Diritto Fallimentare


Il Caso.it, Sez. Giurisprudenza, 19836 - pubb. 11/01/2018

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Cassazione civile, sez. I, 24 Agosto 1993, n. 8912. Est. Vignale.


Divieto di esecuzioni individuali - In genere - Inosservanza del predetto divieto nella procedura esecutiva fiscale - Conseguenze - Amministrazione finanziaria - Obbligo di versare all'amministrazione fallimentare il riscosso - Sussistenza



Diversamente dalla espropriazione esattoriale promossa per la riscossione delle imposte sui redditi (art. 51, primo e secondo comma d.P.R. 29 settembre 1973 n. 602), la procedura esecutiva fiscale , iniziata a norma del R.D. 14 aprile 1910 n. 639 (sulla riscossione delle entrate patrimoniali dello Stato), non si sottrae al principio di improcedibilità delle azioni esecutive individuali di cui all’art. 51 della legge fallimentare, ancorché la dichiarazione di fallimento sia intervenuta dopo la vendita giudiziaria dei beni assoggettati ad esecuzione , ma prima della assegnazione della somma al creditore. L'inosservanza di detto divieto comporta l'inefficacia dell'atto di riscossione in conseguenza della improseguibilità dell'azione esecutiva individuale in pendenza del fallimento del debitore e l'obbligo, per l'amministrazione finanziaria che ha violato il divieto, di versare all'amministrazione fallimentare il riscosso, costituente parte della massa attiva. (massima ufficiale)


Massimario Ragionato



 


REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE I

Composta dagli Ill.mi Sigg. Magistrati:
Dott. Francesco Enrico ROSSI Presidente
" Pellegrino SENOFONTE Consigliere
" Alfredo ROCCHI "
" M. Rosario VIGNALE Rel. "
" Antonio CATALANO "
ha pronunciato la seguente

SENTENZA

sul ricorso proposto

da

MINISTERO DELLE FINANZE, in persona del Ministro p.t., elettivamente domiciliato in Roma via dei Portoghesi, 12, c-o l'Avvocatura Generale dello Stato che lo rappresenta e difende ope legis

Ricorrente

contro

FALLIMENTO VALENTI ALDINA in persona del curatore Rag. Franco Tranquilli, elettivamente domiciliato in Roma Via Nizza n. 45 c-o l'Avv. Ferruccio Carboni Corner che lo rappresenta e difende unitamente all'Avv. Corrado Spaggiari giusta delega in calce al presente controricorso.

Controricorrente

Avverso la sentenza n. 7-90 della Corte d'Appello di Bologna dep. il 10-1-1990;
Udita nella pubblica udienza del 10 marzo 1993 la relazione del Consigliere M. Rosario Vignale;
Udito per il resistente l'Avv. Carboni che ha chiesto il rigetto del ricorso;
Sentito il P.M. in persona del Dott. Fabrizio Amirante il quale ha concluso per il rigetto del ricorso.

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Il 22 luglio 1985, il Tribunale di Reggio Emilia dichiarò il fallimento di Aldina Valenti. Il Curatore, con atto notificato il 5 settembre 1986, convenne innanzi al Tribunale fallimentare l'Amministrazione delle finanze chiedendo che venisse revocato e dichiarato inefficace il pagamento di L. 6.040.000 ottenuto dall'Ufficio I.V.A. di Reggio Emilia dopo la dichiarazione di fallimento, a seguito di esecuzione forzata. Sosteneva che quanto riscosso dall'Amministrazione delle finanze non poteva essere incamerato, ma doveva essere versato al fallimento. Il Tribunale rigettò la domanda. Su appello del fallimento, la Corte d'appello di Bologna, con sentenza 10 novembre 1989-10 gennaio 1990, riformò la decisione impugnata, applicando l'art. 44 della legge fallimentare, in forza del quale, dopo l'apertura del fallimento, non possono riscuotersi somme provenienti dall'esecuzione individuale su beni del fallito.
Contro tale sentenza, l'Amministrazione delle finanze ha proposto ricorso per cassazione, articolato in due motivi. Resiste il fallimento Aldina Valenti con controricorso, chiedendo il rigetto dell'impugnazione.

MOTIVI DELLA DECISIONE

Con il primo motivo di ricorso, l'Amministrazione delle finanze sostiene che erroneamente la Corte di merito abbia fondato la sua decisione sull'applicazione dell'art. 44 L.F. il quale, invece, riguarda pagamenti riconducibili all'attività del fallito, e, dunque, maturati dopo il fallimento. Nella specie, la procedura esecutiva, invece, ebbe inizio prima del fallimento. Con il secondo motivo, rileva che, nella specie, non vi era stata una procedura esecutiva ordinaria, ma un esecuzione fiscale (promossa a norma del T.U. n. 639 del 1910), alla quale non sarebbe stato applicabile il principio di improcedibilità delle azioni esecutive individuali di cui all'art. 51 L.F.. Osserva, inoltre, che la vendita giudiziaria era avvenuta ancor prima della dichiarazione di fallimento e che la somma era stata attribuita al creditore senza necessità di alcun ulteriore atto giudiziario.
Le due censure possono essere esaminate congiuntamente, atteso che entrambe ineriscono all'accertamento della efficacia degli atti posti in essere dall'Amministrazione delle finanze per la realizzazione in via giudiziale del suo credito nei confronti del fallito. Va, a tal proposito, rilevato che la sentenza impugnata non è correttamente motivata in diritto, pur risultando il dispositivo conforme al diritto: tal che, a norma del Ii co. dell'art. 384 cod. proc. civ., il ricorso dell'Amministrazione delle finanze deve essere
rigettato, benché la motivazione della decisione della Corte d'appello di Bologna debba essere corretta.
Invero, contrariamente a quanto affermato in detta pronuncia, nell'ipotesi di esecuzione individuale iniziata o proseguita dopo la dichiarazione di fallimento del debitore esecutato, non è luogo all'applicazione dell'art. 44 della legge fallimentare. Questa norma si riferisce, infatti, all'ipotesi di atti compiuti dal fallito e di pagamenti da lui eseguiti dopo la dichiarazione del fallimento, sancendo l'inefficacia di tali atti rispetto ai creditori. Nel caso di specie, però, l'Amministrazione delle finanze aveva realizzato il proprio credito portando a compimento una procedura di esecuzione forzata iniziata prima del fallimento: pertanto, non ricorrevano ipotesi di "atti" compiuti dal fallito, ne' di pagamenti eseguiti dallo stesso, dovendo la suddetta terminologia riferirsi evidentemente ad attività negoziali e spontanee poste in essere dal debitore e non a fatti di riscossione delle somme distribuite in sede di esecuzione forzata, che costituiscono il risultato di un atto proveniente dal giudice a chiusura del procedimento esecutivo. Alla fattispecie doveva, quindi, applicarsi solo la disposizione di cui all'art. 51 della legge fallimentare, in forza della quale, salva diversa disposizione di legge, dopo la dichiarazione di fallimento, nessuna azione esecutiva individuale può essere iniziata o proseguita sui beni compresi nel fallimento.
L'Amministrazione creditrice sostiene che ricorreva nella specie l'eccezione di cui a tale inciso, trattandosi di esecuzione promossa per la realizzazione di un credito fiscale. È, però, da ritenersi che la semplice natura tributaria del credito non basta ad integrare l'eccezione di cui alla norma generale, occorrendo, all'uopo, una specifica normativa derogatoria. Tale deroga, invero, è stabilita, per quanto concerne i crediti fiscali, con riguardo soltanto alle espropriazioni esattoriali promosse per la riscossione delle imposte sui redditi (art. 51 I e II co. D.P.R. 29 settembre 1973 n. 602). E la circostanza, evidenziata dalla ricorrente, che la procedura esecutiva fiscale aveva avuto inizio a norma del T.U. n. 639 del 1910 sulla riscossione delle entrate patrimoniali dello Stato, costituisce, piuttosto che un argomento favorevole alla tesi della sussistenza della fattispecie derogatoria, un'ulteriore prova del fatto che, nella specie, non era applicabile la normativa speciale e derogatoria sui rapporti tra espropriazione esattoriale e procedura concorsuale.
Nè, a tal riguardo, può avere rilievo, infine, il fatto che la dichiarazione di fallimento sia, nel caso di specie, intervenuta dopo la vendita giudiziaria dei beni assoggettati ad esecuzione, quantunque prima dell'assegnazione della somma al creditore. È, infatti, evidente che anche la distribuzione delle somme ricavate dall'espropriazione forzata fa parte della procedura esecutiva, della quale, anzi, costituisce l'atto conclusivo e qualificante. Esso, come tale, rientra tra quelle attività che, dopo la dichiarazione di fallimento del debitore, non possono essere "proseguite", a norma dell'art. 51 della legge fallimentare, nel senso quanto meno che i suoi risultati devono, in ogni caso, essere rapportati all'amministrazione fallimentare. L'inosservanza di questo divieto comporta, secondo la giurisprudenza di questa Corte, l'inefficacia dell'atto di riscossione(come conseguenza dell'improseguibilità dell'azione esecutiva individuale in pendenza del fallimento del debitore) e l'obbligo, per il creditore che ha violato il divieto di versare all'amministrazione fallimentare il riscosso, perché parte della massa attiva.
Il ricorso deve, pertanto, essere rigettato. Le spese del giudizio di cassazione sono a carico del soccombente.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna l'Amministrazione delle finanze al pagamento delle spese del giudizio di cassazione, liquidate in complessive L. 1.035.000 di cui L. 1.000.000 di onorari. Roma, 10 marzo 1993.