserita - codesta - nel generale quadro di riferimento finalizzato al superamento della situazione di crisi dell’imprenditore e all’assicurazione di un soddisfacimento, sia pur ipoteticamente modesto e parziale, dei creditori. È evidente che l’esplicito riferimento alla causa concreta, evocando il richiamo di una prospettiva funzionale, suppone un controllo sul contenuto della proposta finalizzato a stabilirne l’idoneità ad assicurare la rimozione dello stato di crisi mediante il previsto soddisfacimento dei crediti rappresentati. Ciò significa che la verifica di fattibilità; proprio in quanto correlata al controllo della causa concreta del concordato, comprende necessariamente anche un giudizio di idoneità, che va svolto rispetto all’assetto di interessi ipotizzato dal proponente in rapporto ai fini pratici che il concordato persegue. Difatti non può esser predicato il primo concetto (il “controllo circa l’effettiva realizzabilità della causa concreta”) se non attraverso l’estensione al di là del mero riscontro di legalità degli atti in cui la procedura si articola, e al di là di quanto attestato da un generico riferimento all’attuabilità del programma. Da questo punto di vista non è esatto porre a base del giudizio una summa divisio tra controllo di fattibilità giuridica astratta (sempre consentito) e un controllo di fattibilità economica (sempre vietato). Il giudice, in verità, è tenuto a una verifica diretta del presupposto di fattibilità del piano per poter ammettere il debitore al concordato, e la differenza (nozionistica) appena richiamata è funzionale a chiarire che, mentre il sindacato del giudice sulla fattibilità giuridica, intesa come verifica della non incompatibilità del piano con norme inderogabili, non incontra particolari limiti, il controllo sulla fattibilità economica, intesa come realizzabilità nei fatti del medesimo, può essere svolto nei limiti nella verifica della sussistenza o meno di una manifesta inettitudine del piano a raggiungere gli obbiettivi prefissati, individuabile caso per caso in riferimento alle specifiche modalità indicate dal proponente per superare la crisi. Tanto vuol dire non solo che non è vero che il controllo di fattibilità economica, per usare l’espressione fin qui impiegata, sia in sé vietato (v. Cass. n. 11497-14, da ultimo, Cass. n. 26329-16). Vuol dire anche che, nella prospettiva funzionale, è sempre sindacabile la proposta concordataria ove totalmente implausibile. È difatti riservata ai creditori solo la valutazione di convenienza di una proposta plausibile, rispetto all’alternativa fallimentare, oltre che, ovviamente, la specifica realizzabilità della singola percentuale di soddisfazione per ciascuno di essi. I riportati principi tanto più vengono in rilievo quando si discorra di concordato in continuità aziendale supponente, come nella specie, un piano industriale pluriennale inteso a generare specifici flussi di cassa. In tal caso la rigorosa verifica della fattibilità “in concreto” presuppone un’analisi inscindibile dei profili giuridici ed economici, volta che il piano con continuità deve essere idoneo a dimostrare la sostenibilità finanziaria della continuità stessa. Tanto che esso deve contenere l’analitica indicazione dei costi e dei ricavi attesi dalla prosecuzione dell’attività, delle risorse necessarie e delle relative modalità di copertura (l.fall., art. 186-bis). È da puntualizzare che se è vero che il concordato con continuità aziendale non si atteggia, nel sistema, come un istituto diverso e “nuovo”, ma come semplice modalità del concordato stesso, è però anche logico che, per le caratteristiche che lo distinguono e per le particolari norme di favore attraverso le quali è agevolata la continuazione dell’impresa in crisi, esso debba esser circondato da una serie di cautele inerenti il piano e l’attestazione, tese a evitare il rischio di un aggravamento del dissesto a danno dei creditori. Invero la prosecuzione dell’attività deve essere comunque “funzionale al miglior soddisfacimento dei creditori” (ancora art. 186-bis). In definitiva, il piano concordatario che, come atto programmatico, il debitore è libero di formulare, condizionando l’esercizio e la realizzazione dei diritti di terzi, paralizzati dal divieto di azioni esecutive per la durata della procedura (l.fall., art. 168) ed esposti a una falcidia in certo qual modo aggravata dal concorso di creditori aventi diritto alla prededuzione o al pagamento anticipato (artt. 161 e 182-quinquies), suppone sempre un vaglio rigoroso, da parte del giudice, su tutti i presupposti e gli atti preparatori e strumentali condizionanti. Esplicitamente, d’altronde, l’art. 186-bis, u.c., attribuisce al giudice il compito di verificare, ai sensi della l.fall., art. 173, che l’esercizio dell’impresa, per come ipotizzato nel piano, non risulti infine manifestamente dannoso per i creditori. Cosicché l’alea che ne circonda l’esecuzione, e che è rimessa all’accettazione dei creditori, non si estende alla valutazione di esistenza effettiva dei presupposti della soluzione concordataria per come indicata nel piano e di inesistenza delle condizioni di manifesta dannosità. Ciò posto, svolgendo il sindacato che la fattispecie richiede in linea coi citati principi, il Tribunale non può non pervenire ad una valutazione di manifesta inattitudine del piano concordatario proposto dalla società concorrente in rapporto agli elementi evidenziati dal commissario giudiziale e dalla stessa società proponente. La proposta concorrente presentata dalla (*) è sostanzialmente differente da quella presentata da (*) in quanto prevede il soddisfacimento dei crediti dopo le dismissioni delle navi, in un arco temporale molto ampio durante il quale verrà gestita parte della flotta, nel frattempo non dismessa, e le cui utilità andranno a beneficio dei creditori. Si tratta, dunque, di una proposta concordataria caratterizzata dalla continuità aziendale indiretta propedeutica alla liquidazione delle navi costituenti il compendio aziendale. La perizia di asseverazione depositata a corredo della proposta concorrente ha come oggetto il solo business plan della (*) e le verifiche delle previsioni attese limitandosi ad affermazioni meramente apodittiche e, soprattutto, non prevede un surplus di risorse per far fronte a eventi suscettibili di incidere negativamente sugli ipotizzati flussi di cassa ovvero sulla necessità di procedere all’anticipata liquidazione di una parte delle navi ipotecate. In particolare, come evidenziato dalla società debitrice, le navi incluse nella classe IV (“passività assistite da garanzia ipotecaria su Flotta Core”) sono soggette alla previsione di una vendita obbligatoria nel caso i valori di mercato siano “pari o superiori” a valori prestabiliti; alla vendita (salvo waiver delle banche) dopo 5 anni e 3 mesi dalla data di omologa definitiva; alla possibilità per le banche di richiedere in ogni momento la vendita delle navi in caso di scostamento maggiore del 15% tra i costi operativi totali previsti a budget e i costi operativi totali effettivamente sostenuti. In relazione a tali programmate ed eventuali cessioni obbligatorie l’attestazione appare del tutto carente in merito all’incidenza degli scenari prospettabili sul piano di rimborso dei creditori inseriti nella classe IV nel momento in cui si rendesse necessario procedere alle previste vendite obbligatorie con evidenti ricadute sull’esercizio dell’attività imprenditoriale e, dunque, sui flussi di cassa prodotti. Le ripercussioni di una simile carenza previsionale, unitamente all’apoditticità dell’attestazione sopra evidenziata, ben possono giustificare una valutazione di intrinseca inettitudine della prosecuzione dell’esercizio dell’impresa secondo la prospettiva delineata. 3. - Osserva ancora il Collegio che l’inammissibilità della proposta emerge anche sotto l’ulteriore profilo dei criteri impiegati dalla (*) in ordine alla formazione delle classi creditorie. Al riguardo se è vero che, in astratto e in linea generale, nell’ambito della relativa discrezionalità che contraddistingue l’individuazione delle classi nella proposta concordataria, il proponente incontra esclusivamente il limite dell’omogeneità degli interessi economici e giuridici dei creditori, la formazione della classe non deve comunque derivare dalla cosciente volontà di formare una classe solo per forzare il raggiungimento della maggioranza delle classi. La valutazione della corretta formazione delle classi va, dunque, operata ex ante ed in concreto, posto che la verifica del rispetto del limite finalistico individuato dalla dottrina in modo così inequivoco (limite in sostanza riconducibile alla figura dell’abuso del diritto), non può che compiersi esaminando l’atto nel contesto in cui è stato posto in essere e valutando in particolare, secondo il normale procedimento logico - presuntivo, se dall’insieme delle circostanze evidenziate come sintomatiche della deviazione abusiva possa effettivamente desumersi l’operare di una scelta artificiosa di formazione di una classe, in quanto volta soltanto a propiziare artificialmente il raggiungimento delle prescritte maggioranze. In altri termini, a prescindere dalla prospettiva generale che s’intenda privilegiare nella ricostruzione dell’istituto delle classi (quella incentrata sulle condizioni di legittimazione del principio maggioritario ai fini della falcidia concordataria o quella dello strumento di flessibilizzazione dei trattamenti offerti ai creditori), una volta appurato che non è legittima la creazione di una classe come escamotage finalizzato alla pre-costituzione di un gruppo di creditori a priori assenziente, il percorso valutativo non può fermarsi alla constatazione che i componenti della classe creata presentino dei tratti astrattamente idonei a distinguerli dagli altri creditori secondo il criterio dell’interesse economico, dovendosi vagliare (quando ovviamente si è in presenza di elementi indiziari di un abuso dello strumento) quale sia l’effettivo scopo perseguito, ben potendosi peraltro verificare che anche alcuni dei tratti differenziatori (come ad esempio la diversificazione del trattamento) siano a loro volta realizzati artificiosamente ex post in quanto privi di ragionevole giustificazione tecnica nell’economia complessiva della proposta concordataria. Ciò premesso, nel caso in esame, come evidenziato nel parere reso dal commissario giudiziale, le banche creditrici sono tutte garantite da ipoteca sulle navi per finanziamenti concessi in funzione dell’acquisto delle stesse e sono quindi tutte caratterizzate da una posizione giuridica ed interessi economici omogenei. Tuttavia, la proposta della (*) colloca i predetti creditori in quattro classi distinte, basando tale divisione esclusivamente “sulla progettualità posta a base della proposta, riservando ad ognuna delle stesse un futuro trattamento economico differente. Non è pertanto condivisibile il motivo sottostante la suddivisione delle classi IV, V e VI, in quanto ancorché formate da soggetti che presentano caratteristiche omogenee, sia sotto l’aspetto giuridico (fondate su medesime garanzie ipotecarie) che sotto l’aspetto economico (circa l’aspettativa di soddisfazione dei crediti) subiscono un differente trattamento di ristoro”. In particolare, che la proponente abbia proceduto alla formazione delle classi secondo una prospettiva progettuale ex post, - e cioè fondata esclusivamente sull’assenso previamente manifestato da alcuni creditori alla soluzione proposta nonché alla captazione del consenso e, correlativamente, alla neutralizzazione dell’eventuale dissenso degli altri creditori -, si evince dalla strutturazione delle classi IV, V, VI. In tali classi, sono stati differenziati creditori che, pur vantando, ex ante, analoga posizione giuridica ed economica (creditori ipotecari navali assistiti da medesime garanzie), ricevono una differente collocazione in ragione soltanto del trattamento ad essi riservato ex post. Appare, pertanto, evidente che tale ripartizione ha come unico scopo il raggiungimento della maggioranza delle classi, non potendosi contrariamente sostenere in ragione della non prevedibilità del voto dei creditori. È tuttavia sufficiente al riguardo osservare che il voto favorevole della classe dei creditori bancari è pressoché scontata considerato che la (*) ha ammesso di aver raccolto il consenso degli istituti di credito in ordine alla proposta presentata, con la rinuncia ad avvalersi di qualsiasi rimedio avverso l’eventuale approvazione della proposta. Quest’ultima notazione, rivelando un conflitto di interessi trai creditori in questione ei restanti creditori concorsuali, avrebbe dovuto condurre alla collocazione dei primi in un’autonoma classe, unitamente alla proponente, ai sensi dell’art. 163, comma 6 l.fall. In conclusione, nel caso di specie la costituzione delle indicate classi dei creditori, in quanto operazione realizzata considerando le posizioni dei creditori ex post e quindi finalizzata, per le ragioni fin qui evidenziate, ad alterare il risultato del voto, deve giudicarsi illegittima integrando, per il segnalato abuso, una violazione del principio della buona fede, che, come principio generale operante in tutti i rapporti tra privati, esplica la sua funzione anche nell’ambito degli strumenti di regolazione della crisi d’impresa alternativi al fallimento, quale argine all’abuso delle facoltà che la legge riconosce al proponente il concordato.

P.Q.M.

Il Tribunale, definitivamente pronunciando, ogni ulteriore istanza, domanda ed eccezione disattesa, così provvede:

DICHIARA

Inammissibile la proposta concorrente di concordato.