Diritto Civile


Il Caso.it, Sez. Giurisprudenza, 21118 - pubb. 24/01/2019

Le espressioni ‘danno terminale’, ‘danno tanatologico’, ‘danno catastrofale’ non corrispondono ad alcuna categoria giuridica

Cassazione civile, sez. VI, 13 Dicembre 2018, n. 32372. Est. Rossetti.


Danno non patrimoniale - Definizione e declinazione - Danno terminale - Danno tanatologico - Danno catastrofale - Danno esistenziale - Danno da invalidità temporanea - Natura di danno biologico - Formido mortis - Natura di danno non patrimoniale



Le espressioni "danno terminale", "danno tanatologico", "danno catastrofale" non corrispondono ad alcuna categoria giuridica, ma possono avere al massimo un valore descrittivo, e neanche preciso.

Il danno da invalidità temporanea patito da chi sopravviva quodam tempore ad una lesione personale mortale è un danno biologico, da accertare con gli ordinari criteri della medicina legale, e da liquidare avendo riguardo alle specificità del caso concreto;

La formido mortis patita da chi, cosciente e consapevole, sopravviva quodam tempore ad una lesione personale mortale, è un danno non patrimoniale, da accertare con gli ordinari mezzi di prova, e da liquidare in via equitativa avendo riguardo alle specificità del caso concreto. (Redazione IL CASO.it) (riproduzione riservata)


 


REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 3

 

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DE STEFANO Franco - Presidente -

Dott. RUBINO Lina - Consigliere -

Dott. CIRILLO Francesco Maria - Consigliere -

Dott. ROSSETTI Marco - rel. Consigliere -

Dott. TATANGELO Augusto - Consigliere -

ha pronunciato la seguente:

 

ORDINANZA

 

Svolgimento del processo

1. L'(*), si verificò un sinistro stradale che coinvolse:

- l'autoveicolo Honda Civic condotto da M.A. ed assicurato contro i rischi della r.c.a. dalla società HDI Assicurazioni S.p.A., - il motociclo Honda GBR di proprietà di I.C., condotto da I.T. ed assicurato contro i rischi della r.c.a. dalla Reale Mutua Assicurazioni, sul quale era trasportata la moglie di quest'ultimo, C.F.

In conseguenza dell'impatto I.T. e C.F. persero la vita.

2. Nel 2002 i prossimi congiunti di I.T. E.B.D.L., I.D., I.R. e I.C.) convennero dinanzi al Tribunale di Torre Annunziata M.A. e la società HDI Assicurazioni s.p.a., chiedendone la condanna in solido al risarcimento dei danni rispettivamente patiti in conseguenza della morte del proprio congiunto I.T.

Esposero che la responsabilità del sinistro andava ascritta ad M.A. poichè, provenendo questi dall'opposto senso di marcia rispetto al motociclo condotto da I.T., eseguì un'improvvisa manovra di inversione ad "U", tagliando la strada a I.T. e rendendo inevitabile l'impatto tra i due mezzi.

3. Nel giudizio intervennero volontariamente C.G., G.R., C.L. e T.C. (rispettivamente, genitori, fratello ed ava di C.F.), formulando una domanda di condanna al risarcimento dei danni rispettivamente patiti in conseguenza della morte di C.F. sia nei confronti del proprietario del veicolo antagonista e del suo assicuratore ( M.A. e la HDI), sia nei confronti del proprietario del veicolo vettore e del suo assicuratore ( I.C. e la Reale Mutua Assicurazioni, che venne a tal fine chiamata in causa).

4. Con sentenza n. 1054 del 2007 il Tribunale di Torre Annunziata:

- dichiarò cessata la materia del contendere tra gli originari attori ( E.B.D.L., I.D., I.R. e I.C.) e la HDI, per sopravvenuta transazione;

- accertò che ciascuno dei conducenti aveva concausato il sinistro nella misura del 50%;

- condannò in solido M.A., I.C., la HDI e la Reale Mutua al risarcimento del danno patito dai quattro interventori nella seguente misura:

a) Euro 161.807 a favore di C.G. (padre della vittima);

b) Euro 176.100 a favore di G.R. (madre della vittima);

c) Euro 70.000 a favore di C.L. (fratello della vittima);

d) Euro 15.000 a favore di T.C. (ava della vittima).

5. La sentenza venne appellata in via principale da C.G., G.R. e C.L.; ed in via incidentale dalla Reale Mutua.

Con sentenza 28.5.2015 n. 2432 la Corte d'appello di Napoli rigettò l'appello incidentale ed accolse in parte l'appello principale.

La Corte d'appello ritenne che:

a) la stima del danno non patrimoniale patito dai genitori e dal fratello di C.F. fu erronea per difetto, tenuto conto delle circostanze del caso concreto e dei valori previsti dalle più diffuse tabelle usate dalla giurisprudenza di merito per l'aestimatio del danno in esame;

b) il risarcimento del danno non patrimoniale andasse perciò liquidato nella misura di euro 280.000 per ciascun genitore, ed euro 130.000 per il fratello della vittima;

c) gli interventori non avevano nè dedotto, nè provato, alcuna circostanza peculiare che giustificasse la liquidazione di ulteriori pregiudizi non patrimoniali, oltre la sofferenza morale;

d) non vi era prova che C.G. avesse cessato la propria attività commerciale a causa della morte della figlia, piuttosto che per altre ragioni;

e) C.F., se pur deceduta due ore dopo il ferimento, in quel breve lasso di tempo non acquisì, e perciò non trasmise agli eredi, alcun credito risarcitorio per il "danno biologico e morale".

6. La sentenza d'appello è stata impugnata per cassazione da C.G. e C.L., con ricorso fondato su quattro motivi ed illustrato da memoria.

I ricorrenti hanno dichiarato di agire "anche" quali eredi:

a) di G.R., deceduta nelle more del giudizio;

b) di C.F.;

c) di I.T., i cui crediti (non si dice quali) nella prospettazione dei ricorrenti sarebbero stati acquisiti jure hereditario dalla moglie C.F., e da questa trasmessi jure hereditario agli odierni ricorrenti.

Ha resistito con controricorso, anch'esso illustrato da memoria, la sola HDI.

 

Motivi della decisione

1. Il primo motivo di ricorso.

1.1. Col primo motivo i ricorrenti sostengono che la sentenza d'appello sarebbe affetta sia da nullità, ai sensi dell'art. 360 c.p.c., n. 4, sia da violazione di legge, ai sensi dell'art. 360 c.p.c., n. 3, (lamentano, in particolare, la violazione degli artt. 101 e 111 Cost. e art. 113 c.p.c.).

Nell'illustrazione del motivo sostengono una tesi che può così riassumersi:

- la Corte d'appello ha negato che C.F., nelle due ore di tempo intercorso tra il ferimento e l'exitus, avesse patito un danno non patrimoniale, ed avesse perciò trasmesso il relativo credito risarcitorio ai suoi eredi;

- la Corte d'appello ha motivato tale statuizione osservando che non era decorso un apprezzabile lasso di tempo tra il sinistro e la morte;

- tale motivazione deve ritenersi nulla, dal momento che la Corte d'appello non ha affatto indicato quale norma di legge impedisse il risarcimento "dei danni biologici da morte e dei danni morali catastrofali", quando non sia trascorso un apprezzabile lasso di tempo tra il ferimento e la morte;

- la Corte d'appello, pertanto, avrebbe deciso la controversia ad essa sottoposta non già applicando la legge, ma applicando un principio da essa stessa creato. Questo le era inibito, "non essendo la giurisspniden.za fonte del diritto", nè potendo la Corte d'appello decidere il giudizio secondo equità, essendo il ricorso all'equità consentito soltanto per la stima del danno, non per l'accertamento della sussistenza di esso (deve ritenersi un mero lapsus calami, a tal riguardo, il riferimento della difesa dei ricorrenti all'art. 1224 c.c., il quale come noto disciplina la mora nelle obbligazioni pecuniarie).

1.2. Nella parte in cui lamenta il vizio di nullità della sentenza il motivo è infondato.

Una sentenza può dirsi nulla non già per il solo fatto che il giudicante erri nell'individuare la norma applicabile, nè per il solo fatto che la fonte di produzione della norma applicata non sia indicata.

Una sentenza può dirsi nulla, per ragioni attinenti il contenuto, solo quando la sua motivazione sia insanabilmente contraddittoria o totalmente incomprensibile.

Nè l'una, nè l'altra di tali ipotesi ricorrono nel caso di specie.

La Corte d'appello ha infatti affermato che C.F., nelle due ore di sopravvivenza, non potè acquistare alcun credito risarcitorio nei confronti degli autori dell'illecito, e di conseguenza non lo trasmise jure hereditario ai propri successori; e che tale fenomeno successorio non si verificò "per non essere decorso un appretitiabile lasso di tempo tra il sinistro la morte".

Tale statuizione è perfettamente comprensibile, e non è in contraddizione con altre parti della sentenza impugnata. Non vi è dunque, nè oscurità, nè contraddittorietà nella sentenza impugnata.

1.3. Nella parte in cui lamenta la violazione di legge il motivo è manifestamente infondato.

L'art. 113 c.p.c. non è certo stato violato dalla Corte d'appello, dal momento che la sentenza impugnata non ha affatto deciso la causa secondo equità.

Inusuale, poi, è la concezione che la difesa dei ricorrenti mostra di avere circa il concetto di "decisione secondo diritto". Basterà dunque ricordare a tal riguardo che "norma di diritto" è sia quella espressa, sia quella ricavata in via di interpretazione; che l'interpretazione si rende necessaria al cospetto di lacune normative nell'ordinamento; che nessuna norma disciplina espressamente il risarcimento dei danni causati dalla morte d'una persona causata da un fatto illecito, sicchè l'accertamento e la liquidazione di tali danni non possono che avvenire, allo stato, in base a principi ricavati in via di interpretazione, il che costituisce onore ed onere degli interpreti da molti secoli (come ammoniva Sesto Pomponio, in D.1.2.2.13: constare non potest ius, nisi sit aliquis iuris peritus per quem possit cottidie in melius produci).

Tanto meno può dirsi che la sentenza impugnata abbia violato gli artt. 101 e 111 cost.: quanto al primo, esso contiene una guarentigia dell'ordine giudiziario, che appare arduo comprendere come possa venire in rilievo nel nostro caso, posto che nessuna autorità amministrativa o di altro tipo si è ingerita nell'operato della Corte d'appello; quanto al secondo, non risulta da alcun atto - nè tanto meno è prospettato dagli stessi ricorrenti - che la Corte d'appello abbia violato i precetti di terzietà ed imparzialità sanciti dalla suddetta norma costituzionale.

2. Il secondo motivo di ricorso.

2.1. Col secondo motivo di ricorso i ricorrenti lamentano che la sentenza impugnata sarebbe affetta sia da un vizio di violazione di legge, ai sensi dell'art. 360 c.p.c., n. 3, (si lamenta, in particolare, la violazione degli artt. 2, 3 e 32 Cost.; degli artt. 1223 e 2059 c.c.); sia dal vizio di omesso esame d'un fatto decisivo e controverso, ai sensi dell'art. 360 c.p.c., n. 5, (nel testo modificato dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, convertito nella L. 7 agosto 2012, n. 134).

La difesa dei ricorrenti, muovendo dall'assunto teorico (p. 11, rigo 16, del ricorso) che esista in rerum natura un pregiudizio definito "danno tanatologico", osserva:

- che tale danno va risarcito quale che sia la durata della sopravvivenza della vittima, nel periodo tra le lesioni e la morte;

- che ritenere il contrario costituirebbe una violazione degli artt. 1223 e 2059 c.c., oltre che un giudizio "fallace ed ingiusto";

- che la morte anche immediata costituisce comunque un danno per la vittima, perchè la priva "della chance di vivere per un indeterminato numero di anni";

- che, tranne il caso di morte immediata, nel patrimonio d'una persona ferita, e poi deceduta, entra sempre e comunque il diritto al risarcimento del "danno da perdita della vita" o del "danno da chance della vita" (ibidem, p. 12);

- che accordare il risarcimento del danno in esame solo a chi sia sopravvissuto per un certo spazio di tempo "violerebbe l'art. 3 Cost.", perchè quanto più sono gravi le lesioni, tanto più la morte sopraggiunge precocemente, sicchè a seguire la tesi della Corte d'appello si finirebbe per ristorare meno i pregiudizi più gravi, e viceversa;

- che negare il risarcimento del danno a chi, ferito, muoia successivamente, è scelta ermeneutica che violerebbe anche gli artt. 2 e 32 cost., non apprestando adeguata tutela al diritto alla salute.

2.2. Dopo avere esposto queste censure, l'illustrazione del motivo prospetta anche un vizio di omesso esame d'un fatto decisivo: la Corte d'appello, sostiene la difesa dei ricorrenti, non avrebbe esaminato la circostanza che C.F., prima di morire, aveva patito gravissime lesioni agli organi interni, ed era stata sottoposta ad un intervento chirurgico.

2.3. Dopo questo interludio dedicato ad illustrare il vizio di cui all'art. 360 c.p.c., n. 5, il ricorso ritorna al tema della violazione di legge (pp. 15 e ss. del ricorso), dichiarando di "sollevare espressamente" (sic) questione di legittimità costituzionale degli artt. 1223 e 2059 c.c., nel modo in cui sono costantemente interpretati da questa Corte, "nella parte in cui, in violazione del diritto fondamentale alla salute (nonchè dei principi di solidarietà sociale e del principio di uguaglianza e di parità di trattamento), non riconoscono il danno biologico da morte (o comunque il danno tanatologico e il danno morale catastrofale), nè il danno alla salute di chi ha vissuto per poche ore prima di morire pur in presenza di acclarate gravi menomazioni e sofferenze fisiche della vittima".

2.4. Nella parte in cui lamenta che la Corte d'appello avrebbe erroneamente negato ai congiunti della vittima il risarcimento del danno "da perdita della vita" o da "perdita delle chance di vivere", patito da C.F. al momento della morte, ed il cui credito risarcitorio sarebbe stato trasmesso agli eredi, il motivo è manifestamente inammissibile ex art. 360 bis c.p.c.

La questione, infatti, è stata già risolta dalle Sezioni Unite di questa Corte, secondo cui "in caso di morte cagionata da un illecito, il pregiudizio conseguente è costituito dalla perdita della vita, bene giuridico autonomo rispetto alla salute, fruibile solo in natura dal titolare e insuscettibile di essere reintegrato per equivalente, sicchè, ove il decesso si verifichi immediatamente o dopo brevissimo tempo dalle lesioni personali, deve escludersi la risarcibilità "iure hereditatis" di tale pregiudizio, in ragione - nel primo caso - dell'assenza del soggetto al quale sia collegabile la perdita del bene e nel cui patrimonio possa essere acquisito il relativo credito risarcitorio, ovvero - nel secondo - della mancanza di utilità di uno spazio di vita brevissimo" (Sez. U, Sentenza n. 15350 del 22/07/2015, Rv. 635985).

Tale principio, dopo l'intervento delle Sezioni Unite, è stato ripetutamente ribadito da questa Corte: tra le tante, in tal senso, si vedano Sez. 3, Sentenza n. 24558 del 5.10.2018; Sez. 3, Ordinanza n. 18328 del 12.7.2018; Sez. 3, Sentenza n. 17043 del 28.6.2018; Sez. 3, Sentenza n. 22451 del 27.9.2017).

Con le motivazioni di tale ormai consolidato orientamento la difesa dei ricorrenti trascura del tutto di confrontarsi, nè ad esse sa contrapporre altri argomenti che non siano quelli, già confutati dalle Sezioni Unite, contenuti nella isolata decisione pronunciata da Sez. 3, Sentenza n. 1361 del 23/01/2014, Rv. 629366 - 01, che i ricorrenti richiamano ad litteram, senza aggiungere alcun nuovo argomento.

Di qui l'inammissibilità in parte qua del secondo motivo di ricorso, ex art. 360 bis c.p.c., n. 1, dal momento che il provvedimento impugnato "ha deciso le questioni di diritto in modo conforme alla giuriiprudenza della Corte e l'esame dei motivi non offre elementi per mutare l'orientamento della stessa".

2.5. Il secondo motivo di ricorso sostiene poi, come accennato, che la Corte d'appello avrebbe violato gli artt. 1223 e 2059 c.c., oltre che vari precetti di rango costituzionale, negando che C.F. abbia acquistato in vita, e trasmesso agli odierni ricorrenti, il diritto al risarcimento del danno non patrimoniale patito nelle due ore di sopravvivenza.

I ricorrenti sostengono che C.F. in quelle due ore aveva invece acquisito nel proprio patrimonio, e poi trasmesso agli eredi, il diritto al risarcimento del "danno biologico terminale" e del "danno morale tanatologico".

Deducono che il risarcimento di tali danni doveva prescindere dalla durata della sopravvivenza della vittima e che, ritenendo il contrario, la Corte d'appello ha violato vari diritti fondamentali della persona.

2.7. Anche questa censura è manifestamente infondata.

Prima di esporre le ragioni di tale manifesta infondatezza, questo Collegio ritiene doverosa una premessa di metodo, alla luce della quale scrutinare non solo il presente, ma anche tutti e tre i restanti motivi del ricorso.

Gli odierni ricorrenti hanno rispettivamente perduto, in conseguenza d'un fatto illecito, una figlia ed una sorella.

Dopo avere ottenuto un risarcimento, essi si dolgono nella presente sede che quel risarcimento non sarebbe stato adeguato ed esaustivo. Una censura di questo tipo, quando fosse ammissibile (e non lo sarebbe se prospettasse solo questioni di mero fatto), esigerebbe che si prospettasse al giudice, da un lato, il concreto pregiudizio patito dalla vittima, e dall'altro il concreto pregiudizio preso in esame dal giudice.

Solo nel caso di uno iato tra il primo ed il secondo, potrebbe sospettarsi la violazione di norme di legge da parte del giudice di merito.

La difesa dei ricorrenti, tuttavia, in ogni suo punto trascura di confrontarsi con questa regola fondamentale.

Essa infatti, più che prospettare fatti, formula teorie, e muove dall'assunto - inespresso, ma inequivoco - che esistano categorie a priori di danni ("danno biologico terminale", "danno esistenziale", "danno tanatologico"), e pretende - invece di applicare la legge ai fatti - di accomodare questi a quella, deformando la realtà per farla rientrare nelle categorie astratte.

Sarà dunque opportuno ricordare, preliminarmente, che le varie espressioni coniate in tema di danno non patrimoniale dalla fantasia di taluni interpreti, e talora non rifiutate da questa Corte ("danno terminale", "danno tanatologico", "danno catastrofale", "danno esistenziale"), non hanno alcuna dignità scientifica; sono usate in modo polisemico; sono talora anche etimologicamente scorrette (come l'espressione "danno tanatologico").

L'impiego di lemmi dal contenuto così ambiguo ingenera somma confusione ed impedisce qualsiasi seria dialettica, dal momento che ogni discussione scientifica è impossibile in assenza d'un lessico condiviso.

L'esigenza del rigore linguistico come metodo indefettibile nella ricostruzione degli istituti è stata già segnalata dalle Sezioni Unite di questa Corte, allorchè hanno indicato, come precondizione necessaria per l'interpretazione della legge, la necessità di "sgombrare il campo di analisi da (..) espressioni sfuggenti ed abusate che hanno finito per divenire dei "mantra" ripetuti all'infinito senta una preventiva ricognizione e condivisione di significato (..), (che) resta oscuro e serve solo ad aumentare la confusione ed a favorire l'ambiguità concettuale nonchè la pigrizia esegetica" (sono parole di Sez. U, Sentenza n. 12310 del 15/06/2015).

L'esame del secondo e del terzo motivo di ricorso esige dunque, preliminarmente, che si ricordino alcuni concetti fondamentali nella materia del danno non patrimoniale da uccisione.

2.8. La persona che, ferita, sopravviva quodam tempore, e poi muoia a causa delle lesioni sofferte, può patire un danno non patrimoniale. Questo danno può teoricamente manifestarsi in due modi.

Il primo è il pregiudizio derivante dalla lesione della salute; il secondo è costituito dal turbamento dell'animo e dalla sofferenza derivanti dalla consapevolezza della morte imminente.

Ambedue questi pregiudizi hanno natura non patrimoniale, come non patrimoniali sono tutti i pregiudizi che investono la persona in sè e non il suo patrimonio.

Quel che li differenzia non è la natura giuridica, ma la consistenza reale: infatti il primo (lesione della salute):

- ha fondamento medico legale;

- consiste nella forzosa rinuncia alle attività quotidiane durante il periodo della invalidità;

- sussiste anche quando la vittima sia stata incosciente. Il secondo, invece:

- non ha fondamento medico legale;

- consiste in un moto dell'animo;

- sussiste solo quando la vittima sia stata cosciente e consapevole.

2.9. Il danno alla salute che può patire la vittima di lesioni personali, la quale sopravviva quodam tempore e poi deceda a causa della gravità delle lesioni, dal punto di vista medico-legale può consistere solo in una invalidità temporanea, mai in una invalidità permanente.

Il lemma "invalidità", infatti, per secolare elaborazione medico-legale, designa uno stato menomativo che può essere transeunte (invalidità temporanea) o permanente (invalidità permanente). L'espressione "invalidità temporanea" designa lo stato menomativo causato da una malattia, durante il decorso di questa. L'espressione "invalidità permanente" designa invece lo stato menomativo che residua dopo la cessazione d'una malattia.

L'esistenza d'una malattia in atto e l'esistenza di uno stato di invalidità permanente non sono tra loro compatibili: sinchè durerà la malattia, permarrà uno stato di invalidità temporanea, ma non v'è ancora invalidità permanente; se la malattia guarisce con postumi permanenti si avrà uno stato di invalidità permanente, ma non vi sarà più invalidità temporanea; se la malattia dovesse condurre a morte l'ammalato, essa avrà causato solo un periodo di invalidità temporanea (Sez. 3, Sentenza n. 5197 del 17/03/2015, Rv. 634697 - 01; così pure Sez. 3, Sentenza n. 7632 del 16/05/2003, Rv. 563159, p. 3.3 dei "Motivi della decisione").

2.10. Il danno biologico causato dalla invalidità temporanea consiste nella forzosa rinuncia, durante il periodo di malattia, alle ordinarie attività non spiacevoli cui la vittima si sarebbe altrimenti dedicata, se fosse rimasta sana.

Per secolare convenzione medico-legale, il danno alla salute da invalidità temporanea si apprezza in giorni, mai in frazioni di giorni: sarebbe, infatti, un esercizio meramente teorico pretendere di dare un peso monetario alle attività di cui la vittima è stata privata, durante una sopravvivenza di poche ore o pochi minuti.

Da quanto esposto consegue che in tanto la vittima di lesioni potrà acquistare il diritto al risarcimento del danno alla salute, in quanto abbia sofferto un danno alla salute medico legalmente apprezzabile, dal momento che per espressa definizione normativa, oltre che per risalente insegnamento della dottrina, il danno biologico è solo quello "suscettibile di accertamento medico legale" (così l'art. 138 cod. ass.; conforme è la dottrina e l'ormai pluridecennale giurisprudenza di questa Corte).

Ciò sul presupposto che il danno biologico non consiste nella mera lesione dell'integrità psicofisica, ma presuppone che tale lesione abbia compromesso l'esplicazione piena ed ottimale delle attività realizzatrici dell'individuo nel suo ambiente di vita, sicchè "una concreta perdita o riduzione di tali potenzialità può concretizzarsi soltanto nell'eventualità della prosecuzione della vita, in condizioni menomate, per un apprezzabile periodo di tempo successivamente alle lesioni.

Consegue che, in difetto di una apprezzabile protrazione della vita successivamente alle lesioni, pur risultando lesa l'integrità fisica del soggetto offeso, non è configurabile un danno biologico risarcibile, in assenza di una perdita delle potenziali utilità connesse al bene salute suscettiva di essere valutata in termini economici" (così già, tra le prime, Sez. 3, Sentenza n. 1704 del 25/02/1997, Rv. 502664 - 01).

La conclusione è che nel caso di morte causata da lesioni personali, sopravvenuta a distanza di tempo da queste, un danno biologico permanente è inconcepibile.

Quanto al danno biologico temporaneo, per potersene predicare l'esistenza sarà necessario che la lesione della salute si sia protratta per un tempo apprezzabile, perchè solo un tempo apprezzabile consente quell' "accertabilità medico legale" che costituisce il fondamento del danno biologico temporaneo.

Normalmente tale "lasso apprezzabile di tempo" dovrà essere superiore alle 24 ore, giacchè come accennato è il "giorno" l'unità di misura medico legale della invalidità temporanea; ma in astratto non potrebbe escludersi a priori l'apprezzabilità del danno in esame anche per periodi inferiori.

Nell'uno, come nell'altro caso, lo stabilire se la vittima abbia patito un danno biologico "suscettibile di accertamento medico legale" è un giudizio di fatto riservato al giudice di merito, e non sindacabile in questa sede.

Naturalmente, una volta accertata la sussistenza di un danno biologico temporaneo provocato da una lesione mortale, esso sarà risarcibile a prescindere dalla consapevolezza che la vittima ne abbia avuto, dal momento che quel pregiudizio consiste nella oggettiva perdita delle attività quotidiane (Sez. 3 -, Sentenza n. 21060 del 19/10/2016, Rv. 642934 - 01; Sez. 3, Sentenza n. 2564 del 22/02/2012, Rv. 621706 01).

2.11 La vittima di lesioni che, a causa di esse, deceda dopo una sopravvivenza quodam tempore, può poi patire, come accennato, un pregiudizio non patrimoniale di tipo diverso: la sofferenza provocata dalla consapevolezza di dovere morire.

Questa sofferenza potrà essere multiforme: potrà consistere nel provare la paura della morte; nell'agonia provocata dalle lesioni; nel dispiacere di lasciar sole le persone care; nella disperazione per dover abbandonare le gioie della vita; nel tormento di non sapere chi si prenderà cura dei propri familiari, e così via, secondo le purtroppo infinite combinazioni di dolore che il destino può riservare agli uomini.

E' dunque evidente che la concepibilità stessa d'un simile pregiudizio presuppone che la vittima sia cosciente.

Se la vittima non fosse consapevole della fine imminente, infatti, non sarebbe nemmeno concepibile che possa prefigurarsela, e addolorarsi per essa.

In questa seconda ipotesi, poichè il danno risarcibile è rappresentato non dalla perdita delle attività cui la vittima si sarebbe dedicata, se fosse rimasta sana, ma da una sensazione dolorosa, la durata della sopravvivenza non è un elemento costitutivo del danno, nè incide necessariamente sulla sua gravità.

Anche una sopravvivenza di pochi minuti, infatti, può consentire alla vittima di percepire la propria fine imminente, mentre - al contrario una lunga sopravvivenza in totale stato di incoscienza non consentirebbe di affermare che la vittima abbia avuto consapevolezza della propria morte (Sez. U, Sentenza n. 26972 del 11/11/2008, Rv. 605494 - 01).

2.12. In conclusione:

- le espressioni "danno terminale", "danno tanatologico", "danno catastrofale" non corrispondono ad alcuna categoria giuridica, ma possono avere al massimo un valore descrittivo, e neanche preciso;

- il danno da invalidità temporanea patito da chi sopravviva quodam tempore ad una lesione personale mortale è un danno biologico, da accertare con gli ordinari criteri della medicina legale, e da liquidare avendo riguardo alle specificità del caso concreto;

- la formido mortis patita da chi, cosciente e consapevole, sopravviva quodam tempore ad una lesione personale mortale, è un danno non patrimoniale, da accertare con gli ordinari mezzi di prova, e da liquidare in via equitativa avendo riguardo alle specificità del caso concreto.

2.13. E' alla luce di questi principi che possono ora scrutinarsi le deduzioni svolte dalla difesa dei ricorrenti nel secondo motivo di ricorso.

Nella parte in cui lamentano che la Corte d'appello abbia ingiustamente negato alla vittima il risarcimento del danno alla salute, esse sono manifestamente infondate, dal momento che nel caso di specie il giudice di merito non ha negato in iure la risarcibilità del danno alla salute che la vittima poteva teoricamente avere patito, ma ha escluso in facto che la vittima, nelle due ore di sopravvivenza, avesse patito un danno alla salute suscettibile di accertamento medico legale.

E tale giudizio non è affatto erroneo in punto di diritto, giacchè per quanto detto l'esistenza d'un danno biologico temporaneo non può presumersi sol perchè la vittima di lesioni non sia deceduta illico et immediate.

In questo senso sono ormai copiose le decisioni di questa Corte: tra le più recenti, basterà ricordare Sez. 3, Sentenza n. 11251 del 10.5.2018, la quale ha confermato la decisione di merito che aveva ritenuto non ravvisabile un danno alla salute nel caso d'una vittima di lesioni sopravvissuta per quattro ore; ovvero, e converso, Sez. 3, Ordinanza n. 6691 del 19.3.2018, la quale ha confermato la decisione di merito che aveva ravvisato la sussistenza del danno biologico temporaneo nel caso di persona sopravvissuta alle lesioni per tre giorni; e Sez. 3, Ordinanza n. 3424 del 13.2.2018, la quale pure conferirò la decisione di merito che aveva ammesso il risarcimento del danno biologico in un caso in cui la vittima di lesioni era sopravvissuta per nove giorni.

2.14. Del pari manifestamente infondate sono le deduzioni della difesa dei ricorrenti, nella parte in cui lamentano l'erroneità del rigetto della domanda di risarcimento del danno "morale" patito dalla vittima primaria.

Da un lato, infatti, il suddetto pregiudizio presuppone, per quanto detto, che la vittima sia rimasta cosciente ad abbia avuto consapevolezza della propria morte imminente, il che nel caso di specie non è stato nemmeno dedotto.

Al contrario, è la stessa descrizione delle condizioni cui la vittima giunse in ospedale, contenuta a p. 14 del ricorso, che induce a ritenere corretta la valutazione del giudice di merito, là dove ha escluso la sussistenza del danno in questione.

Ricordano infatti gli stessi ricorrenti come la vittima giunse in ospedale con "midriasi fissa" (vale a dire con pupille non reagenti alla luce); "polso filiforme" (indicativo di un collasso cardiocircolatorio); "dispnea" (vale a dire con respirazione difficoltosa). Dopo l'accesso in ospedale, inoltre, la vittima venne sottoposta ad un intervento chirurgico, il quale non potè ovviamente che avvenire in stato di sedazione.

E questa Corte ha già ritenuto, in un caso analogo, che proprio la circostanza che la vittima di lesioni sia stata sottoposta ad un intervento chirurgico nell'intervallo temporale intercorso tra l'evento lesivo e l' exitus, praticato allo scopo di tentare un estremo salvataggio, "esclude che la vittima abbia potuto coscientemente percepire il proprio stato acquisendo consapevolezza dell'imminenza della morte o della gravissima entità delle lesioni patite" (così Sez. 3, Sentenza n. 909 del 17.1.2018, in motivazione).

Correttamente, pertanto, il giudice di merito ha negato - al di là della concreta motivazione adottata, che deve intendersi qui integrata dalla motivazione che precede - che la sventurata vittima potesse avere avuto, nelle due ore di sopravvivenza, la consapevolezza della propria sorte, e di conseguenza avere provato la formido mortis.

2.15. Tali principi sono stati già affermati da questa Corte in numerose vicende analoghe, nelle quali sono state confermate le decisioni di merito che avevano negato il risarcimento del danno non patrimoniale provocato dalla consapevolezza della morte imminente, sul presupposto che la vittima non fosse cosciente (Sez. 3, Ordinanza n. 13753 del 31.5.2018; Sez. 3, Ordinanza n. 6691 del 19.3.2018; Sez. 3, Ordinanza n. 3424 del 13.2.2018; Sez. 3, Ordinanza n. 18568 del 13.7.2018, la quale invece confermò la decisione di merito che aveva ammesso il suddetto danno per una sopravvivenza di sei ore, ma sul presupposto che la vittima fosse perfettamente lucida e cosciente).

2.16. Da quanto precede discende altresì che nessun sospetto di illegittimità costituzionale è ravvisabile nel suddetto orientamento giurisprudenziale.

Esso, infatti, accorda la più ampia tutela sia alla vittima di lesioni, sia ai suoi prossimi congiunti.

Nel caso di lesioni non mortali, sia la vittima primaria, sia i suoi congiunti - nel caso di lesioni rilevanti: Sez. U, Sentenza n. 9556 del 01/07/2002, Rv. 555495 - 01) - hanno diritto ad essere risarciti dei danni patrimoniali e non patrimoniali.

Nel caso di morte della vittima, i suoi congiunti hanno diritto ad essere risarciti dei danni patrimoniali e non patrimoniali.

Nel caso, infine, di sopravvivenza quodam tempore della vittima, questa ha diritto ad essere risarcita sia del danno biologico, sia della sofferenza provocata dalla formido mortis. La circostanza, poi, che tali pregiudizi siano risarcibili solo se oggettivamente accertabili e concretamente dimostrati non solo non confligge con alcuna norma costituzionale, ma costituisce al contrario un irrinunciabile presidio del principio di legalità.

3. Il terzo motivo di ricorso.

3.1. Col terzo motivo di ricorso i ricorrenti sostengono che la sentenza impugnata sarebbe affetta sia da un vizio di violazione di legge, ai sensi dell'art. 360 c.p.c., n. 3, (è denunciata, in particolare, la violazione degli artt. 2 e 32 cost.; dell'art. 116 c.p.c.; dell'art. 2059 c.c.); sia dal vizio di omesso esame d'un fatto decisivo.

Con la prima censura i ricorrenti deducono che la Corte d'appello, nella stima del danno, non avrebbe esaminato le prove testimoniali ammesse e raccolte, dalle quali risultava che i genitori ed il fratello di C.F., dopo la sua morte, cambiarono radicalmente stile ed abitudini di vita.

Con la seconda censura i ricorrenti deducono che la Corte d'appello avrebbe sottostimato il danno da essi patito, negando il ristoro del "danno esistenziale", pregiudizio che i ricorrenti non definiscono, ma che mostrano di identificare col forzoso mutamento delle abitudini di vita.

3.2. Nella parte in cui lamenta l'omesso esame del fatto decisivo il motivo è inammissibile.

I ricorrenti lamentano infatti che la Corte d'appello abbia trascurato di prendere in esame la prova testimoniale: ma le Sezioni Unite di questa Corte, nell'interpretare il novellato art. 360 c.p.c., n. 5, hanno stabilito che "l'omesso esame di elementi istruttori, in quanto tale, non integra l'omesso esame circa un fatto decisivo previsto (dall'art. 360 c.p.c., n. 5), quando il fatto storico rappresentato sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorchè questi non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie astrattamente rilevanti" (Sez. U, Sentenza n. 8053 del 07/04/2014, Rv. 629830). E nel caso di specie il "fatto storico" rappresentato dall'entità del danno è stato preso in considerazione dalla sentenza, alle pp. 9 e 10.

3.3. Nella parte in cui lamenta la violazione di legge il motivo è manifestamente infondato.

Che nel nostro ordinamento giuridico esista e sia risarcibile un pregiudizio non patrimoniale definibile come "danno esistenziale", nei termini in cui tale ambigua nozione venne concepita e sostenuta venti anni fa da minoritaria dottrina, è stato definitivamente escluso dalle Sezioni Unite di questa Corte, le quali hanno affermato che "di danno esistenziale come autonoma categoria di danno non è più dato discorrere" (Sez. U, Sentenza n. 26972 del 11/11/2008, p. 3.3 dei "Motivi della decisione").

3.4. Resterebbe tuttavia da stabilire se, al di là delle espressioni usate dalla difesa dei ricorrenti, il motivo prospetti comunque un error in iudicando effettivamente sussistente, e consistito nella violazione del principio di integrale riparazione del danno.

Sotto questo profilo, l'assunto dei ricorrenti può così riassumersi: "noi abbiamo dedotto e provato di essere stati costretti, a causa del luttuoso evento, di avere mutato le nostre abitudini di vita, e la Corte d'appello ha ritenuto che tale danno non fosse risarcibile".

Anche così qualificato, tuttavia, il motivo resterebbe manifestamente infondato.

Il prossimo congiunto di persona deceduta in conseguenza d'un fatto illecito non patisce - giuridicamente parlando - tanti danni non patrimoniali quante sono le rinunce che ha dovuto sopportare o le avversità che ha dovuto affrontare.

Egli patisce un solo danno non patrimoniale, che è concetto unitario ed omnicomprensivo, nella stima del quale ovviamente il giudice dovrà tenere conto di tutte le conseguenze concrete provocate dal lutto (Cass. sez. un. 26972/08, cit.).

Nella stima di tali conseguenze, la distinzione principale che il giudice di merito dovrà compiere è quella tra conseguenze normali ed indefettibili, e conseguenze peculiari del caso di specie.

Le prime sono quelle che di norma non possono essere evitate da nessuna persona di normale sensibilità che patisca un così tragico evento: e dunque, a mò d'esempio, la sofferenza, la tristezza, la perdita della gioia della vita.

La seconde sono quelle che non costituiscono una conseguenza inevitabile del lutto, ma si sono verificate nel caso concreto a causa delle particolarità di questo.

Tale distinzione ha per conseguenza che, in mancanza di allegazione e di prova dell'esistenza di specificità del caso concreto, la liquidazione del risarcimento dovrà avvenire in base ai criteri standard ordinariamente adottati dal giudicante; in caso contrario, quei criteri standard dovranno essere opportunamente ed equitativamente variati, per qualità o quantità.

3.5. Nel caso di specie, la Corte d'appello di Napoli non ha affatto negato tale distinzione.

La Corte d'appello, infatti, ha innanzitutto affermato di monetizzare il risarcimento del danno sofferto dai congiunti di C.F. tenendo conto:

- del rapporto di parentela;

- del legame affettivo di particolare intensità che legava la vittima agli appellanti;

- delle indubbie sofferenze patite sulla base dello stretto vincolo familiare;

- del rapporto di frequentazione che i familiari avevano con la vittima;

- della giovanissima età della vittima;

- della perdita di un punto di riferimento effettivo e di sostegno psicologico;

-"di tutte le circostanze del caso concreto".

Ciò posto, la Corte d'appello ha poi aggiunto di non ritenere sussistenti nel caso concreto specificità tali da giustificare un innalzamento della somma liquidata a titolo di risarcimento del danno non patrimoniale. Tale valutazione non fu affatto illegittima.

Questa Corte infatti ha in più occasioni affermato che soltanto in presenza di circostanze "specifiche ed eccezionali", tempestivamente allegate dal danneggiato, le quali rendano il danno concreto più grave, sotto gli aspetti indicati, rispetto alle conseguenze ordinariamente derivanti dagli analoghi pregiudizi non patrimoniali sofferti da altre persone in conseguenza di fatti simili, è consentito al giudice incrementare le somme dovute a titolo risarcitorio in sede di personalizzazione della liquidazione del danno non patrimoniale (Sez. 3, Sentenza n. 23778 del 07/11/2014; Sez. 3, Sentenza n. 24471 del 18/11/2014).

Pertanto, in presenza d'un danno non patrimoniale, la misura standard del risarcimento prevista dalla legge o dal criterio equitativo uniforme adottato dagli organi giudiziari di merito può essere aumentata solo in presenza di conseguenze dannose "del tutto anomale ed affatto peculiari". Per contro, le conseguenze dannose da ritenersi normali e indefettibili secondo l'id quod plerumque accidit (ovvero quelle che qualunque persona che patisse il medesimo danno non potrebbe non subire) "non giustificano alcuna personalizzazione in aumento del risarcimento" (Sez. 3 -, Ordinanza n. 7513 del 27/03/2018, Rv. 648303 - 01).

La Corte d'appello, pertanto, ha correttamente negato autonoma rilevanza alla circostanza che i genitori della vittima, dopo il lutto, avessero patito una grande sofferenza, non partecipassero più "a matrimoni e battesimi ", e "si fossero inariditi".

Quelle dedotte dalla difesa dei ricorrenti, infatti, non erano certo circostanze peculiari, anomale ed eccezionali, ma costituivano purtroppo il doloroso ed umanissimo Calvario che chiunque perda una persona cara è costretto ad ascendere, pregiudizio che la Corte d'appello aveva già risarcito con la non irrisoria cifra di 280.000 Euro per ciascuno dei genitori (in moneta del 2015), oltre accessori.

4. Il quarto motivo di ricorso.

4.1. Col quarto motivo di ricorso i ricorrenti lamentano che la sentenza impugnata sarebbe affetta sia da un vizio di violazione di legge, ai sensi dell'art. 360 c.p.c., n. 3, (si lamenta, in particolare, la violazione dell'art. 1223 c.c.); sia dal vizio di omesso esame d'un fatto decisivo e controverso, ai sensi dell'art. 360 c.p.c., n. 5, (nel testo modificato dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, convertito nella L. 7 agosto 2012, n. 134).

Deducono, al riguardo, che erroneamente la Corte d'appello abbia ritenuto insussistente un valido nesso di causa tra la morte di C.F., e la chiusura dell'attività commerciale di panetteria esercitata dal di lei padre.

Deducono che l'errore commesso dalla Corte d'appello sarebbe consistito nel ritenere che il padre della vittima avesse, al momento del fatto 67 anni (e che quindi sarebbe stato comunque necessitato a cessare la propria attività per limiti di età), là dove C.G. al momento della morte della figlia aveva solo 58 anni, e nel trascurare di considerare che la chiusura dell'esercizio commerciale avvenne nello stesso anno solare in cui C.F. venne a mancare.

4.2. Il motivo, quale che ne fosse stata la fondatezza nel merito, è inammissibile in questa sede.

Lo stabilire, infatti, per quale causa sia stato chiuso un esercizio commerciale; se sussista un nesso di causa tra la chiusura e il fatto illecito; se tale nesso di causa sia stato validamente provato in giudizio, sono altrettanti accertamenti di fatto, riservati al giudice di merito e non più sindacabili in sede di legittimità.

5. La memoria illustrativa dei ricorrenti.

5.1. Nella propria memoria illustrativa la difesa dei ricorrenti deduce che il ricorso da essa proposto non potrebbe essere trattato col rito camerale previsto dall'art. 380 bis c.p.c.

Deduce che la procedura prevista da tale norma dovrebbe essere eccezionale e limitata ai casi di ricorsi non complessi; che il ricorso oggetto del presente giudizio poneva una "questione piuttosto controversa"; che invece questa Corte "abusa" della procedura camerale, dilatando a dismisura l'ambito applicativo dell'art. 380 bis c.p.c.; che tale condotta penalizza le parti perchè il loro ricorso sarebbe da questa Corte esaminato in modo "sommario", e comunque perchè sarebbe loro impedito di esporre oralmente le proprie difese.

Conclude dichiarando di "sollevare espressamente questione di costituzionalità" dell'art. 380 bis c.p.c., per contrasto con gli artt. 3 e 24 cost.; e comunque denunciando la contrarietà della suddetta norma alla CEDU, art. 6.

5.2. La questione della conformità alla Costituzione ed alla CEDU dell'art. 380 bis c.p.c. è già stata ripetutamente esaminata da questa Corte, che ha escluso qualsiasi contrasto tra la suddetta norma ed i principi costituzionali o le regole della CEDU. Il rito camerale, infatti, quale tendenziale procedimento ordinario per il contenzioso non connotato da valenza nomofilattica, è ispirato ad esigenze di semplificazione, snellimento e deflazione del contenzioso in attuazione del principio costituzionale della ragionevole durata del processo ex art. 111 Cost. e art. 6 CEDU,, nonchè di quello di effettività della tutela giurisdizionale (così Sez. 6 - 5, Ordinanza n. 5371 del 02/03/2017; Sez. 6 - 3, Ordinanza n. 395 del 10/01/2017).

Quanto al principio di pubblicità dell'udienza, questa Corte ha già stabilito che esso non ha carattere assoluto, e può essere derogato in presenza di particolari ragioni giustificative, ove obiettive e razionali (così Corte cost., sentenza n. 80 del 2011), da ravvisarsi in relazione alla conformazione complessiva del nuovo rito camerale di legittimità, funzionale alla decisione di questioni di diritto di rapida trattazione non rivestenti peculiare complessità.

5.3. Resta solo da aggiungere che solo con una buona dose di nonchalance la difesa dei ricorrenti può definire "materia controversa" le questioni di diritto da essa poste col proprio ricorso.

Due di esse, infatti (quelle poste coi motivi primo e quarto) erano manifestamente estranee al perimetro del sindacato di legittimità; le altre due (motivi secondo e terzo) sono state risolte dalle Sezioni Unite di questa Corte ormai da dieci anni esatti, in termini antitetici rispetto a quelli invocati dai ricorrenti.

6. Le spese.

6.1. Le spese del presente giudizio di legittimità vanno a poste a carico dei ricorrenti, ai sensi dell'art. 385 c.p.c., comma 1, e sono liquidate nel dispositivo.

6.2. Il rigetto del ricorso costituisce il presupposto, del quale si dà atto con la presente sentenza, per il pagamento a carico della parte ricorrente di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per l'impugnazione, ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, (nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17).

 

P.Q.M.

- rigetta il ricorso;

- condanna C.G. e C.L., in solido, alla rifusione in favore di HDI Assicurazioni s.p.a. delle spese del presente giudizio di legittimità, che si liquidano nella somma di Euro 4.200, di cui 200 per spese vive, oltre I.V.A., cassa forense e spese forfettarie D.M. 10 marzo 2014 n. 55, ex art. 2, comma 2,;

- dà atto che sussistono i presupposti previsti dal D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, per il versamento da parte di C.G. e C.L., in solido, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per l'impugnazione.

Così deciso in Roma, nella camera di Consiglio della Sesta Sezione civile della Corte di cassazione, il 18 ottobre 2018.

Depositato in Cancelleria il 13 dicembre 2018.