Diritto della Famiglia e dei Minori


Il Caso.it, Sez. Giurisprudenza, 20068 - pubb. 29/06/2018

In contrasto con l’ordine pubblico la legge che limita il risarcimento al caso di convivenza

Cassazione civile, sez. III, 30 Aprile 2018, n. 10321. Est. Frasca.


Danno non patrimoniale – Legge straniera che limita il risarcimento al caso di convivenza – Contrarietà all’ordine pubblico – Sussiste



Una legge straniera che restringa la risarcibilità del danno non patrimoniale da perdita del congiunto esclusivamente al caso in cui costui fosse convivente è da ritenere contraria all’ordine pubblico italiano ai sensi della L. n. 218 del 1995, articolo 16, comma 1 e deve essere disapplicata dal giudice italiano, dovendosi nell’ordinamento italiano dare alla convivenza solo il valore di elemento eventualmente rilevante in concreto sul piano probatorio del danno di tal genere (Nel caso di specie, il tribunale aveva applicato la legge serba che prevedeva il ristoro del danno morale in favore dei fratelli del defunto, solo se vi fosse stato un rapporto di durevole convivenza). (Redazione IL CASO.it) (riproduzione riservata)


 


FATTI DI CAUSA

1. (*) ha proposto ricorso per cassazione, iscritto al n.r.g. 25702 del 2015, contro la (*) e (*) avverso la sentenza del 24 marzo 2015, con la quale la Corte d’Appello di Trento ha parzialmente riformato la sentenza resa in prime cure dal Tribunale di Trento.

Quel Tribunale era stato adito nel dicembre del 2010 dalla ricorrente, moglie del defunto (*), insieme ad altri soggetti, figli, genitori, fratelli e nipoti del de cuius, per ottenere il risarcimento dei danni sofferti a causa della morte del congiunto, in occasione di un sinistro stradale occorso in (*), mentre egli si trovava trasportato a titolo di cortesia sull’autovettura di proprieta’ e condotta da (*) ed assicurata presso la suddetta societa’.

All’esito dell’istruzione il Tribunale, nella costituzione della societa’ e nella contumacia di (*) dopo avere affermato la giurisdizione del giudice italiano e l’applicabilita’ della legge sostanziale serba, riconosceva un risarcimento sia a favore della (*) che dei figli e genitori del de cuius, mentre lo negava ai nipoti ex filio ed ai fratelli.

2. La corte territoriale, per quanto interessa, ha accolto parzialmente l’appello principale della societa’ assicuratrice e ridimensionato le somme dovute a titolo risarcitorio, ha rigettato l’appello incidentale “subordinato” della qui ricorrente, ha rigettato l’appello incidentale dei fratelli e dei nipoti ex fitta del defunto. Ha, altresi’, dichiarato la nullita’ della sentenza di primo grado quanto alla domanda proposta dal padre del de cuius, (*), per invalidita’ della procura alle liti.

3. Al ricorso per cassazione, che e’ affidato a sei motivi, ha resistito con controricorso la societa’ intimata, mentre non ha svolto attivita’ difensiva (*).

4. La ricorrente ha depositato memoria.

5. Con un ricorso iscritto al n.r.g. 25705 del 2015 hanno proposto ricorso per cassazione contro la stessa sentenza, affidato ad un unico motivo, (*), sorella del de cuius, (*), (*), (*), (*), (*), (*), fratelli del de cuius e tutti agenti tramite un procuratore speciale, (*), nonche’ (*) e (*), entrambe nipoti ex filia del de cuius.

6. Al ricorso ha resistito la societa’ assicuratrice, mentre non ha svolto attivita’ difensiva il (*).

7. I ricorrenti hanno depositato memoria.

  

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. In via preliminare si rileva che il ricorso iscritto al n.r.g. 25705 del 2015 assume valore oggettivo di ricorso successivo e, dunque, incidentale rispetto al ricorso iscritto al n.r.g. 25702 del 2015, dato che, essendo avvenuta la notifica dei due ricorsi coevamente, cioe’ lo stesso giorno, deve farsi riferimento, al fine di stabilire l’ordine fra di essi, al momento dell’iscrizione a ruolo, cioe’ alla “presa di contatto” con l’ufficio di questa Corte. Poiche’ il ricorso n.r.g. 25702 del 2015 e’ stato iscritto prima del ricorso n.r.g. 25705 del 2015 e’ quest’ultimo che va riunito all’altro ai sensi dell’articolo 335 c.p.c..

2. Con il primo motivo di ricorso principale si fa valere “violazione del dovere di corredare la propria decisione, sul rigetto dell’unico motivo di appello incidentale condizionato della vedova (*), con un’argomentazione, pur concisa, in fatto e in diritto, idonea a far comprenderne le ragioni (articolo 132 c.p.c., n. 4, in relazione all’articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 4)”.

Il motivo lamenta che la corte territoriale non avrebbe adempiuto al dovere di motivazione, la’ dove ha provveduto sull’appello incidentale “subordinato” (scilicet: condizionato) della ricorrente, con il quale ci si era doluti che il Tribunale, provvedendo nel febbraio del 2013, non avesse, nel procedere alla liquidazione del danno patrimoniale da perdita della contribuzione maritale, provvedendo alla liquidazione: a) riconosciuto i ratei stipendiali che il defunto marito avrebbe percepito lavorando fino alla data della pronuncia della sentenza e dunque, della liquidazione, come danno ormai verificatosi, con la conseguenza di disporre poi sull’importo liquidato gli accessori, cioe’ la rivalutazione monetaria e gli interessi compensativi; b) riconosciuto come danno futuro soltanto i ratei maturandi dopo la pronuncia della sentenza e, quindi, applicato solo ad essi il sistema della capitalizzazione anticipata prescelto alla stregua del Regio Decreto n. 1403 del 1922.

2.1. Si sostiene che la corte territoriale avrebbe omesso una motivazione comprensibile sul detto appello condizionato, allorche’ vi ha dovuto provvedere per effetto dell’accoglimento dell’appello principale della societa’ assicuratrice sul punto dell’applicazione della tabella per la capitalizzazione delle rendite di cui al Regio Decreto n. 1403 del 1922, quanto all’errore sul coefficiente di capitalizzazione parametrato all’eta’ del defunto ed avendo, per effetto di tale accoglimento rideterminato il dovuto.

La motivazione incomprensibile sarebbe quella resa dalla sentenza impugnata con la seguente osservazione, svolta a pagina 21: “….rilevandosi che quanto sopra, in ordine alla liquidazione del danno patrimoniale, rende inevitabilmente priva di fondamento anche l’impugnazione incidentale subordinata proposta da (*).

Il dovere di motivazione sarebbe rimasto non assolto perche’ la reiezione dell’appello incidentale condizionato sarebbe stata espressa con “un oscuro e criptico rimando a cio’ che precedeva”, tenuto conto che, prima della frase che si e’ riportata, la corte territoriale aveva esaminato ed esposto le ragioni del rigetto dell’appello incidentale degli altri congiunti e lo aveva fatto sulla base della diversa questione da esso posta, che riguardava l’incidenza della legge serba in punto di necessita’ della convivenza per il ristoro del c.d. danno morale. Poiche’ la disamina svolta a quei fini dalla corte territoriale nulla aveva a che fare con il problema sollevato con l’appello incidentale condizionato della ricorrente, il rinvio alla corrispondente motivazione renderebbe incomprensibile la ragione del rigetto di detto appello.

2.1.1. Il motivo e’ inammissibile, perche’ legge la motivazione resa dalla sentenza impugnata in modo erroneo.

Essa, infatti, pur nella sua estrema stringatezza, non ha inteso affatto giustificare il rigetto dell’appello condizionato della (*) sulla base della motivazione immediatamente precedente, concernente il rigetto dell’appello incidentale degli altri congiunti. Se cosi’ fosse stato, effettivamente la stringata motivazione sarebbe stata del tutto incomprensibile e, dunque, riconducibile ad una violazione dell’articolo 132 c.p.c., n. 4, atteso che quell’appello concerneva il danno c.d. morale mentre quello della (*) il danno patrimoniale e, fra l’altro, sul versante della liquidazione.

In realta’, la ricorrente trascura di considerare che il pur lapidario riferimento a “quanto sopra”, una volta rilevato che e’ seguito dall’espressione, che ne segna la correlazione, “in ordine alla liquidazione del danno patrimoniale”, evidenzia sul piano logico l’intenzione della corte trentina di giustificare il rigetto dell’appello incidentale con un rinvio alla motivazione resa alle pagine 17 (ultime otto righe), 18 e 19 (prime due righe) per giustificare l’accoglimento dell’appello della societa’ assicuratrice sulla liquidazione del danno.

La corte territoriale ha, cioe’, inteso giustificare il rigetto dell’appello incidentale condizionato sulla base del criterio di liquidazione del danno patrimoniale individuato in quelle pagine in parziale accoglimento dell’appello della (*). Lo rivela appunto in modo indubbio il riferimento “alla liquidazione del danno patrimoniale”, che necessariamente concerne il procedimento esposto nelle suddette pagine proprio perche’ relativo al danno patrimoniale e non puo’ invece concernere, nonostante l’apparente ambiguita’ derivante ratione proximitatis dal “quanto sopra”.

Poiche’ il motivo non si correla all’effettiva ratio decidendi e’ inammissibile, alla stregua del principio di diritto affermato da Cass., Sez. Un. n. 7074 del 2017 a conferma dell’orientamento a suo tempo espresso da Cass. n. 359 del 2005, seguita da numerose conformi.

3. Con il secondo motivo la (*) deduce letteralmente: “Violazione degli articoli 1223, 1226, 2043 c.c. e articolo 2056 c.c., comma 2, nella misura in cui, nell’accogliere il motivo di appello principale della (*) e nella conseguente, drastica, riduzione da parte del Giudice territoriale del danno patrimoniale da lucro cessante della vedova (rispetto a quello gia’ liquidato in primo grado), la precisa riquantificazione delle perdite patrimoniali conseguite a quest’ultima dall’uccisione del marito convivente e per il successivo venir meno degli introiti derivantile dalle pregresse di lui contribuzioni coniugali, e’ stata effettuata dalla Corte con grave sotto estimazione delle relative perdite e senza l’equo apprezzamento delle perdite gia’ verificatesi rispetto a quelle non ancora intervenute, non essendosi tenuto conto (nonostante il puntuale appello incidentale subordinato di cui sopra) del differente regime giuridico esistente tra le perdite gia’ verificatesi al momento della decisione di appello (da risarcirsi a consuntivo con rivalutazione ed interessi compensativi come danno gia’ compiutamente realizzatosi e con riferimento ad ogni rateo di mensilita’ stipendiale non piu’ percepito a far data dall’agosto 2007 e sino al momento della decisione in appello del 27.1.215) e quelle altre non venute ad esistenza (ma che certamente si sarebbero verificate negli anni successivi alla sentenza di appello), alle quali sole si sarebbe potuto applicare il regime di riparazione equitativa consistente nella capitalizzazione anticipata a mezzo di coefficienti che scontassero il c.d. montante di anticipazione, tratte ad esempio dalle Tabelle di cui al Regio Decreto del 1922 con debita personalizzazione o da altre piu’ aggiornate rispetto al dato della durata della vita e del valore del denaro (articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 3).”.

Nel motivo si assume che la vedova ricorrente, al momento della rideterminazione del suo danno patrimoniale, effettuata dalla Corte trentina in accoglimento dell’impugnazione principale sul punto da parte della (*), si era veduta ridurre il credito dalla somma di Euro 271.369,89 a quella di Euro 193.609,00 sulla base dell’individuazione dell’esatto coefficiente di capitalizzazione ai sensi delle tabelle del Regio Decreto n. 1403 del 1922, avuto riguardo all’eta’ di 48 anni del marito, con sostituzione del coefficiente 14,367 a quello di 20,1732 utilizzato dal tribunale in primo grado. Si sostiene che nel rideterminare l’ammontare dovuto la corte trentina non avrebbe considerato (come invece avrebbe dovuto fare in relazione al proposto motivo di appello incidentale condizionato) che, al momento della sua decisione, avvenuta il 27 gennaio 2015, la vedova aveva gia’ perduto circa 89 ratei mensili (da quello di settembre 2007 a quello del gennaio 2015), proporzionati alla quota dello stipendio mensile del marito decurtato del 30% dal giudice di primo grado, cioe’ dell’importo che, secondo i giudici di merito (con reiezione sul punto dell’appello della (*), tendente ad estendere la decurtazione alla meta’), sarebbe stata dal medesimo destinata a suo uso personale, e pari cosi’ ad Euro 1.000,00 ciascuno e dunque ad un capitale di Euro 89.000,00.

Su tali ratei, si deduce, “era del tutto inutile ed anzi sbagliato applicare il sistema della capitalizzazione anticipata, dovendosi al contrario, nell’ambito dell’individuazione con la massima precisione possibile delle perdite gia’ verificatesi, accreditarglieli a consuntivo, con le maggiorazioni dovute alla svalutazione monetaria e agli interessi compensativi”.

A sostegno viene citata Cass. n. 12902 del 2012, la’ dove ha censurato una decisione di merito, la quale, quanto ad un danno patrimoniale costituito da reddito non percepito fino al momento della pronuncia, ne ha sancito la soggezione alla rivalutazione monetaria del relativo importo, sull’assunto “che il relativo danno non e’ qualificabile come futuro in relazione al momento della pronuncia, essendosi gia’ verificato, e va dunque tenuto distinto da quello da liquidarsi col sistema della capitalizzazione (Cass., n. 11439/1997)”.

Sulla base di tali deduzioni si sostiene, in definitiva, che il sistema di capitalizzazione prescelto dalla corte d’appello si sarebbe dovuto applicare soltanto ai ratei stipendiali che il de cuius avrebbe potuto percepire dal febbraio 2015, cioe’ dal primo rateo che sarebbe maturato dopo la pronuncia della sentenza di appello.

3.1. Il motivo deduce la violazione della norma di diritto sulla individuazione del danno, cioe’ dell’articolo 1223 c.c., richiamato dall’articolo 2056 c.c., comma 2.

La violazione sussiste, in quanto la perdita patrimoniale subita dalla ricorrente per il decesso del marito sotto il profilo del venir meno della quota parte del reddito del medesimo, riveniente dallo stipendio decurtato del 30% riconosciuto dal primo giudice di pertinenza dei bisogni individuali del de cuius, quanto ai ratei mensili per il periodo dal mese successivo al decesso fino ai momento della decisione di secondo grado, si configurava senza dubbio come un danno emergente e non come un danno futuro.

La ragione e’ che la perdita del beneficio della quota degli emolumenti si correlava ad un periodo temporale ormai decorso e, dunque, ad un danno gia’ verificatosi ed apprezzabile nella sua consistenza senza alcuna valutazione prognostica, qual e’ quella della liquidazione del danno futuro.

Ne discende che il danno correlativamente da liquidarsi al momento della decisione non era liquidabile come una rendita per il futuro, si’ da giustificare il ricorso alla capitalizzazione alla stregua del testo normativo del 1922, ma rappresentava il riconoscimento di un pregiudizio gia’ verificatosi per la ricorrente.

Invero, quando si deve liquidare a favore del congiunto della vittima il danno di natura patrimoniale derivante dalla perdita della fonte di reddito ricollegabile all’attivita’ lavorativa della vittima per quella parte che presumibilmente essa non destinava ai suoi bisogni personali, ma alla comunione familiare con il congiunto, al momento della liquidazione giudiziale la perdita ascrivibile al periodo dal decesso del de cuius fino al momento della liquidazione rappresenta un danno emergente gia’ verificatosi, mentre soltanto la perdita ascrivibile al venir meno della fonte di reddito per il periodo successivo si configura come danno futuro e, dunque, come danno da lucro cessante, la cui liquidazione deve avvenire considerando il presumibile periodo di protrazione della capacita’ della vittima di produrre il reddito di cui trattasi. Ne consegue che nella specie, la scelta del primo giudice dapprima e, quindi, del giudice d’appello, di liquidare il danno secondo i parametri di capitalizzazione del Regio Decreto n. 1403 del 1922, poteva riguardare – naturalmente correlandosi il criterio al momento della decisione resa da ognuno – solo la liquidazione del danno successivo alla decisione da quei giudici rispettivamente resa e non la liquidazione del danno per il periodo anteriore. Bene la qui ricorrente si era doluta allora dell’erroneita’ dell’operazione compiuta dal primo giudice e il giudice d’appello, dopo avere rideterminato il parametro di capitalizzazione ed avere, quindi, rideterminato l’oggetto capitalizzabile, a torto ha disatteso l’appello incidentale condizionato che denunciava l’errore del primo giudice quanto alla liquidazione del danno verificatosi fino al momento della sua decisione. Nel contempo il giudice d’appello ha commesso lo stesso errore applicando il detto parametro per quello stesso periodo e per il successivo fino alla propria pronuncia.

La sentenza impugnata va, dunque, cassata sul punto ed il giudice di rinvio dovra’ riconoscere alla ricorrente il danno da perdita patrimoniale, secondo il rateo mensile come gia’ determinato, fino al momento della pubblicazione della sentenza cassata e con il cumulo di rivalutazione e interessi compensativi, senza dunque applicare alcun coefficiente di capitalizzazione alla stregua del Regio Decreto n. 1403 del 1922, fino a quel momento.

Ed anzi il danno dovra’ riconoscersi allo stesso modo per il periodo successivo alla pubblicazione della sentenza cassata e fino alla nuova liquidazione cui si procedera’ in sede di rinvio, salvo che frattanto emerga che la vittima, in relazione al calcolo della sua vita lavorativa, avrebbe prodotto il reddito di cui trattasi solo fino ad un momento (successivo all’odierno rinvio ma, a partire da una certa data) eventualmente anteriore a quello della nuova liquidazione.

L’operazione di capitalizzazione alla stregua del Regio Decreto n. 1403 del 1922 si potra’ configurare, in definitiva, solo se risultera’ che la produzione di quel reddito sarebbe continuata ulteriormente e comunque per il relativo periodo.

4. Con il terzo motivo si deduce: “Violazione dell’articolo 1223 c.c. e articolo 2056 c.c., comma 2, nella misura in cui la Corte territoriale non solo non ha considerato con l’equita’ circostanziata del capoverso dell’articolo 2056 c.c., il possibile e verosimile aumento del reddito dell’operaio nel resto della sua vita lavorativa rispetto a quello percepito nel 2007, ma anche ha dato ancora ingresso e continuita’ nella quantificazione dei danni da perdita di guadagno della vedova (per il venir meno del contributo economico del marito al menage familiare nella sua veste di unica fonte di entrate finanziare del sodalizio coniugale) al criterio della capitalizzazione anticipata di cui ai coefficiente del Regio Decreto n. 1403 del 1922 e cio’ per le ragioni di cui alla sentenza di Codesta Suprema corte n. 20615/2015 cui ovviamente s’intende far riferimento (articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 3)”.

Il motivo, al di la’ della sua intestazione, sviluppa tre censure.

La prima (svolta nella prima proposizione della pagina 30 del ricorso) si duole che l’applicazione del criterio di liquidazione del danno patrimoniale alla stregua del Regio Decreto del 1922 sarebbe stata illegittima, in quanto non riconducibile al parametro di una corretta liquidazione equitativa di cui alle norme dell’articolo 1223 c.c. e dell’articolo 2056 c.c., comma 2.

La seconda non mette in discussione l’applicazione del Regio Decreto citato, ma postula che i coefficienti da applicarsi per la capitalizzazione avrebbero dovuto essere quelli tratti dai Quaderni del C.S.M. anno 5 numero 41 del dicembre del 1990, che erano stati prodotti in appello all’atto della costituzione.

La terza censura – esposta nelle ultime due righe della pagina 30 e nella pagina 31 – sostiene che i mille euro mensili individuati come quota stipendiale del defunto destinata al soddisfacimento del menage con la ricorrente e, dunque, ascrivibili come sua perdita patrimoniale, non sarebbero stati adeguati in relazione ai possibili aumenti della retribuzione che il defunto avrebbe potuto conseguire e cio’ ancorche’ il primo giudice avesse alluso nella sua motivazione a “successivi incrementi” senza pero’ poi farsi carico nella liquidazione di tale rilevanza.

4.1. La prima censura e’ inammissibile.

Fermo che, a seguito della disposta cassazione della sentenza impugnata e della prescrizione al giudice di rinvio di dover liquidare il danno emergente correlandolo ai ratei in disponibilita’ fruibili fino al momento della nuova liquidazione, tutte e tre le questioni prospettate rileverebbero solo qualora quel giudice dovesse constatare l’esistenza di un danno futuro successivo da liquidare, il Collegio osserva che la prima censura si scontra con il rilievo che parte ricorrente non evidenzia in alcun modo se e dove nel giudizio di appello con l’appello incidentale, necessario perche’ il primo giudice aveva applicato il Regio Decreto n. 1403 del 1922, avesse censurato la sentenza di primo grado riguardo alla statuizione relativa a tale applicazione. Ne segue che non solo non e’ allegato, ma nemmeno e’ dimostrato che la questione fosse stata devoluta in appello e, dunque, la ricorrente non dimostra conseguentemente di poterla porre in questo giudizio di legittimita’.

Va detto anzi che dalla riproduzione del tenore dell’appello incidentale a pagina 17 del ricorso, in seno all’esposizione del fatto, emerge che con esso non ci si era doluti dell’applicazione del criterio del Regio Decreto in se’, bensi’ della sua applicazione senza l’utilizzo dei coefficienti tratti dal cennato Quaderno del C.S.M., sicche’ dal detto tenore emergerebbe la conferma della formazione della cosa giudicata interna sulla sentenza di primo grado quanto all’applicazione del criterio di cui al Regio Decreto perche’ di essa non ci si era doluti sotto il profilo dell’an.

La prima censura e’, pertanto, inammissibile per questa preliminare ragione.

4.1.1. Peraltro, si rileva che, se la questione fosse stata tenuta “viva” in appello, il fatto che il giudice d’appello non se ne sia occupato avrebbe dovuto giustificare non gia’ la deduzione del vizio di violazione delle norme sulla liquidazione equitativa, bensi’ la deduzione dell’omessa pronuncia sul relativo motivo di appello incidentale, che, peraltro non sarebbe stato neppure condizionato, ma logicamente prioritario all’appello principale della (*). Ne’ e’ possibile intendere la censura come se si fosse dedotta l’omessa pronuncia, giacche’ non ricorrono le condizioni di cui a Cass., Sez. Un. n. 17931 del 2013, atteso che l’illustrazione e’ solo argomentata nel senso della deduzione di un errore di diritto commesso con la sua pronuncia dal giudice di appello, senza alcuna allusione benche’ minimale e pure indiretta ad una omessa pronuncia.

4.2. La seconda censura e la terza sono a loro volta inammissibili sempre perche’ avrebbero dovuto essere dedotte come omessa pronuncia sui relativi motivi di appello, mentre sono dedotte come errores in iudicando nella concreta applicazione delle norme dell’articolo 1223 c.c. e articolo 2056 c.c., comma 2, il che impedisce di riqualificarle alla stregua della citata SS.UU.: invero dal tenore dell’appello incidentale riprodotto alla citata pag. 17 del ricorso si evince che entrambe le questioni poste con le due censure in discorso erano state prospettate. Poiche’ la sentenza impugnata se ne e’ disinteressata e’ incorsa in omessa pronuncia ed il relativo vizio della sentenza doveva essere denunciato come tale, mentre non lo e’ stato.

4.3. Il terzo motivo e’ dichiarato inammissibile.

5. Con un quarto motivo si deduce: “Error in procedendo nella misura in cui la Corte di Appello ha ridotto con motivazione meramente apparente e di stile il risarcimento del danno non patrimoniale tabellare della vedova, da perdita del marito, da Euro 300.000 – valore prossimo ai massimi dell’allora Tabella milanese riconosciuto dal Tribunale all’importo di Euro 250.000 – prossimo a valori mediani della medesima Tabella – accogliendo la pur generica ed impalpabile censura d’eccessivita’ formulata dall’appellante principale Societa’ (*), ma senza dar ad un tanto una spiegazione minimamente esauriente e coerente con i principi in subiecta materia (d’integralita’ della riparazione attraverso una personalizzazione dei valori all’interno del range della Tabella milanese considerando sia i dolori dell’animo che lo stravolgimento dell’esistenza), al fine di rendere possibile quel controllo postumo giuridico-matematico qui non effettuabile e che avrebbe invece dovuto consentire all’importo infratabellare prescelto di essere la sintesi di un ragionamento esplicitante la morfologia del danno non patrimoniale ad un tanto ammesso alla riparazione equitativa e non una somma espressa a casaccio per accontentare anche la parte debitrice, senza nemmeno dal da intendere se con l’espressione di danno morale la Corte avesse voluto intendere anche il danno c.d. da stravolgimento dell’esistenza della vedova oppure solo il vecchio pretium doloris (articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 4, in relazione al dovere di cui all’articolo 132 c.p.c., comma 2, n. 4)”.

5.1. Il motivo e’ privo di fondamento e cio’ emerge dalla stessa lettura della sua complessa ed articolata intestazione, atteso che imputare alla sentenza di merito di non avere dato “una spiegazione minimamente esauriente e coerente” con i principi in tema di liquidazione del c.d. danno morale, implica ammettere in primo luogo che una motivazione vi e’ stata, il che esclude che il paradigma della violazione dell’articolo 132 c.p.c., comma 2, n. 4, si configuri sul versante della mancanza materiale della motivazione.

In secondo luogo, quello stesso asserto programmatico implica pure che quel paradigma si invochi al di fuori dell’ipotesi in cui una motivazione in senso materiale, cioe’ grafico, sia presente, e, tuttavia” nonostante tale presenza, il tenore dello scritto si concreti in una esposizione che o per la sua intrinseca contraddittorieta’ o per la sua intrinseca inintellegibilita’ in facto e/o in iure non consenta rispettivamente di percepire un processo logico idoneo ad evidenziare una “motivazione”, cioe’ il far conseguire a determinate premesse determinate conseguenze, appunto per il contrasto che si coglie nei termini dell’esposizione, e di percepire in assoluto quella consequenzialita’. Di modo che quella che risulti enunciata come motivazione e risulti presente in via formale non abbia alcuna “sostanza” come tale, ma si risolva in una “apparenza” motivazionale.

5.1. La lettura della illustrazione del motivo al lume della sentenza impugnata e, dunque, di cio’ che in punto di liquidazione del danno morale essa ha enunciato accogliendo l’appello della societa’ assicuratrice in senso riduttivo del quantum del danno morale, lo conferma.

Infatti, la sentenza impugnata ha ridotto il quantum del danno morale per la ricorrente (occupandosi pure della posizione degli altri congiunti) cosi’ motivando: “L’appellante ha contestato infine gli importi liquidati a titolo di danno morale (non patrimoniale) a favore di moglie, figli e genitori del defunto in applicazione delle c.d. tabelle milanesi che, nella versione aggiornata al 2014, prevedono il riconoscimento, per ciascuno dei suddetti congiunti, di un importo che va da Euro 163.990,00 a Euro 327.990,00. La censura di eccessivita’ degli importi liquidati dal tribunale (Euro 300.000,00 alla moglie ed Euro 200.000,00 ciascuno per genitori e figli) e’ fondata. Osserva la Corte che nella quantificazione equitativa del danno morale occorre considerare da un lato la natura colposa dell’illecito e dall’altro lato la qualita’ ed intensita’ del rapporto affettivo parentale tra la vittima ed i superstiti, nonche’ quello residuo per questi ultimi. Pertanto, in favore della moglie del defunto, che conviva con lui, si stima equo l’importo di Euro 250.000,00, che si pone all’incirca a meta’ fra il minimo ed il massimo tabellare”.

Ebbene questa che la sentenza impugnata ha enunciato e’ anzitutto una motivazione materialmente esistente. Ma e’ anche una motivazione in cui non si coglie alcuna contraddittorieta’ dei termini logici in cui e’ enunciata e nemmeno una incomprensibilita’ del processo logico articolato. Semmai puo’ discutersi della congruenza logica e giuridica di tali termini. Ma il fatto steso che se ne debba discutere suppone una critica a qualcosa che non solo esiste, ma che occorre appunto criticare specificamente.

Il vizio ai sensi dell’articolo 132, n. 4, non risulta, dunque, adeguato ne’ sul versante della motivazione formalmente mancante, ne’ su quello della motivazione talmente contraddittoria da ridondare in motivazione nella sostanza inesistente, ne’ su quello della motivazione talmente incomprensibile da ridondare in motivazione apparente.

Cio’ e’ tanto vero che la critica articolata nel motivo in esame alle pagine 33-38: a) evoca dapprima una censura di genericita’ alla critica svolta dai giudici d’appello della giustificazione dell’importo liquidato dal primo giudice, enunciata dando rilievo al fatto che fosse di poco inferiore al massimo tabellare (relativo alle tabelle milanesi del 2014, che sono state applicate); b) imputa alla sentenza di avere fatto un riferimento alla natura colposa e non dolosa dell’illecito, assumendo che quelle tabelle vengono usate proprio per la liquidazione di danni colposi; c) lamenta che non abbia espresso un’adeguata personalizzazione.

Ebbene, proprio tali critiche dimostrano che la motivazione e’ esistente e che non la si condivide per ragioni che, essendo esplicitate, a loro volta assumono valore confermativo della sua esistenza e si concretano in un dissenso dai suoi termini.

Le critiche stesse dimostrano che non si e’ in presenza di motivazione talmente contraddittoria da risultare inesistente nella sostanza e che non si e’ in presenza di motivazione apparente. Sotto tale ultimo profilo la critica alle enunciazioni della sentenza ed il dire sia che cosa si sarebbe dovuto considerare sia perche’ cio’ che si e’ considerato sarebbe stato “mal considerato”, palesano che la motivazione e’ percepibile e che non e’ contraddittoria o apparente, ma solo, in thesi, criticabile con manifestazioni di dissenso.

Il motivo, pertanto, e’ infondato.

6. Con il quinto motivo si deduce: “violazione del diritto dell’integrale riparazione dei danni non patrimoniali da perdita del marito garantiti dalla Costituzione, patiti da una moglie 48enne, macedone, convivente con il connazionale, operaio, ucciso da una grave imperizia circolatoria del qui intimato conducente, vivente in un nucleo familiare composto solo da loro due e quindi di appena due persone (stante la pregressa fuoriuscita dei figli), la cui superstite vedova era casalinga (e quindi forzosamente non armonicamente inserita nella societa’ provinciale italiana tramite l’ambiente di lavoro), da molti anni emigrata in Italia e quindi lontana dalle proprie radici familiari, il tutto a causa di una nuova quantificazione riduzionistica del risarcimento dei di lei danni non patrimoniali, effettuata sempre sulla base delle confermate Tabelle di Milano, ma senza un processo di doveroso disvelamento del tipo di danni non patrimoniali ammesso ad un tanto al ristoro (liquidazione condotta al ribasso in fase di appello grazie ad un generoso accoglimento della censura d’eccessivita’ sollevata dalla debitrice appellante), ma senza all’opposto dare spazio e rilievo anche alle allegazioni e alle domande formulate dall’interessata gia’ nel suo atto di citazione (reclamante sia i danni morali soggettivi che quelli esistenziali da sconvolgimento del progetto di vita familiare), col risultato di una riduzione del risarcimento priva di alcun riferimento al contenuto dei danni ad un tanto ammessi al ristoro ed alla loro morfologia (sentire e/o non fare), attraverso una mera riduzione matematica di quanto gia’ liquidato dal Tribunale (articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 3, in relazione agli articoli 2, 29 e 30 Cost., articoli 1223, 1226, 2056 e 2059 c.c., articolo 8 C.E.D.U.)”.

Con il sesto motivo si prospetta: “omesso esame di circostanze rilevanti nella determinazione dei danni non patrimoniali sulle quali la societa’ assicuratrice, convenuta avanti al Tribunale, non aveva volutamente preso posizione, rendendole incontestate e necessariamente valutabili ai fini della determinazione dei danni ccdd. da rottura del vincolo familiare (articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 5)”.

6.1. I due motivi possono essere esaminati congiuntamente e non possono trovare accoglimento.

Il primo si concreta in una censura in iure nell’applicazione delle norme sulla liquidazione del danno morale di cui trattavasi, sotto il profilo che nella quantificazione riduttiva dell’importo liquidato dal primo giudice la corte territoriale avrebbe proceduto senza considerare le circostanze allegate che avrebbero potuto e dovuto utilizzarsi a quello scopo.

Esse sono enunciate evocando l’atto di citazione in questi termini alla pagina 41 del ricorso: “Come piu’ sopra puntualmente gia’ riportato, nella citazione avanti al Tribunale (alla pag. 7 dell’atto di data 9.12.20:10, cit.), l’allora attrice (*), allegando la propria vedovanza, aveva versato tra le causae petendi la violazione del bene dell’unita’ e dell’integrita’ familiare (garantiti dagli articoli 2, 3, 29 e 30 Cost.), quella del rispetto della propria vita privata e familiare (articolo 8 C.E.D.U.), del diritto all’integrita’ morale e dei sentimenti, del diritto alla sessualita’ e la lesione di tutta una serie di diritti di credito fondati sul codice civile e sul rapporto di coniugio tra i quali citava quelli alla fedelta’, all’assistenza morale e materiale, alla collaborazione nell’interesse della famiglia ed alla coabitazione. Non paga ancora ella aveva allegato – sempre alla pag. 7 – come la “vita familiare” fosse stata “stravolta” (con le abitudini oramai cementatesi in oltre 10 anni di vita da stranieri in Italia, il cui fulcro era proprio il capofamiglia deceduto e con la propria situazione personale gravissima privata ad un’eta’ ancor giovanile di 48 anni “del fondamentale apporto del consorte nel quotidiano della propria esistenza”) ovvero ancora come la perdita fosse stata per lei piu’ dolorosa per il fatto che quell’uomo era stato l’unico della sua intera esistenza (avendo 48 anni ed essendosi con lui sposata all’eta’ di 18 anni facendoci tre figli oramai adulti).

Alla pagina 9 essa faceva menzione di “lacerazioni sentimentali”, di “presumibile entita’ del dolore”, di una durata del dolore per tutto il resto della vita dei superstiti e, in relazione proprio alla sua posizione (pag. 10), deduceva la di lei “inconsolabilita’”. All’aspetto del dolore e del turbamento dell’animo venivano comunque affiancati l’irrinunciabilita’ per una cittadina 48 macedone, casalinga, della presenza del proprio uomo specie per chi come lei, non lavorando al di fuori delle mura domestiche, da immigrata, necessitava, piu’ di altre persone di quella tranquillizzante presenza familiare. Cosa avrebbe fatto una donna non piu’ giovane, ma neanche troppo vecchia, in un paese straniero, con i figli gia’ grandi ed autonomi, senza l’unico uomo della sua vita- Chi mai le avrebbe ridato una persona con la quale invecchiare e dalla quale pretendere l’adempimento dei doveri coniugali di fedelta’, di assistenza morale oltre che materiale, di coabitazione, di condivisione delle difficolta’ in un paese straniero, verso il quale il marito era una sorta di “modus vivendi” e di “viatico imprescindibile” “per la propria dignita’ di persona e di donna, nel proprio processo di maturazione di crescita in qualita’ di essere umano (articolo 3 Cost.)” (pag. 8 citazione di 1 grado)”.

6.2. Il Collegio osserva: a) che le ricordate allegazioni sono dalla stessa ricorrente definite tali e sono relative all’atto introduttivo del giudizio di primo grado; b) che la stessa ricorrente, di seguito, alla pagina 42, scrive che: “A fronte di tali allegazioni e di fatti che, ove provati, avrebbero dovuto comportare il rilevamento per la via inferenziale (ex articoli 2727 e 2729 c.c.) di un dolore straordinario e di un totale stravolgimento dell’esistenza della vedova (ricompensabili solo con importi prossimi ai massimi tabellari, esattamente come anche aveva fatto il Tribunale), la comparsa di costituzione della societa’ assicuratrice qui intimata (come gia’ sopra dedotto e documentato) si era limitata a contestare – in primo grado – la sussistenza dei danni morali… dei nipoti (sic) no prendendo posizione in alcuna maniera su quanto concerneva le circostanze allegate dalla vedova”; c) che si sostiene che, di fronte alla critica alla liquidazione del giudice di primo grado, formulata in termini di “indimostrata eccessivita’” dalla societa’ assicuratrice, la corte territoriale avrebbe dovuto farsi carico dei fatti allegati e non contestati dalla medesima, mentre non lo ha fatto.

Ebbene l’illustrazione del motivo vorrebbe evidenziare un error iuris commesso dalla sentenza impugnata sotto il profilo che non avrebbe sussunto i termini della fattispecie concreta sotto l’invocata normativa sulla liquidazione del danno morale. Senonche’, essi, per quanto dice la stessa ricorrente, erano non solo costituiti da allegazioni e non da circostanze provate, ma, soprattutto, si trattava di allegazioni di natura sostanzialmente generica e non di “fatti”. Inoltre, nemmeno e’ detto che, quando pure esse fossero state qualificabili come fatti suscettibili di divenire tema di prova, di essi si fosse offerta e chiesta la prova non solo in primo grado, ma anche (ai sensi dell’articolo 346 c.p.c.), in secondo grado, ove fosse stata ritenuta superflua dal primo giudice (circostanza nemmeno allegata).

Si aggiunga che tanto l’argomentazione sul “rilevamento in via inferenziale” quanto sulla mancata presa di posizione della societa’ assicuratrice, risultano, pur tenendo conto di quanto esposto nell’ambito dell’esposizione del fatto del ricorso, del tutto generiche e nemmeno e’ detto se fossero state prospettate alla corte territoriale e come e dove.

In tale situazione – una volta considerato che anche di recente e’ stato ribadito che “Il danno non patrimoniale da uccisione di un congiunto, quale tipico danno-conseguenza, non coincide con la lesione dell’interesse (ovvero non e’ in “re ipsa”) e, pertanto, deve essere allegato e provato da chi chiede il relativo risarcimento, anche se, trattandosi di un pregiudizio proiettato nel futuro, e’ consentito il ricorso a valutazioni prognostiche ed a presunzioni sulla base di elementi obbiettivi che e’ onere del danneggiato fornire, mentre la sua liquidazione avviene in base a valutazione equitativa che tenga conto dell’intensita’ del vincolo familiare, della situazione di convivenza e di ogni ulteriore circostanza utile, quali la consistenza piu’ o meno ampia del nucleo familiare, le abitudini di vita, l’eta’ della vittima e dei singoli superstiti ed ogni altra circostanza allegata. (Nella specie, la S.C. ha cassato la sentenza impugnata la quale, dopo aver erroneamente affermato che il danno da morte di un congiunto spettava in via presuntiva ai “parenti stretti”, aveva liquidato tale danno in maniera indiscriminata in favore di ciascuno degli otto fratelli della vittima, cosi’ erroneamente ritenendo che il danno fosse “in re ipsa” e, conseguentemente, violando i principi in materia di presunzioni e di valutazione equitativa del danno)” (Cass. n. 907 del 2018) – si deve rilevare che il denunciato vizio di violazione di norme di diritto per mancata sussunzione della fattispecie concreta risulta dedotto senza dimostrazione della sussistenza del suo presupposto. Presupposto individuabile in un preciso modo di essere della fattispecie concreta per come emersa ed emersa sul piano probatorio.

La rilevanza del profilo probatorio in materia e’ stata, del resto, piu’ volte sottolineata.

Si vedano:

– Cass. n. 16992 del 2015: “Il pregiudizio da perdita del rapporto parentale, da allegarsi e provarsi specificamente dal danneggiato ex articolo 2697 c.c., rappresenta un peculiare aspetto del danno non patrimoniale, distinto dal danno morale e da quello biologico, con i quali concorre a compendiarlo, e consiste non gia’ nella mera perdita delle abitudini e dei riti propri della quotidianita’, bensi’ nello sconvolgimento dell’esistenza, rivelato da fondamentali e radicali cambiamenti dello stile di vita;

– Cass. n. 21100 del 2016: “Nel caso di morte di un prossimo congiunto, un danno non patrimoniale diverso ed ulteriore rispetto alla sofferenza morale (cd. danno da rottura del rapporto parentale) non puo’ ritenersi sussistente per il solo fatto che il superstite lamenti la perdita delle abitudini quotidiane, ma esige la dimostrazione di fondamentali e radicali cambiamenti dello stile di vita, che e’ onere dell’attore allegare e provare; tale onere di allegazione, peraltro, va adempiuto in modo circostanziato, non potendo risolversi in mere enunciazioni generiche, astratte od ipotetiche;

– Cass. (ord.) n. 907 del 2018: “Il danno non patrimoniale da uccisione di un congiunto, quale tipico danno-conseguenza, non coincide con la lesione dell’interesse (ovvero non e’ in re ipsa) e, pertanto, deve essere allegato e provato da chi chiede il relativo risarcimento, anche se, trattandosi di un pregiudizio proiettato nel futuro, e’ consentito il ricorso a valutazioni prognostiche ed a presunzioni sulla base di elementi obbiettivi che e’ onere del danneggiato fornire, mentre la sua liquidazione avviene in base a valutazione equitativa che tenga conto dell’intensita’ del vincolo familiare, della situazione di convivenza e di ogni ulteriore circostanza utile, quali la consistenza piu’ o meno ampia del nucleo familiare, le abitudini di vita, l’eta’ della vittima e dei singoli superstiti ed ogni altra circostanza allegata. (Nella specie, la S.C. ha cassato la sentenza impugnata la quale, dopo aver erroneamente affermato che il danno da morte di un congiunto spettava in via presuntiva ai “parenti stretti”, aveva liquidato tale danno in maniera indiscriminata in favore di ciascuno degli otto fratelli della vittima, cosi’ erroneamente ritenendo che il danno fosse “in re ipsa” e, conseguentemente, violando i principi in materia di presunzioni e di valutazione equitativa del danno)”.

A sua volta l’invocazione nel sesto motivo come “circostanze rilevanti nella determinazione dei danni patrimoniali da perdita di un congiunto” di quelle elencate a pagina 46 (“…l’eta’ delle persone interessate, la coabitazione protratta da oltre trent’anni, il rapporto esistente tra loro ovvero quello particolarissimo dì macedoni residenti all’estero, la composizione del nucleo familiare superstite e la convivenza o meno tra i prossimi congiunti sopravvissuti, le modalita’ della vita insieme, la possibilita’ o meno di continuarla, gli aspetti della vita sessuale e affettiva, l’entita’ del dolore e della disperazione, l’odiosita’ della condotta del reo, la quantita’ della colpa (alla luce di quanto allegato e provato o non ex adverso contestato)”), risente della mancata dimostrazione che dette circostanze fossero state provate, mentre l’appello alla loro non contestazione – a prescindere dal se le cennate allegazioni fossero tutti “fatti” o almeno fossero stati enunciati in modo da essere come tali identificabili, si’ da far sorgere un onere di contestazione – risulta del tutto generico e nemmeno articolato come violazione dell’articolo 115 c.p.c..

6.2. Il quinto ed il sesto motivo sono, dunque, conclusivamente inammissibili, atteso che non risulta in alcun modo dimostrato in termini di decis vita’ la critica rivolta alla sentenza impugnata, tanto piu’ se si considera che si discute di una diminuzione del dovuto secondo le tariffe applicate. Non risulta dimostrata, cioe’ l’esistenza nel giudizio di merito di una situazione che avrebbe dovuto giustificare una motivazione piu’ articolata da parte della corte di merito e, dunque, giustificativa di una utilita’ della chiesta cassazione una volta disposto il rinvio.

7. Passando all’esame del ricorso iscritto al n. 25705 del 2015 con il suo unico motivo si prospetta: “Violazione del dovere di una motivazione puntuale ed intellegibile in fatto e in diritto sulle ragioni del rigetto dell’appello (articolo 132 c.p.c., comma 2, n. 4, in relazione all’articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 4), rigetto reso altresi’ possibile dall’errata ricostruzione in jure dell’istituto del controllo di compatibilita’ della legge straniera – applicata quale lex causae L. n. 218 del 1995, ex articolo 62, comma 1, con l’ordine pubblico di cui alla L. n. 218 del 1995, articolo 16, comma 1 (error juris in relazione all’articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 3), avendo cosi’ la Corte di Appello di Trento, con motivazione talmente stringata ed inconferente da sembrare meramente apparente (come nel caso dei fratelli ai quali e’ stato applicato il principio della necessaria convivenza prescritta si da Codesta Suprema Corte, ma per la diversa ipotesi dei parenti non appartenenti alla famiglia nucleare) e comunque chiaramente irrispettosa del misconosciuto valore costituzionale dei rapporti interni tra fratelli germani e di quello fra nonni e nipoti statuiti dagli articoli 2, 29 e 30 Cost. e dall’articolo 8 C.E.D.U., ritenuto compatibile l’articolo 201 della legge Serba sul diritto delle obbligazioni del 2007 (che richiedeva in jure quale requisito, per la concessione ai fratelli superstiti del danno morale da morte di congiunto, una loro durevole pregressa convivenza, escludendo la risarcibilita’ di un tal danno laddove la relazione rilevante fosse quella tra nonno e nipoti) con i principi regolatori della materia del risarcimento dei danni non patrimoniali da morte di un nonno e di un fratello, col risultato ingiusto di non avere disapplicato la legge serba contrastante coll’ordine pubblico e, quindi, di non aver applicato nella fattispecie la legge italiana di cui agli articoli 1223, 1226, 2056 e 2059 c.c., con il conseguente principio (conforme alla Costituzione italiana e alla C.E.D.U.) dell’integrale risarcimento delle perdite patite dai superstiti per effetto della soppressione del rapporto familiare.”.

La motivazione della corte trentina e’ stata del seguente tenore: “Gli appellati (*) ed altri, nipoti ex filia e fratelli del defunto, hanno impugnato incidentalmente la sentenza di primo grado, lamentando i primi l’omessa pronuncia sulla loro domanda risarcitoria, e gli altri il rigetto della loro pretesa avanzata in causa. Il tribunale ha applicato la legge serba che prevede il ristoro del danno morale in favore dei fratelli del defunto, solo se vi era un rapporto di durevole convivenza con lo stesso; la medesima normativa nulla dispone in ordine al risarcimento a favore dei nipoti. Essendo pacifico che nella specie non sussisteva, prima della morte, una situazione corrispondente a quella considerata normativamente, la domanda degli appellanti incidentali e’ stata rigettata. Nel contestare la decisione, gli appellati in questione hanno sostenuto che la disciplina straniera andava disapplicata perche’ contrastante con l’ordine pubblico interno, oltre che con i principi costituzionali e comunitari.

Osserva la Corte che, le pur apprezzabili argomentazioni svolte a sostegno dell’impugnazione, non consentono di superare l’univoco disposto della normativa serba, la quale, da un lato riconosce il diritto al risarcimento del danno morale nell’ambito della cerchia parentale piu’ stretta (famiglia nucleare), e dall’altro lato richiede, per la rilevanza ai fini risarcitori del rapporto tra fratelli, una situazione di durevole convivenza. Merita richiamare l’approfondita disamina svolta sul punto dalla Suprema Corte, secondo la quale “deve ritenersi che il fatto illecito, costituito dalla uccisione del congiunto, da’ luogo a danno non patrimoniale, consistente nella perdita del rapporto parentale, quando colpisce soggetti legati da un vincolo parentale stretto, la cui estinzione lede il diritto all’intangibilita’ della sfera degli affetti reciproci e della scambievole solidarieta’ che connota la vita familiare nucleare. Mentre, affinche’ possa ritenersi leso il rapporto parentale di soggetti al di fuori di tale nucleo (nonni, nipoti, genero, nuora) e’ necessaria la convivenza, quale connotato minimo attraverso cui si esteriorizza l’intimita’ dei rapporti parentali, anche allargati, caratterizzati da reciproci vincoli affettivi, di pratica della solidarieta’, di sostegno economico. Solo in tal modo un rapporto tra danneggiato primario e secondario assume rilevanza giuridica ai fini della lesione del rapporto parentale, venendo in rilievo la comunita’ familiare come luogo in cui, attraverso la quotidianita’ della vita, si esplica la personalita’ di ciascuno (articolo 2 Cost.)” (Cass. 4253/2012 in motivazione). Alla luce di tale condivisibile valutazione deve escludersi che la normativa applicabile al caso in esame contrasti con i principi che regolano la materia in ambito nazionale”.

7.1. La riportata motivazione viene diffusamente criticata dai ricorrenti, in primo luogo con la prospettazione che la corte territoriale si sarebbe limitata a desumere che la legge serba non contrastava con l’ordine pubblico nazionale avvalendosi della statuizione di Cass. n. 4253 del 2012 in modo privo di pertinenza quanto alla posizione di quei ricorrenti, che erano fratelli della vittima e dunque appartenenti alla c.d. famiglia nucleare, atteso che quella sentenza, nel dare rilievo negativo alla mancanza di convivenza, si sarebbe riferita ai “parenti meno vicini (come i nipoti e i nonni)”. Per tale ragione si sostiene che la motivazione sarebbe stata inesistente ed apparente, non senza argomentare aggiuntivamente che questa Corte in sede penale aveva pure smentito la sentenza civile del 2012 (vengono citate Cass. pen. nn. 29735 del 2013 e n. 40717 del 2015).

In secondo luogo, si sostiene che la valutazione sulla conformita’ all’ordine pubblico della legge serba avrebbe dovuto condursi alla stregua del precedente di cui a Cass. n. 19405 del 2013 e considerando la pregnanza dell’interesse che viene in rilievo in relazione al danno da uccisione di un congiunto pure non convivente, siccome individuato nel suo fondamento costituzionale da Cass. n. 2557 del 2011. Si soggiunge che a questa stregua non vi sarebbero stati dubbi sull’esistenza di un contrasto della limitazione della legge serba con la nozione di ordine pubblico internazionale nel senso di “complesso di principi fondamentali caratterizzanti l’ordinamento interno in un determinato periodo storico o fondati su esigenze di garanzia, comuni ai diversi ordinamenti, di tutela dei diritti fondamentali dell’uomo” (all’uopo vengono citati precedenti della Corte in tal senso).

7.2. Il motivo e’ fondato.

Mette conto innanzitutto di rilevare che anche la giurisprudenza di questa Corte in sede civile non ha seguito il principio di diritto di cui a Cass. n. 4253 del 2012, la’ dove, sebbene per la relazione concernente nonni e nipoti, aveva attribuito valore nel senso di escludere la risarcibilita’ alla mancanza di convivenza: la convivenza e’ stata degradata, o meglio ricondotta, solo ad elemento da considerarsi a fini probatori dell’esistenza del danno comunque configurabile anche in sua mancanza purche’ dimostrato.

Infatti, al di la’ di quanto emerge anche dalle implicazioni della giurisprudenza evocata sopra per il ricorso principale:

a) Cass. n. 21230 del 2016 (seguita, poi, dalla conforme Cass. n. 29332 del 2017), ha statuito che: “In caso di domanda di risarcimento del danno non patrimoniale “da uccisione”, proposta “iure proprio” dai congiunti dell’ucciso, questi ultimi devono provare la effettivita’ e la consistenza della relazione parentale, rispetto alla quale il rapporto di convivenza non assurge a connotato minimo di esistenza, ma puo’ costituire elemento probatorio utile a dimostrarne l’ampiezza e la profondita’, e cio’ anche ove l’azione sia proposta dal nipote per la perdita del nonno; infatti, non essendo condivisibile limitare la “societa’ naturale”, cui fa riferimento l’articolo 29 Cost., all’ambito ristretto della sola cd. “famiglia nucleare”, il rapporto nonni-nipoti non puo’ essere ancorato alla convivenza, per essere ritenuto giuridicamente qualificato e rilevante, escludendo automaticamente, nel caso di non sussistenza della stessa, la possibilita’ per tali congiunti di provare in concreto l’esistenza di rapporti costanti di reciproco affetto e solidarieta’ con il familiare defunto.”;

b) Cass. n. 25415 del 2016, a sua volta, ha deciso, oggettivamente svalutando il requisito della convivenza, che: “Il risarcimento del danno non patrimoniale puo’ essere accordato al coniuge anche legalmente separato, attesa – oltre alla pregressa esistenza di un rapporto di coniugio nei suoi aspetti spirituali e materiali e alla eventuale sussistenza di figli – la non definitivita’ di tale “status” e la possibile ripresa della comunione familiare, fermo restando che, per la determinazione della natura ed entita’ dei danni (nella specie per la sopravvenuta morte del coniuge), e’ necessaria l’allegazione e la prova dello “status” di separato. Ne consegue che, ove il coniuge si sia limitato a chiedere genericamente la liquidazione del danno per tale sua qualita’, senza ottemperare a tale onere, la replica con la quale il convenuto eccepisca lo “status” di separato non costituisce una eccezione in senso proprio (e non e’ soggetta alle relative preclusioni), ma integra una mera allegazione difensiva”;

c) Cass. n. 12146 del 2016, seguita dalla conforme Cass. n. 25486 del 2016 ha affermato in termini generali, intendendo evidentemente fare riferimento con l’allusione alla presunzione alla configurabilita’ del danno in termini di fattispecie astratta, che: “Il fatto illecito, costituito dalle gravissime lesioni patite dal congiunto, da’ luogo ad un danno non patrimoniale presunto, consistente nella conseguenze pregiudizievoli sul rapporto parentale, allorche’ colpisce soggetti legati da uno stretto vincolo di parentela, restando irrilevante, per l’operare di detta presunzione, la sussistenza di una convivenza tra gli stretti congiunti e la vittima del sinistro”.

7.3. Come emerge dalle ricordate decisioni ed anche a prescindere dunque dall’immediato dissenso della giurisprudenza penale, l’attribuzione alla convivenza del carattere di presupposto necessario per l’individuazione del congiunto che abbia titolo per il “danno morale” (sebbene nell’accezione indicata dalle sentenza di San Martino, cioe’ come parte del danno non patrimoniale e secondo le ampie e convincenti precisazioni di Cass. n. 901 del 2018, gia’ citata) e la sua degradazione ad elemento da apprezzarsi, unitamente ad altri, sul piano probatorio, infirma di per se’ il ragionamento seguito dalla corte di merito per l’apprezzamento della conformita’ all’ordinamento interno della legge serba, che invece attribuisce al contrario alla convivenza carattere condizionante la risarcibilita’.

7.4. Peraltro, tanto non basterebbe alla cassazione della sentenza, atteso che, pur constatato il venir meno del rilievo della convivenza secondo la giurisprudenza di diritto interno, questa Corte si deve comunque domandare se, una volta constatato che per la legge italiana quel rilievo non sussiste, il dare efficacia alla legge serba configuri una violazione dell’ordine pubblico di cui all’articolo 16 della legge di diritto internazionale privato.

Ora, come questa Corte, proprio nella materia del danno da perdita del congiunto, ha avuto modo di precisare, la nozione di ordine pubblico internazionale, olim presente nel vecchio articolo 31 preleggi ed ora nella L. n. 218 del 1995, comma 1, si deve intendere nei termini seguenti: “Agli effetti del diritto internazionale privato, l’ordine pubblico che – anche ai sensi dell’abrogato articolo 31 preleggi, applicabile “ratione temporis” – impedisce l’ingresso nell’ordinamento italiano della norma straniera che vi contrasti si identifica con l'”ordine pubblico internazionale”, da intendersi come complesso dei principi fondamentali caratterizzanti l’ordinamento interno in un determinato periodo storico o fondati su esigenze di garanzia, comuni ai diversi ordinamenti, di tutela dei diritti fondamentali dell’uomo” (Cass. n. 19405 del 2003).

Tale nozione, riconducibile al piano di rilevanza dell’ordine costituzionale italiano, era stata enunciata gia’ in tema di disciplina dei rapporti di lavoro da Cass. n. 16017 del 2007 (e prima da Cass. n. 10215 del 2007), sottolineandosi la necessita’ di identificare l’ordine pubblico di rilievo internazionalprivatistico con l’oggetto di un controllo della compatibilita’ della norma straniera con i “principi fondamentali della nostra Costituzione o, comunque, (individuabili) in quelle altre norme che rispondono all’esigenza di carattere universale di tutelare i diritti fondamentali dell’uomo o, ancora, che informano l’intero ordinamento in modo tale che la loro lesione (per effetto dell’applicazione della norma straniera) si traduca in uno stravolgimento dei suoi valori fondanti”.

Cass. n. 19405 del 2013, in coerenza con l’assunta nozione e dando rilievo anche alle fonti sovranazionali comunitarie, oramai in via immediata incidenti, com’e’ noto, pure sull’ordinamento interno, ebbe cosi’ a statuire che nella detta accezione l’ordine pubblico “e’ ostativo all’applicazione nell’ordinamento italiano dell’articolo 1327 ABGB (codice civile austriaco), che limita il risarcimento in favore dei congiunti di persone decedute a seguito di fatto illecito al solo danno patrimoniale ed esclude la risarcibilita’ del danno cosiddetto parentale, venendo in rilievo l’intangibilita’ delle relazioni familiari, ossia un valore di rango fondamentale, riconosciuto anche dall’articolo 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo e dall’articolo 7 della Carta di Nizza, per il quale il risarcimento rappresenta la forma minima ed imprescindibile di tutela”.

A sua volta la gia’ citata Cass. n. 901 del 2018 ha precisato che “In tema di risarcimento del danno non patrimoniale conseguente alla lesione di interessi costituzionalmente protetti, il giudice di merito, dopo aver identificato la situazione soggettiva protetta a livello costituzionale, deve rigorosamente valutare, sul piano della prova, tanto l’aspetto

interiore del danno (c.d. danno morale), quanto il suo impatto modificativo “in pejus” con la vita quotidiana (il danno c.d. esistenziale, o danno alla vita di relazione, da intendersi quale danno dinamico-relazionale), atteso che oggetto dell’accertamento e della quantificazione del danno risarcibile – alla luce dell’insegnamento della Corte costituzionale (sent. n. 235 del 2014) e del recente intervento del legislatore (articoli 138 e 139 C.d.A., come modificati dalla legge annuale per il Mercato e la Concorrenza del 4 agosto 2017 n. 124) – e’ la sofferenza umana conseguente alla lesione di un diritto costituzionalmente protetto, la quale, nella sua realta’ naturalistica, si puo’ connotare in concreto di entrambi tali aspetti essenziali, costituenti danni diversi e, percio’, autonomamente risarcibili, ma solo se provati caso per caso con tutti i mezzi di prova normativamente previsti”.

7.5. Ebbene, nella fattispecie viene in rilievo una legge straniera, quella serba, che non esclude la risarcibilita’ del danno morale, ma limita – almeno nella percezione datane dai giudici di merito e non piu’ discutibile per cosa giudicata interna – la platea dei possibili titolari ai congiunti che siano conviventi.

Ebbene, l’applicazione del concetto di ordine pubblico internazionale nei termini indicati deve avvenire considerando il fondamento della tutela del danno morale nell’accezione che viene qui in rilievo, cioe’ come pregiudizio derivante dal venir meno della relazione familiare per il decesso della persona in ragione dello sconvolgimento provocato nel sentire del congiunto sopravvissuto tanto istantaneamente quanto nel tempo. Questo sconvolgimento, se si vuole esistenziale, risulta potenzialmente di tutta evidenza a prescindere dal dato fattuale della convivenza: la ragione e’ che la relazione parentale fra le persone si connota come vincolo che rileva, secondo una valutazione che corrisponde a percezione comune, a prescindere dalla persistenza della convivenza, essendo la relazionalita’ parentale certamente correlata alla convivenza fino a quando il congiunto resti, conforme al naturale sviluppo della persona, nel nucleo familiare di origine, ma concretandosi, successivamente, quando la persona da quel nucleo si distacca, sempre come una relatio presente e potenzialmente effettiva sull’esistenza delle persone e cio’ a prescindere dal venir meno dalla convivenza.

Ne deriva la conclusione che una legge che neghi a priori l’incidenza di tale relazionalita’ quando la convivenza e’ venuta meno si risolve in una aprioristica esclusione di un modo di atteggiarsi di ciascuna persona umana che naturalmente e potenzialmente appare collegato alla parentela in se’ senza essere condizionato dalla convivenza. Sotto tale profilo tale legge si risolve nella negazione della rilevanza di un modo di essere della persona senza alcuna verifica in concreto del grado di persistenza del suo valore, che non si correla affatto automaticamente naturaliter alla convivenza, ma semmai all’esito dell’apprezzamento della sua esistenza o meno e delle ragioni per cui essa non persiste, vede assumere ad essa solo il valore di elemento per la ponderazione della sussistenza del danno e della sua intensita’.

Cio’, tanto piu’ in tempi come quelli odierni in cui la facilita’ dello spostamento delle persone dal luogo di origine rende non solo assolutamente normale l’allontanamento dal nucleo familiare sebbene nello stesso luogo geografico, ma anche con rilevante mutamento di esso, senza che la facilita’ e l’ampiezza dell’uso dei mezzi di comunicazione a distanza possano nuocere al mantenimento di una naturale intensita’ della relazione parentale tale da giustificare astrattamente il risentir danno dalla perdita del congiunto per il verificarsi dello sconvolgimento esistenziale ad essa astrattamente ricollegabile. Cio’, naturalmente con riferimento alle relazioni parentali che naturaliter riguardano i rapporti fra fratelli e sorelle o fra nipoti e nonni, le quali, secondo il comune sentire, normalmente consentono di individuare astrattamente ragione di danno di quel genere da perdita del congiunto.

7.6. La sentenza impugnata dev’essere, dunque, cassata in applicazione del seguente principio di diritto: “Una legge straniera che restringa la risarcibilita’ del danno non patrimoniale da perdita del congiunto esclusivamente al caso in cui costui fosse convivente e’ da ritenere contraria all’ordine pubblico italiano ai sensi della L. n. 218 del 1995, articolo 16, comma 1 e deve essere disapplicata dal giudice italiano, dovendosi nell’ordinamento italiano dare alla convivenza solo il valore di elemento eventualmente rilevante in concreto sul piano probatorio del danno di tal genere”.

Tale principio avrebbe dovuto essere applicato di fronte all’articolo 201 della Legge sulle obbligazioni del 2007 della Serbia.

8. Conclusivamente, quanto al ricorso principale e’ accolto il secondo motivo e, per il resto, il ricorso e’ rigettato. Quanto al ricorso incidentale e’ accolto l’unico motivo. La sentenza impugnata e’ cassata in relazione con rinvio, anche per le spese del giudizio di cassazione, aa altra sezione della Corte di Appello di Trento, comunque in diversa composizione.

P.Q.M.

La Corte riuniti i ricorsi, accoglie il secondo motivo del ricorso iscritto al n.r.g. 25702 del 2015 e rigetta il ricorso per il resto. Accoglie il ricorso n.r.g. 25705 del 2015. Cassa la sentenza impugnata in relazione e rinvia ad altra sezione della Corte d’Appello di Trento, comunque in diversa composizione anche per le spese del giudizio di cassazione.