Diritto Fallimentare


Il Caso.it, Sez. Giurisprudenza, 19778 - pubb. 11/01/2018

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Cassazione civile, sez. I, 16 Aprile 1996, n. 3595. Est. Criscuolo.


Sequestro amministrativo ex art. 3 R.D.L. n. 794 del 1938 - Fallimento del trasgressore - Opponibilità del sequestro - Esclusione



Il sequestro amministrativo ex art. 3, comma terzo, del R.D.L. 12 maggio 1938 n. 794, effettuato in relazione ad infrazioni valutarie a garanzia del pagamento delle pene pecuniarie di cui all'art. 2 del R.D.L. 5 dicembre 1938 n. 1928, è inopponibile al fallimento del responsabile dell'infrazione valutaria, atteso che il divieto di azioni esecutive individuali, posto dall'art. 51 legge fall., si estende anche alle azioni cautelari, tra cui rientra il suddetto sequestro amministrativo. (massima ufficiale)


Massimario Ragionato



 


REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE I

Composta dagli Ill.mi Sigg. Magistrati:
Dott. Mario CORDA Presidente
" Vincenzo FERRO Consigliere
" Alessandro CRISCUOLO Rel. "
" Ugo VITRONE "
" Giuseppe SALMÈ "
ha pronunciato la seguente

 

SENTENZA

sul ricorso proposto

da

MINISTERO DEL TESORO, in persona del Ministro p.t., elettivamente domiciliato in Roma Via Portoghesi 12, c-o l'Avvocatura Generale dello Stato, che lo rappresenta e difende ope legis;

Ricorrente

contro

CREDITO ITALIANO SPA, in persona dei legali rappresentanti p.t., elettivamente domiciliato in Roma Via L. Settembrini n. 30, presso l'Avvocato Giangiacomo Tornabuoni, che lo rappresenta e difende unitamente all'Avvocato Francesco Lopez, giusta delega in atti;

Controricorrente

avverso la sentenza n. 874-93 della Corte d'Appello di Venezia, depositata il 25-06-93;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 21-11-95 dal Consigliere Relatore Dott. Alessandro Criscuolo;
udito per il ricorrente, l'Avv. De Figueiredo, che chiede l'accoglimento del ricorso;
udito il P.M. in persona del Procuratore Generale Dott. Antonio Martone che ha concluso per il rigetto del ricorso.

FATTO

Con citazione notificata il 21 novembre 1985 il Credito Italiano S.P.A. convenne in giudizio davanti al Tribunale di Venezia l'Amministrazione del Tesoro, esponendo: che aveva versato alla Tesoreria dello Stato la somma di Lit. 7.802.980; che detta somma, in precedenza, era stata sequestrata presso lo stesso istituto di credito, a seguito della contestazione di infrazione valutaria a carico di Vianelli Claudio, dichiarato fallito con sentenza del 5 dicembre 1974; che essa banca aveva già corrisposto la stessa somma al curatore del fallimento Vianelli, il quale, autorizzato dal giudice delegato, ne aveva fatto richiesta; che pertanto, il successivo pagamento alla Tesoreria integrava gli estremi dell'indebito ex art. 2033 C.C.. Su tali presupposti l'attore chiese che l'Amministrazione del Tesoro dello Stato fosse condannava a restituire l'importo pagato, con rivalutazione ed interessi. Instauratosi il contraddittorio l'Amministrazione chiese il rigetto della domanda, deducendo che il sequestro amministrativo attribuiva preferenza rispetto ad ogni altra ragione di credito per il pagamento delle pene pecuniarie, sicché la azione erariale di recupero era sottratta alle regole del concorso. In ogni caso contestò la sussistenza degli estremi dell'indebito (oggettivo o soggettivo).
Con sentenza n. 72 del 13.10.1988 - 16.1.1989 il Tribunale accolse la domanda e condannò l'Amministrazione del Tesoro a pagare all'attore la somma di Lit. 7.802.890, con gli interessi legali decorrenti dal 21.11.1985 e con il maggior danno ex art. 1224 C.C., pari a Lit. 2.259.631.
A seguito d'impugnazione della soccombente la Corte d'Appello di Venezia, con sentenza n. 874-93 in data 25 marzo - 25 giugno 1993, respinse il gravame condannando l'appellante al pagamento delle spese giudiziali di secondo grado.
La Corte osservò: che la documentazione prodotta dalle parti consentiva di ricostruire come segue lo svolgimento dei fatti: 1) il sig. Claudio Vianelli aveva illegittimamente costituito all'estero disponibilità valutarie, rappresentate da un deposito di dollari canadesi 16.000 presso la Barclay's Bank International di Londra; 2) dichiarato il fallimento del Vianelli con sentenza 5 dicembre 1974, il curatore aveva cercato di recuperare all'attivo il detto importo, equivalente a circa Lit. 10 milioni al cambio dell'epoca, ed aveva chiesto al giudice delegato l'autorizzazione a promuovere un'azione giudiziaria a Londra, in quanto il Vianelli aveva a sua volta rivendicato la somma e la banca inglese depositaria aveva dichiarato di aver trasferito l'importo su un conto sospeso a nome del Vianelli e di tenerlo a disposizione di chi fosse risultato l'effettivo titolare, a seguito di sentenza di una Corte inglese; 3) per sbloccare la situazione il curatore aveva prospettato al tribunale la possibilità di addivenire ad una transazione, prevedendosi (tra l'altro) l'abbandono dell'azione giudiziaria in corso a Londra e l'accredito al fallimento della somma di dollari canadesi 12.000, al cambio della data della transazione medesima; 4) autorizzata la transazione e stipulato il relativo atto, l'accordo aveva avuto esecuzione con accredito al curatore, mediante bonifico bancario eseguito presso il Credito Italiano di Venezia, del controvalore di dollari canadesi 10.390 (importo previsto in transazione, detratte le spese legali sostenute all'estero); 5) il 21 maggio 1990 il Credito Italiano aveva segnalato all'Ufficio cambi (servizio ispettorato di Roma) tale operazione, chiedendo l'autorizzazione al pagamento; 6) con verbale di accertamento del 9 febbraio 1981 l'Ufficio italiano cambi aveva addebitato al Vianelli le violazioni degli artt. 2 e 8 D.L. 6.6.1956 n. 476, per avere assunto una arbitraria obbligazione nei confronti dell'estero e per aver omesso di cedere la valuta in questione e, contestualmente, aveva sottoposto a sequestro - ai sensi e per gli effetti di cui all'art. 3 R.D.L. 12.5.1938 n. 794, la somma di Lit. 7.802. 890 (derivante dalla negoziazione dei 10.390 dollari canadesi), disponendo che il Credito Italiano provvedesse ad immettere il relativo importo in un contro indisponibile "con vincolo a favore del Ministero del Tesoro a garanzia delle pene pecuniarie che potrebbero essere irrogate in esisto al procedimento amministrativo" originato dal citato verbale; 7) con decreto 21 giugno 1982 il giudice delegato aveva autorizzato il curatore a prelevare la soma depositata presso il Credito Italiano ed a riversarla nel deposito bancario del fallimento intrattenuto presso altro istituto; 8) eseguita l'operazione, il Ministero del Tesoro, con decreto in data 16 luglio 1983, aveva determinato a carico del Vianelli, per le violazioni ascrittegli, la pena pecuniaria di Lit. 7.802.890, disponendo che il corrispondente importo - a suo tempo depositato presso il Credito Italiano - fosse "imputato al pagamento della suddetta penalità"; 9) con decreto del 1 settembre 1983 l'Intendente di Finanza di Treviso, in esecuzione del suddetto decreto ministeriale, aveva dichiarato inflitta al Vianelli la pena pecuniaria nella misura determinata, disponendo che il controvalore della valuta estera depositata presso il Credito Italiano di Venezia fosse imputato al pagamento della predetta somma; 10) l'istituto bancario - a seguito d'intimazione dell'Intendenza di Treviso - aveva effettuato il versamento della somma in questione alla Tesoreria della Banca d'Italia di Treviso; che - proseguì la Corte veneziana - tale svolgimento dei fatti poneva in luce che il sequestro amministrativo dell'Ufficio italiano cambi aveva colpito non il controvalore in lire della negoziazione dei dollari canadesi illecitamente esportati, bensì somme di pertinenza del fallimento, perché accreditare sul conto corrente aperto presso il Credito Italiano a seguito della transazione col Vianelli autorizzata dal Tribunale di Venezia, dunque somme destinate al soddisfacimento dei creditori concorsuali e concorrenti; che il vincolo amministrativo - operato dall'U.I.C. ai sensi dell'art. 3 R.D.L. 12.5.1938 n. 794 - era destinato a garantire il pagamento delle pene pecuniarie applicabili al Vianelli, ma quelle pene corrispondevano ad un credito concorsuale, perhè relative ad un illecito perpetrato dal fallito prima dell'apertura del concorso, in quanto il procedimento amministrativo (pure instaurato in epoca successiva) era relativo a fatti anteriori alla dichiarazione di fallimento; che, in tale situazione, la misura cautelare, in quanti disposta in pendenza del fallimento del debitore, doveva considerarsi inefficace nei confronti del curatore, stante il principio posto dall'art. 51 L.F., riguardante non soltanto le azioni esecutive vere e proprie, ma anche quelle cautelari aventi (come il sequestro di questione) carattere strumentale rispetto al processo esecutivo; che, d'altra parte, l'acquisizione di un bene all'attivo era essa stessa la specifica misura cautelare caratterizzante il processo fallimentare, in quanto diretta a garantire in egual misura i diritti patrimoniali di tutti i creditori concorrenti, sicché, una volta verificatasi ope legis l'acquisizione all'attivo dei beni del debitore, era del tutto incompatibile ogni altra misura a tutela dei diritti dei singoli, essendo il sequestro fallimentare sufficiente a scongiurare il pericolo della dispersione delle garanzie per i creditori; che, dunque, un sequestro conservativo su beni compresi nel fallimento era inammissibile e, se seguito anteriormente all'apertura del concorso, era automaticamente inefficace; che gli stessi principi valevano per il sequestro amministrativo de quo, eseguito in base ad una norma che non valeva a sottrarre il credito dell'Amministrazione alla regola del concorso, ma era diretta a costituire una causa di prelazione attributiva alla stessa Amministrazione del diritto di ottenere il pagamento preferenziale, in sede di graduazione; che, peraltro, quella causa di prelazione neppure poteva ritenersi efficacemente sorta, posto che il sequestro era avvenuto dopo il fallimento ed aveva avuto per oggetto somme di esclusiva pertinenza della massa dei creditori; che, in definitiva, l'Amministrazione avrebbe dovuto soddisfare le proprie ragioni di credito solo nell'ambito del concorso, previa insinuazione al passivo; che, quindi, il Credito Italiano aveva il deposito di somme di esclusiva pertinenza della curatela medesima, mentre nessun debito aveva verso l'Amministrazione del Tesoro, la quale avrebbe dovuto far valere le proprie ragioni unicamente nell'ambito del concorso, essendo creditrice del Vianelli e non del Credito Italiano; che, conseguentemente, il pagamento eseguito a favore dell'Amministrazione del Tesoro era del tutto carente di causa ed integrava gli estremi dell'indebito oggettivo di cui all'art. 2033 cod. civ., come esattamente affermato dai primi giudici.
Avverso tale sentenza l'Amministrazione del Tesoro propone ricorso per cassazione, affidato a due motivi.
Il Credito Italiano S.p.A., Filiale di Venezia, resiste con controricorso.

DIRITTO

Con il primo mezzo di cassazione l'Amministrazione ricorrente denunzia omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su punti decisivi della controversia, in relazione all'art. 360, primo comma, n. 5, C.P.C.. Richiamata la ricostruzione dei fatti effettuata dalla sentenza impugnata, osserva che la Corte territoriale ha ritenuto la somma di Lit. 7.802.890 "di pertinenza" del fallimento Vianelli, perché depositata presso l'istituto di credito dal curatore a seguito di un atto di transazione stipulato col fallito, ed ha quindi concluso che la banca avesse ben prorogato al vero creditore (cioè il fallimento). Tale assunto, però, sarebbe sostenuto da una motivazione apparente e, comunque, incongrua e contraddittoria. Infatti, il tipo e le parti del contratto, in forza del quale la somma in questione era stata trasferita da Londra al Credito Italiano di Venezia, non avrebbero potuto mutare la natura della somma medesima, costituente disponibilità valutaria illegittimamente costituita all'estero ed anzi, al momento dell'infrazione e della stipula della transazione, costituente provento di reato. Inoltre il sequestro disposto dall'U.I.C. avrebbe comportato l'insorgere di un vincolo d'indisponibilità, onde quella somma non sarebbe stata pagabile ad alcuno senza autorizzazione del titolare del vincolo:
circostanza, peraltro, nota all'istituto di credito; sicché, quali che fossero i rapporti tra gli effetti della dichiarazione di fallimento e gli effetti del sequestro valutario, almeno due punti decisivi sarebbero rimasti privi di motivazione: che una transazione tra la curatela e il fallito potesse portare alla "ripulitura" di somme costituenti provento di reato, e che la banca depositaria di tali somme potesse scegliere con effetto liberatorio il creditore. Tali censure sono destituite di fondamento.
La Corte veneziana, sulla base di una dettagliata ricostruzione dei fatti condotta alla stregua della documentazione acquisita (e non contestata, come si desume dalla sentenza impugnata e dallo stesso ricorso per cassazione), ha accertato che il sequestro amministrativo dell'U.I.C. aveva colpito non il controvalore in lire della negoziazione dei dollari canadesi illecitamente esportati (cioè non le illecite disponibilità valutarie costituenti l'oggetto della violazione), bensì somme di pertinenza del fallimento perché già accreditare sul conto corrente acceso presso il Credito Italiano a seguito della transazione col Vianelli autorizzata dal Tribunale di Venezia in data 20 giugno 1979. Detto accertamento - corretto e congruamente motivato proprio attraverso la minuziosa messa a fuoco della sequenza dei fatti (come riportata in narrativa) - esclude ex se che possa ipotizzarsi la cosiddetta "ripulitura" dedotta dalla ricorrente.
Gli eventuali risvolti penali degli illeciti valutari ascritti al Vianello (peraltro depenalizzati a seguito della legge 21 ottobre 1988, n. 455) non avevano alcuna incidenza sulla validità e sulla
liceità dell'accordo, per il cui tramite il curatore del fallimento Vianelli era giunto a recuperare alla massa una somma che doveva esser compresa nel fallimento medesimo, ai sensi dell'art. 42 della legge fallimentare.
Nè è esatto affermare che la sentenza impugnata abbia omesso di motivare sul punto che la banca depositaria della somma, di fronte a provvedimenti in conflitto (dichiarazione di fallimento e sequestro dell'U.I.C.), non potesse scegliere con effetto liberatorio il creditore, ossia esercitare la funzione di giudice sulla spettanza della somma in questione. Contrariamente a quanto assume la ricorrente, la sentenza impugnata: 1) ha verificato l a natura del vincolo disposto dall'U.I.C.; 2) ha accertato che esso era destinato a garantire il pagamento delle pene pecuniarie applicabili al Vianelli; 3) ha rilevato che quelle pene corrispondevano ad un credito concorsuale da far valere nell'ambito della procedura fallimentare, previa ammissione al passivo; 4) ha perciò ritenuto che il vincolo, disposto in pendenza del fallimento del debitore, fosse inefficace nei confronti del curatore; 5) ha, conseguentemente, affermato che "il Credito Italiano aveva il deposito di somme di esclusiva spettanza della curatela ed era, perciò, obbligato a restituirle unicamente all'ufficio fallimentare". Come si vede, dunque, la sentenza impugnata ha specificamente escluso - con congrua e adeguata motivazione, immune da vizi logici - che la banca abbia scelto il creditore (come invece erroneamente sostiene la ricorrente), stabilendo che essa era obbligata a pagare al fallimento; e da ciò ha desunto che il successivo pagamento eseguito all'Amministrazione del Tesoro era carente di causa, onde integrava un indebito oggettivo.
L'iter argomentativo seguito dalla Corte si presenta, in definitiva, chiaro e completo e, perciò, si sottrae alle censure mosse con primo motivo del ricorso.
Col secondo mezzo di cassazione l'Amministrazione del Tesoro denunzia violazione e falsa applicazione dell'art. 3 R.D.L. 12.5.1938 n. 794, convertito in Legge 9.1.1939 n. 380; degli artt. 5 e 6 R.D.L. n. 739; degli artt. 25 e 31 R.D. 16.3.1942 n. 267, dell'art. 2033 C.C. Il giudice del merito avrebbe errato nell'affermare che il sequestro disposto dall'U.I.C. fosse destinato esclusivamente a garantire il pagamento delle pene pecuniarie irrogate, e fosse quindi inefficace nei confronti del fallimento ai sensi degli artt. 51 e 52 della legge fallimentare. Infatti, sostiene la ricorrente, il sequestro di cui all'art. 3, terzo comma, R.D.L. 12.5.1938, n. 794, sarebbe in ogni caso sequestro delle cose "per cui risultino violate le vigenti norme" e soltanto eventualmente potrebbe assumere anche funzione di garanzia del pagamento delle pene pecuniarie. Del resto, gli artt. 5 e 6 del R.D.L. 5.12.1938 n. 1928, contemplerebbero - per le cose sequestrate costituenti oggetto della violazione - la devoluzione all'Erario e, solo sussidiariamente, la funzione di garanzia del pagamento delle pene pecuniarie. Ciò avrebbe rilevanza ai fini del giudizio sulla domanda di ripetizione d'indebito avanzata dal Credito Italiano. Decidendo sul punto, la Corte di merito avrebbe affermato che, avendo il Credito Italiano ben pagato alla curatela fallimentare, avrebbe per ciò stesso mal pagato all'Amministrazione del Tesoro. Ma oggetto dell'azione ex art. 2033 C.C. non sarebbe quello di accertare quale, tra due opposte pretese, sia fondata, bensì quello di stabilire se il pagamento effettuato non fosse dovuto, o per inesistenza del debito o perché questo esisteva ma verso soggetto diverso da quello cui il pagamento era stato effettuato. In sostanza, secondo la ricorrente, la Corte territoriale non avrebbe dovuto stabilire se il pagamento al curatore fosse stato ben fatto oppure no, ma porsi il problema se l'Amministrazione del Tesoro avesse titolo per ottenere dal Credito Italiano il pagamento di somme presso il medesimo depositate e sequestrate. Detta banca avrebbe potuto usare le cautele della Barclay's Bank International - e non pagare ad alcuno fin quando un giudice non avesse stabilito a chi il pagamento dovesse essere effettuato. Ma l'azione ex art. 2033 C.C. non potrebbe tradursi, ora per allora, in una azione di
accertamento dell'esistenza del titolo creditorio tra soggetti confliggenti, dovendo invece rimanere entro i limiti tipici fissati dal codice civile. In realtà il credito dell'Amministrazione sussisteva e sarebbe stato legittimamente pagato al Ministero del Tesoro dalla banca che, essendo titolare dell'obbligo di restituzione per l'avvenuto deposito e custode per l'avvenuto sequestro, rivestiva la posizione di debitrice.
Le censure espresse col suddetto motivo non sono fondate. Per quanto riguarda l'asserita violazione e falsa applicazione dell'art. 3 R.D.L. n. 794-1938, e degli artt. 5 e 6 R.D.L. 5.12.1938 n. 1928 (normativa poi abrogata, in quanto sostituita dalle disposizioni del T.U. 31.3.1988, n. 148, ovvero con esso incompatibile: cfr. art. 42 T.U. cit.), si deve osservare che il menzionato art. 3 consentiva, nel terzo comma, il sequestro dei titoli, delle valute, delle monete, delle merci e dei valori per i quali risultassero violate le norme vigenti.
Aggiungeva, altresì, che il sequestro poteva essere del pari effettuato a garanzia delle pene pecuniarie applicabili, nei casi in cui le risultanze dei controli si presentassero particolarmente gravi.
L'art. 5 del R.D.L. n. 1928-1938 disponeva che "Il Ministro per gli scambi e per le valute, indipendentemente dall'applicazione delle pene pecuniarie stabilite dall'art. 2, ha la facoltà di ordinare la devoluzione a favore dell'erario dello Stato delle cose sequestrate", costituenti l'oggetto della violazione.
L'art. 6, primo comma, del medesimo provvedimento normativo statuiva, a sua volta, che le cose sequestrate, "quanto non ne sia stata disposta la devoluzione a favore dell'erario dello Stato, garantiscono, con preferenza su ogni altro credito, il pagamento delle pene pecuniarie inflitte a norma dell'art. 2. A questo fine, l'importo delle pene pecuniarie è prelevato sul valore delle cose suindicate, previo, quando occorra, il realizzo o la vendita di esse".
Come il testuale tenore delle norme indicate palesa, nel sistema legale da esse descritto la devoluzione a favore dell'erario dello Stato delle cose sequestrate costituisce non già un effetto automatico del sequestro ma consegue all'esercizio di una facoltà dell'Amministrazione (art. 5 R.D.L. n. 1928-1938 cit.). Prima dell'esercizio di tale facoltà, e comunque quando la devoluzione non sia stata disposta, il sequestro riveste funzione di garanzia per il pagamento delle pene pecuniarie, secondo l'esplicita previsione normativa, sicché del tutto correttamente la Corte territoriale ha attribuito al vincolo imposto dall'Ufficio Italiano Cambi detta funzione. La quale, peraltro, nella fattispecie era espressamente contemplata nel provvedimento applicativo del vincolo. Infatti, come la sentenza impugnata pone in luce (pag. 8), nel processo verbale 9 febbraio 1981 dell'U.I.C. era testualmente dedotto che il sequestro veniva adottato, a norma dell'art. 3 cit., "a garanzia delle pene pecuniarie che potrebbero essere irrogate in esito al procedimento amministrativo che trae origine dal presente atto". Sicché, ove pur si volesse addivenire all'interpretazione propugnata dalla ricorrente, e ritenere soltanto sussidiaria la funzione di garanzia del sequestro, resterebbe pur sempre acclarato che, nel caso in esame, proprio quella funzione era stata attivata
dall'Amministrazione.
Fermo questo punto, l'obbligazione di pagamento di una somma a titolo di pena pecuniaria, di cui all'art. 2 del R.D.L. 5.12.1938 n.1928, ha carattere civile, onde essa è regolata dalle norme del
diritto civile (Cass. 15.6.1967 n. 1399). Conseguentemente, stante la pendenza della procedura fallimentare relativa al Vianelli e l'operatività delle regole proprie di essa, l'Amministrazione del Tesoro, come esattamente ritenuto dalla sentenza impugnata, avrebbe dovuto realizzare il proprio credito nell'ambito del concorso, previa ammissione al passivo, mentre era inefficace, e dunque inopponibile al fallimento, il vincolo apposto (tramite il sequestro), sulla somma de qua.
Infatti, come questa Corte ha più volte chiarito, il divieto posto dall'art. 51 L.F. si estende anche alle azioni cautelari, in quanto esse sarebbero in contrasto con la funzione conservativa del fallimento nei confronti di tutti i creditori (Cass., 26.2.1992 n. 2346; 21.5.1983, n. 3518). Ed analogo principio non può non valere anche per il sequestro amministrativo in questione, di cui è palese la natura cautelare ai fini della realizzazione del credito per la pena pecuniaria, alla stregua delle considerazioni dianzi svolte. In tale quadro, è irrilevante il richiamo della ricorrente agli artt. 25 e 31 della legge fallimentare. È vero, infatti, che - rispetto all'istituto depositario della somma - il curatore si presentava soltanto come soggetto richiedente il pagamento e l'autorizzazione del giudice delegato non aveva funzione accertativa del relativo diritto. Ma la risoluzione della lite insorta nel presente giudizio richiedeva, come presupposto necessario, proprio l'accertamento di quel diritto, accertamento cui la Corte veneziana ha proceduto non già facendo leva sul provvedimento autorizzatorio del giudice delegato, bensì svolgendo un articolato ragionamento, che, attraverso una corretta applicazione della normativa fallimentare, l'ha condotta a concludere che la somma depositata presso il Credito Italiano era di esclusiva spettanza della curatela fallimentare, alla quale, perciò, era obbligato a restituirla. Acclarato questo punto pregiudiziale, diviene conseguente ed obbligata la conclusione ulteriore: con il pagamento, legittimamente e doverosamente eseguito al curatore, l'istituto di credito aveva estinto il proprio debito nascente dal deposito, e non doveva quindi effettuare un pagamento ulteriore all'Amministrazione del Tesoro, pagamento che - una volta eseguito - veniva ad integrare gli estremi dell'indebito oggettivo.
Nè può condividersi l'assunto della ricorrente, secondo cui tale indagine esulerebbe dall'area applicativa dell'art. 2033 C.C.. Al contrario, proprio in quanto diretto a stabilire se fosse dovuto o meno il pagamento contestato, e dunque se sussistesse il diritto alla ripetizione, l'iter argomentativo seguito dalla Corte Territoriale si manifesta in tutto conforme a detta norma.
In definitiva, il ricorso si rivela infondato e deve essere respinto.
L'Amministrazione ricorrente, per il principio della soccombenza, va condannata al pagamento delle spese del giudizio di cassazione, liquidate come in dispositivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna l'Amministrazione ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di cassazione, che liquida in complessive Lit. 1.100.000, di cui Lit. 1 milione per onorari.
Così deciso in Roma, il 21 novembre 1995, nella camera di consiglio della 1 Sezione Civile della Corte Suprema di Cassazione.

DEPOSITATA IN CANCELLERIA IL 16 APRILE 1996