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Il Caso.it, Sez. Giurisprudenza, 18085 - pubb. 01/07/2010.

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Cassazione civile, sez. I, 23 Aprile 1998, n. 4187. Est. Morelli.

Provvedimenti in materia fallimentare - Provvedimento del giudice delegato di autorizzazione alla vendita - Decreto del tribunale reso in sede di reclamo - Impugnabilità ex art. 111 Cost. - Ammissibilità


Il decreto del tribunale fallimentare reso in sede di reclamo avverso il provvedimento del giudice delegato di autorizzazione alla vendita ha carattere decisorio in quanto decide su contestazioni in ordine alla legittimità di un provvedimento del giudice delegato non di contenuto meramente ordinatorio, ma incidente su diritti soggettivi. Consegue che nei suoi confronti è esperibile il ricorso per Cassazione ex art. 111 Cost.. (massima ufficiale)

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. Pasquale REALE - Presidente -

Dott. Antonio CATALANO Consigliere -

Dott. Mario Rosario MORELLI - Rel. Consigliere -

Dott. Giuseppe Maria BERRUTI - Consigliere -

Dott. Simonetta SOTGIU - Consigliere -

ha pronunciato la seguente

S E N T E N Z A

sul ricorso proposto da:

BANCA NAZIONALE DEL LAVORO SpA, in persona del Presidente pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA VIA VITTORIO VENETO 119, presso l'avvocato VINCENZO DE PALMA, che la rappresenta e difende unitamente all'avvocato VITANTONIO LA VOLPE, giusta procura sspeciale per Notaio Mario Liguori di Roma rep. 98733 del 7.6.1996.

- ricorrente -

contro

FALLIMENTO STEI INTERNATIONAL SpA, in persona del Curatore pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA VIA SALARIA 72, presso l'avvocato C. Reanda, rappresentato e difeso dall'avvocato ROBERTO LINGUITI, giusta delega in calce al controricorso;

- controricorrente -

avverso il decreto del Tribunale di FIRENZE, emesso il 10/04/96 (n. 15377 fall.) - udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 03/12/97 dal Consigliere Dott. Mario Rosario MORELLI udito per la ricorrente, l'Avvocato De Palma, che ha chiesto l'accoglimento del ricorso;

udito per il resistente, l'Avvocato Linguiti, che ha chiesto il rigetto del ricorso;

udito il P.M. in persona dell'Avvocato Generale Dott. Giovanni LO CASCIO che ha concluso in via preliminare: per l'inammissibilità del ricorso; nel merito: per l'accoglimento dell'ultimo motivo del ricorso.

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

La Banca Nazionale del Lavoro - creditrice ipotecaria della S.p.A. Stei International, come tale ammessa al passivo del Fallimento di quella per un credito di circa 24 miliardi (a fronte degli oltre 54 vantati in sede di insinuazione) - proponeva, con ricorso del 30 gennaio 1996, reclamo ex art. 26 L.F. avverso l'ordinanza del 22 gennaio precedente, con la quale era stata disposta, senza il necessario previo suo assenso, la vendita a trattativa privata (al prezzo base di L.38.500.000) del complesso alberghiero denominato "Sheraton Firenze Hotel" (sul quale essa ricorrente vantava appunto ipoteca) e disposta la cancellazione delle trascrizioni ed iscrizioni afferenti all'immobile suddetto.

Ed avverso il decreto del Tribunale di Firenze, in data 10 aprile 1996, che ha rigettato quel gravame, la stessa Banca ricorre ora per cassazione, ai sensi dell'art. 111 Costituzione. Resiste la curatela con controricorso.

Entrambe le parti hanno depositato memorie e, dopo le conclusioni orali del P.G., note di udienza.

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. Preliminarmente - in relazione alla conclusione, di inammissibilità del ricorso formulata in via principale dal P.G. - osserva la Corte che, alla stregua del proprio consolidato indirizzo giurisprudenziale, la natura e il contenuto del decreto impugnato non sono, viceversa, di ostacolo, alla sua ricorribilità ai sensi dell'art. 111 Costituzione stante, per un verso, la pacifica riferibilità del rimedio straordinario da detta norma disciplinato a tutti i provvedimenti sostanzialmente decisori e, per altro verso, l'innegabile ricorrenza di siffatti connotati di decisorietà nel decreto del Tribunale che, come nella specie, decide su contestazioni in ordine alla legittimità di provvedimenti del Giudice delegato (non di contenuto meramente ordinatorio ma) incidenti su diritti soggettivi connessi (come nel caso dell'autorizzazione alla vendita) alla regolarità procedurale della liquidazione dell'attivo (cfr. nn. 3482/91; 865, 10868/94; 1584, 2790/95; 461, 6809/96; 419/97). 2. L'impugnazione, cui può darsi quindi ingresso, si compone di sette motivi, alcuni dei quali, a loro volta, accorpanti plurime censure, complessivamente volte a denunciare, oltreché diretti motivi di "nullità del decreto del Tribunale" a quo, ulteriori e vari profili di illegittimità (che si assumono su quello ricadenti) che avrebbero "viziato" sia l'ordinanza del G.D. che dispose la vendita a trattativa privata (del complesso alberghiero su cui insisteva la prelazione della Banca) e la procedura correlativa che i (tre) precedenti esperimenti, di vendita senza incanto, andati deserti.

Riaggregate in ordine logico, le questioni, sottese al complesso di tali doglianze, sono le seguenti:

a) se sia "nulla" la decisione impugnata, in quanto assunta da un Collegio di cui faceva parte lo stesso G.D. autore dell'ordinanza reclamata; e se, in subordine sia "non manifestamente infondata" (e vada, per ciò, sollevata) questione di legittimità costituzionale dell'art. 26 L.F., ove interpretato nel senso che tolleri una tale incompatibilità (motivo 2 );

b) se sia comunque nulla, detta decisione, per violazione del diritto di difesa in danno della odierna ricorrente cui, nel procedimento per reclamo, non sarebbe stato di fatto consentito di replicare alle deduzioni della curatela (motivo 3 );

c) se, in relazione ai procedimenti vendita senza incanto (esperiti senza risultato) costituenti (in tesi) "presupposti essenziali" della poi effettuata vendita a trattativa privata, non sia suscettibile di censura il Tribunale di Firenze, per non averne rilevato i profili di illegittimità, pur denunciati dalla reclamante, per inosservanza delle prescritte forme di pubblicizzazione e comunicazione, ed omessa previa acquisizione del parere del Comitato dei creditori (motivo 1 );

d) se, con riguardo poi alla predetta vendita a trattativa privata, non sia del pari viziata la motivazione del provvedimento a quo in particolare per avere escluso la riferibilità delle prescrizioni, sub art. 108 L.F., in tema di vendite immobiliari alla fattispecie della cessione di azienda, pur comprensiva (come nel caso che ne occupa) di beni immobili (motivi 4 , 5 , 6 );

e) se, per quanto infine attiene alla cancellazione dell'ipoteca contestualmente disposta dal G.D., non abbia ulteriormente errato il Tribunale nel non riconoscere l'illegittimità di detto provvedimento fuori dal contesto della procedura di cui al richiamato art. 108, in ambito (come nella specie) "meramente negoziale" (7 motivo). 2.1. Le questioni sub a), introdotte con il secondo mezzo del ricorso - in quanto rivolte a far valere, come detto, la nullità del decreto impugnato, in ragione della "incompatibilità" del giudice delegato chiamato a comporre il Collegio decidente, sul presupposto interpretativo della applicabilità del regime di astensione obbligatoria (e conseguente ricusabilità del giudice non astenutosi) anche nel giudizio sul reclamo ex art. 26 L.F. ovvero per via di "reductio ad legitimitatem del predetto art. 26, ove diversamente interpretato - sono entrambe inammissibili.

Quanto alla prima, perché - come è ius receptum - il potere di ricusazione (che, in tale prospettiva, in definitiva, si invoca) "costituisce un onere per la parte, la quale, se non lo esercita (entro il termine all'uopo fissato dall'art. 52 c.p.c.) non ha mezzi processuali per far valere il difetto di capacità del giudice" (cfr. sentt. 1976 2019; 1981/ 20); con la conseguenza appunto che, in mancanza di ricusazione, la violazione da parte de giudice dell'obbligo di astenersi non può essere fatta valere in sede di impugnazione come motivo di nullità della sentenza da quegli pronunciata (cfr. pure n. 5585/1991; 12779/1992).

E, quanto alla seconda questione, perché la denuncia di incostituzionalità strumentale ad una espansione additiva del potere di ricusazione non è, conseguenzialmente, rilevante in sede di impugnazione e (specularmente) perché, rispetto a tale questione, questa Corte non può considerarsi "giudice" (a quo) per essersi appunto la giurisdizione - in relazione all'applicazione della norma sulla ricusazione - già consumata nella precorsa fase processuale. 2.2. Del pari inammissibile è il terzo motivo del ricorso, con cui si pone la questione, sub b) di violazione dei principi sul contraddittorio, perché difetta, in questo caso, l'interesse della parte a denunziare siffatta violazione, una volta che essa non allega la ricorrenza di alcun elemento o circostanza, nelle deduzioni della curatela del Fallimento, cui le sia stato in concreto impedito di replicare e - riproponendo anzi, in questa sede, sostanzialmente le identiche conclusioni formulate con il reclamo - conferma che, rispetto alle prospettazioni di quell'atto, nessun ampliamento era stato operato dalla difesa della curatela, in relazione al quale occorresse assicurare alla reclamante l'esplicazione di un contraddittorio.

2.3. A sua volta anche il (primo) motivo di impugnazione - con cui si denunciano le violazioni di legge, sub c); afferenti i precedenti esperimenti di vendita senza incanto - è inammissibile, perché tali esperimenti sono rimasti, come è pacifico, privi di ogni qualsiasi effetto e non hanno, quindi leso alcun diritto della Banca (onde difetta ora anche per tale profilo il suo interesse a ricorrere), e perché comunque ciascuno di tali esperimenti concreta ed esaurisce una autonoma procedura di vendita, le cui eventuali irregolarità avrebbero dovuto dedursi entro i correlativi termini di reclamo e non recuperarsi con il reclamo proposto avverso la poi disposta, ed autonoma, vendita a trattativa privata.

2.4. Inammissibili sono infine anche tutte le deduzioni della ricorrente formulate, a maggior sostegno dei motivi che residuano, in termini di vizio di (insufficiente/contraddittoria) motivazione, ai sensi dell'art. 360 n. 5 c.p.c., per non essere tali vizi, per principio ormai consolidato, denunciabili con il ricorso straordinario ex art. 111 Costituzione (come nella specie unicamente proponibile e, di fatto, proposto) che è, per sua natura e funzione limitato, invece, alla denuncia di soli vizi di legittimità. 2.5. Fondata è viceversa la questione centrale, sub d, articolata nei motivi 4 e 6 e facente perno sulla denunciata violazione dell'art. 108 L.F..

2.5.1. Preliminarmente, in ordine a tale questione va escluso - in accoglimento della censura (in punto di violazione di legge) in tal senso formulata dalla Banca - che potesse dirsi carente l'interesse della medesima al reclamo, come viceversa ha ritenuto il Tribunale argomentando dalla inferiorità dell'ammontare del credito ammesso rispetto a quello del prezzo base stabilito per la vendita. Infatti, così motivando, il Collegio a quo ha presupposto una interpretazione riduttiva del predetto art. 108 (nel senso, appunto, che i "creditori ammessi al passivo aventi un diritto di prelazione" dei quali il G.D. deve ottenere l'"assenso" all'alienazione, siano unicamente quelli, pur assistiti da prelazione, ammessi per crediti di importo superiore a quello fissato come prezzo della vendita); interpretazione questa, che è però certamente arbitraria, perché contrario sia alla lettera che alla ratio della norma stessa, e va per ciò senz'altro respinta.

2.5.2. Ciò posto sulla ammissibilità della doglianza, ciò che propriamente per mezzo di questa, si chiede alla Corte di stabilire è se le modalità (vendita all'incanto o senza incanto) e le prescrizioni (in particolare, l'acquisizione del consenso dei creditori ipotecari) stabiliti dal menzionato art. 108 L.F., per la alienazione di beni immobili di proprietà del fallito, possano derogarsi nel caso di vendita di azienda pur comprensiva di cespiti immobiliari, sul presupposto (cui ha dato decisivo rilievo la decisione impugnata) che la vendita di azienda sia "in ogni caso" effettuabile nelle forme (anche, quindi, della trattativa privata) consentite invece per le vendite mobiliari.

2.5.3. È certo in premessa, perché, rispondente ad una interpretazione giurisprudenziale ormai consolidata in termini di "diritto vivente" che, malgrado l'assenza di espliciti indicazioni al riguardo nel testo della L.F., è ammissibile la vendita "in toto" dell'azienda dell'imprenditore fallito, per la compatibilità logica e sistematica di tale figura (enucleata dalla prassi) con il processo fallimentare ed anche per l'innegabile opportunità che una operazione siffatta permette di cogliere sul piano della efficienza e funzionalità della procedura concorsuale.

Il che, ovviamente, non significa che una tale vendita unitaria del compendio aziendale sia obbligatoria ne' che essa abbia come sua unica alternativa l'alienazione parcellizzata delle singole componenti potendo invece, ad esempio anche prospettarsi una forma di vendita di taluni beni previamente scorporati e cessare in blocco del residuo patrimonio aziendale.

In ogni caso, il nodo da sciogliere resta quello delle forme della vendita dell'intero (o di parte del) compendio aziendale che sia comunque comprensivo di cespiti immobiliari.

2.5.4. Questa Corte non ignora la varia gamma delle soluzioni al riguardo pur prospettate in dottrina. Ma ritiene che la selezione tra queste vada operata con esclusione, senz'altro, di quelle posizioni che affrontano il quesito in esame in chiave di stretta dipendenza ed automatica conseguenzialità rispetto ai risultati raggiunti sul piano della problematica relativa alla qualificazione giuridica dell'azienda.

Su tale più generale tema (attinente agli astratti profili definitori e classificatori della fattispecie - azienda) assume, infatti, prevalente rilievo, ai fini che ne interessano, il più specifico profilo di tutela dei creditori dell'imprenditore, in caso di suo fallimento, con riguardo anche alla misura della rispettiva garanzia, generica (sul patrimonio del fallito) o specifica (in ragione di eventuali prelazioni su dati suoi beni).

Ed, in tale prospettiva, certamente decisiva è allora la considerazione - espressa da un consolidato indirizzo interpretativo di questa stessa Corte - per cui le prescrizioni stabilite dall'art. 108 L.F., per le vendite immobiliari, hanno carattere inderogabile ancor più intenso di quello posto dal codice di rito per il processo di espropriazione immobiliare (sent. n. 2510/1994), ed escludono per ciò, in radice, la possibilità stessa di forme di vendita - come quella astrattiva privata - che non prevedano la partecipazione ad essa del G.D. (cfr. pure 5069/83; 58/79). Ora appunto il rigore di tali prescrizioni, sub art. 108, in tema di vendite immobiliari non pare che possa eludersi quando - e sol perché - l'immobile si trovi incluso in un complesso aziendale unitariamente posto in vendita.

L'ostacolo insuperabile ad una tale (pur da alcuni ipotizzata) evenienza è già infatti di per sè rappresentato dalla ostativa rigidità del dato normativo esaminato e dall'assenza, nel corpus della legge fallimentare, di alcune disposizioni che, con riferimento alla vendita di azienda, vi apporti deroga. Ma nello stesso senso depongono (ad ulteriore conforto) anche l'interpretazione teleologica e sistematica. Poiché resterebbe certo contraddetta la ratio complessiva della disciplina liquidatoria dei beni del fallito ove si ammettesse che alla procedura più rigorosa (sub art. 108 L.F.) stabilita per la vendita del (solo) bene immobile possa sovrapporsi quella meno cautelativa prevista (sub art. 106) per le vendite immobiliari, quando lo stesso immobile sia alienato con l'addictio del "plus valore" insito nella sua considerazione come bene dell'azienda (o bene-azienda), in una situazione, cioè, in cui la garanzia del creditore esigerebbe semmai di essere rafforzata ma non già mai di essere attenuata. 2.5.5. La conclusione così raggiunta - che conduce alla nullità della vendita d'azienda con compendio immobiliare effettuata a trattativa privata senza la previa acquisizione del consenso del creditore avente diritto di prelazione - ancorché nuova in questi espressi termini, trova per altro non pochi implici precedenti, di segno conforme, nella giurisprudenza di legittimità. Il riferimento va, in tal senso, già a Cass. 7.12.1968 n. 3917 ove l'affermazione ammissiva della facoltà del G.D. di "disporre la vendita in massa di tutti i beni aziendali se lo ritenga vantaggioso" (in una fattispecie in cui l'azienda si componeva sia di beni mobili che immobili) si completa de plano con il rinvio (indicativo delle modalità di siffatta vendita) alla "procedura della vendita all'incanto degli immobili".

Sulla stessa linea, in analoga fattispecie, è l'enunciato di Cass.2.4.1985 n. 2259. Ed ancora più significativo è il precedente, in certo qual modo speculare a quelli sin qui richiamati, di cui a Cass. 7.12.1987 n. 9301. Là dove detta sentenza, nel riconoscere la "discrezionalità di determinazione" di cui può avvalersi il G.D. "nel campo della liquidazione dei beni mobili", precisa (sia pur nel bene spazio di un inciso) che " tra questi (beni mobili) rientra l'azienda quando (però) non consti anche di beni immobili.

3. L'accoglimento, per quanto considerato, dei motivi appena esaminati comporta l'assorbimento della subordinata questione sub d), di cui al residuo settimo motivo del ricorso.

4. Il decreto impugnato va pertanto cassato, nei limiti dei motivi accolti, con il conseguente rinvio della causa alla Sezione fallimentare dello stesso Tribunale di Firenze, in diversa composizione, la quale si atterrà al principio di diritto, come sopra illustrato, per cui, in sede di liquidazione dell'attivo fallimentare, la vendita di azienda, che consti anche di beni immobili, può bensì disporsi unitariamente, quando risulti più vantaggiosa per i creditori, ma con l'adozione, in questo caso, delle forme stabilite dall'art. 108 L.F. per le vendite immobiliari. Il giudice di rinvio provvederà a liquidare (ex art. 385 c.p.c.) anche le spese di questo giudizio di legittimità.

P.Q.M.

La Corte accoglie il ricorso per quanto di ragione (e cioè nei suoi connessi motivi 4 a 6; assorbito il 7 ed inammissibili gli altri); cassa la sentenza impugnata, nei limiti dei motivi accolti, e rinvia la causa anche per le spese al Tribunale di Firenze.

Deciso in Roma il 3 dicembre 1997.