Diritto Fallimentare


Il Caso.it, Sez. Giurisprudenza, 17825 - pubb. 01/07/2010

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Cassazione civile, sez. I, 03 Marzo 1995, n. 2454. Est. Proto.


Liquidazione coatta amministrativa - Liquidazione - Organi - Commissario liquidatore - Operazioni, poteri e responsabilità - Poteri - Ammissione al passivo della procedura - Sentenza relativa - Appello - Proposizione da parte del Commissario liquidatore - Autorizzazione dell'organo di vigilanza - Necessità - Esclusione



Nella procedura di liquidazione amministrativa, la disciplina dei poteri del commissario liquidatore è esaustiva e deve, perciò, essere esclusa l'applicabilità analogica di norme non richiamate nell'ambito di quella. Pertanto, il commissario liquidatore può proporre, senza l'autorizzazione dell'organo di vigilanza, appello avverso la sentenza che disponga l'ammissione al passivo della procedura, essendo prevista tale autorizzazione solo quando si tratti di promuovere l'azione di responsabilità di cui agli artt. 2393 e 2394 cod. civ. (art. 206, comma primo, legge fallimentare) e di porre in essere gli atti di cui all'art. 35 legge fallimentare, nonché quelli necessari per la continuazione dell'impresa (art. 206, secondo comma, legge fallimentare). (massima ufficiale)


Massimario Ragionato



 


REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE I

Composta dagli Ill.mi Sigg. Magistrati:

Dott. Antonio SENSALE Presidente

" Giuseppe BORRÈ Consigliere

" Vincenzo PROTO Rel. "

" Giulio GRAZIADEI "

" Massimo BONOMO "

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

sul ricorso proposto

da

PESCETTO ALMA TERESA, in qualità di erede dell'avv. Giuseppe Di Pilla, elettivamente domiciliata in Roma, via Cicerone 28, c-o l'avvocato Roberto G. Aloisio, che la rappresenta e difende con l'avv. Giuseppe Montalto, giusta delega in calce al ricorso;

Ricorrente

contro

CASSA DI RISPARMIO MOLISANA MONTE ORSINI - CARIMMO, in liquidazione coatta amministrativa, in persona dei commissari liquidatori Federico Martorano e Raffaele Minieri, elettivamente domiciliata in Roma, via Lucrezio Caro 63, c-o l'avvocato Giuseppe Bozzi, rappresentato e difeso dall'avv. Gabriello Piazza, giusta delega a margine del controricorso;

Controricorrente

e contro

DI PILLA ORIETTA;

DI PILLA FIORNIA;

Intimate

avverso la sentenza 36-93 della Corte d'appello di Campobasso, depositata il 23 marzo 1993. Udita la relazione del consigliere, dott. Vincenzo Proto;

udito per il ricorrente l'avv. Porcacchia (con delega), che conclude per l'accoglimento del ricorso;

udito per il resistente l'avv. Piazza, che chiede il rigetto del ricorso;

udita la requisitoria del pubblico ministero, dr. Mirto Aloisi, che conclude per il rigetto del ricorso.

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

L'avvocato Giuseppe Di Pilla propose domanda di ammissione al passivo della liquidazione coatta amministrativa della Cassa di Risparmio Molisana Monte Orsini (CARIMMO) per lire 1.200.000.000, quale corrispettivo delle prestazioni professionali da lui svolte, in favore dell'istituto, dal 30 novembre 1980 al 27 febbraio 1987. Con ricorso del 5 luglio 1988, impugnando il provvedimento di esclusione, chiese che il Tribunale accertasse il credito richiesto ed emanasse le statuizioni conseguenziali.

Costituitosi il contraddittorio, il Tribunale accolse la domanda, disponendo l'ammissione al passivo della procedura dell'importo richiesto.

La Corte d'appello di Campobasso, adita dai commissari liquidatori in sede di gravame, in parziale riforma della decisione del primo giudice, con sentenza depositata il 23 marzo 1993 limitò l'ammissione del credito del Di Pilla a lire 107.500.000. La Corte rigettò l'eccezione di improponibilità della impugnazione, osservando che nessuna disposizione di legge prevede l'autorizzazione dell'organo di vigilanza per la proposizione dell'appello da parte del commissario.

Nel merito, rilevò che il professionista per il credito escluso non aveva fornito alcuna prova in ordine al conferimento degli incarichi, ne' riguardo all'avvenuto svolgimento di attività professionale a favore della banca.

Avverso questa decisione la sig.ra Alma Teresa Pescetto, quale erede dell'avvocato Giuseppe Di Pilla, ha proposto ricorso per cassazione, in base a due motivi.

La liquidazione coatta amministrativa della Carimmo ha resistito con controricorso, illustrato con memorie.

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. Col primo motivo del ricorso si denunzia la violazione delle norme sui poteri spettanti ai commissari liquidatori nell'ambito della procedura di liquidazione coatta amministrativa: in particolare, degli artt. 31, 194, 200, 206 L. fall. e 72 R.D.L. 12 marzo 1936 n. 375. Secondo la ricorrente, l'appello avrebbe dovuto essere dichiarato improponibile dalla Corte di merito, essendo i commissari liquidatori privi dei poteri necessari per conferire il mandato difensivo ai fini della impugnazione avverso la sentenza del tribunale. Muovendo dalla equiparazione della posizione del commissario a quella del curatore, la Pescetto sostiene, infatti, che, in applicazione dell'art. 31 L. fall., senza l'autorizzazione dell'autorità di vigilanza, il mandato del commissario sarebbe inefficace. Sarebbe, poi, inconferente il richiamo all'art. 200 L. fall. e all'art. 72 L. banc., contenuto nella sentenza impugnata, perché la prima norma attiene all'organo che sta in giudizio nelle sole "controversie anche in corso" e la seconda si riferisce alle società in nome collettivo e in accomandita.

Il motivo non ha fondamento.

La questione proposta è già stata risolta da questa Corte (Cass.19 giugno 1972 n. 1935 e Cass. 23 febbraio 1993 n. 2223), nel senso che la disciplina dei poteri del commissario liquidatore è esaustiva e deve, perciò, essere esclusa l'applicabilità analogica di norme non richiamate nell'ambito della specifica disciplina. Nel sistema procedimentale della liquidazione coatta amministrativa i poteri del commissario, che è legittimato a stare in giudizio (art. 200, comma secondo L. fall.), sono, infatti, integrati dall'autorizzazione dell'organo di vigilanza quando si tratta di promuovere l'azione di responsabilità di cui agli artt.2393 e 2394 C.C. (art. 206, comma primo) e di porre in essere gli atti di cui all'art. 35 L. fall. e quelli necessari per la continuazione dell'esercizio dell'impresa (art. 206, comma secondo). Nelle ipotesi contemplate dall'art. 206 non è compresa, invece, la proposizione delle impugnazioni.

Anche l'art. 199 (comma terzo), che richiama le disposizioni sul fallimento applicabili al commissario liquidatore, non estende il rinvio alla disposizione dell'art. 31, comma secondo, L. fall. che prevede, normalmente, l'autorizzazione del giudice delegato perché il curatore possa stare in giudizio.

Infine, neanche il riferimento all'art. 72 del R.D.L. 12 marzo 1936 n. 375 è idoneo a sorreggere una diversa conclusione. La legge bancaria previgente, non postulava, infatti, ne' direttamente, ne' indirettamente l'autorizzazione dell'autorità di vigilanza per l'esercizio delle impugnazioni da parte del commissario liquidatore. Disponeva, infatti, che "i commissari liquidatori hanno tutti i poteri occorrenti per realizzare l'attivo o per esperire tutte le azioni comunque spettanti alle aziende poste in liquidazione, oltre a quanto disposto dagli artt. 73 e 74 rispetto ai soci senza limitazione, qualora la procedura di liquidazione venga applicata ad una società in nome collettivo o in accomandita" (primo comma). La norma stabiliva cioè il principio dell'autonomia del commissario liquidatore con riferimento alla proposizione delle azioni spettanti alle aziende poste in liquidazione, salvo le ipotesi tassativamente previste. E limitava, in particolare, tale autonomia per la iscrizione di ipoteca (art. 73, comma secondo) e per la trascrizione del decreto di messa in liquidazione (art. 74, comma primo), nei confronti dei "soci responsabili senza limitazione"; ipotesi per le quali prevedeva, appunto, l'autorizzazione dell'organo di vigilanza. Non si ravvisano, dunque, le denunziate violazioni di legge. 2. Col secondo motivo si deduce la violazione e la falsa applicazione delle norme in tema di valutazione delle prove, nonché carenza dl motivazione. La ricorrente sostiene che la sentenza impugnata ha disatteso l'assunto dell'attore (secondo cui esisteva tra le parti un rapporto fiduciario, che consentiva al professionista di prestare la propria opera a favore della banca anche in mancanza di un atto formale di incarico), senza considerare: a) che l'incarico non deve essere conferito necessariamente per iscritto; b) che le prestazioni del professionista non erano mai state contestate dalla banca, il cui comportamento concludente provava, quindi, l'avvenuta conclusione dei contratti di prestazione professionale. Deduce, infine, che negli atti vi era, comunque, la prova, desumibile, nell'ambito della complessiva situazione professionale instaurata con l'avvocato Di Pilla, da quattro lettere, delle prestazioni stragiudiziali svolte, in particolare, per la definizione della pratica Siderurgica Meridionale Stefana; per l'incorporazione del Monte Credito su pegno di Teano e delle posizioni debitorie delle società Seam e Keller.

Anche questo motivo e, in tutti i suoi profili, senza fondamento. La Corte di merito ha premesso che il controverso rapporto, relativo alle prestazioni professionali che l'avvocato Di Pilla assumeva di aver svolto su incarico della banca, avrebbe dovuto essere facilmente documentabile in un "qualsiasi atto scritto" proveniente dall'istituto di credito, in quanto quest'ultimo era tenuto per legge a specificare ogni impegno di spesa riguardante la propria attività. Esaminando, quindi, le varie risultanze processuali, ha stabilito che nessun elemento probatorio (di carattere documentale ovvero desumibile anche da prova orale) era stato fornito dall'attore a dimostrazione dell'assunto secondo cui l'incarico gli sarebbe stato conferito fiduciariamente; ed ha aggiunto che mancava, comunque, la prova relativa all'espletamento di un'attività professionale a favore della banca molisana da parte del professionista.

La Corte ha analizzato, in particolare, il tenore delle lettere che, secondo l'assunto dell'attore, avrebbero dovuto in qualche modo documentare lo svolgimento di prestazioni professionali a favore della Carimmo, ed ha stabilito che dall'analisi di tali documenti non emergeva una manifestazione negoziale della banca diretta a conferire un incarico professionale al Di Pilla, dato che le lettere da lui prodotte in giudizio non contenevano alcun riferimento alla banca molisana e all'"eventuale" opera professionale dell'avvocato Di Pilla; ne', comunque, erano idonee, anche in base ad una valutazione complessiva delle risultanze processuali, a sorreggere la tesi dell'appellante.

Si deve, dunque, concludere che non sussistono i vizi denunziati e che la censura tende, in effetti, a riproporre in questa sede una valutazione delle risultanze processuali già compiuta dal giudice del merito - cui compete istituzionalmente tale apprezzamento - con ampie ed esaurienti argomentazioni, senza errori logici e di diritto. 3. Alla stregua delle considerazioni che precedono, il ricorso, quindi, deve essere rigettato.

Consegue, in base al principio della soccombenza, la condanna della ricorrente al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali relative a questa fase del giudizio, che si liquidano in complessive lire 10.235.000, di cui lire dieci milioni per onorario.

Così deciso il 22 novembre 1994, in Roma, nella camera di consiglio della prima Sezione civile.