Diritto Fallimentare


Il Caso.it, Sez. Giurisprudenza, 1385 - pubb. 06/11/2008

Responsabilità degli amministratori, valutazione dei crediti e prosecuzione dell'attività

Cassazione civile, sez. I, 23 Maggio 2008, n. 17033. Est. Panzani.


Fallimento della società - Azioni di responsabilità nei confronti degli amministratori ex art. 2393 e 2394 cod. civ. - Proposizione da parte del curatore - Effetti - Conformità dell'operato degli amministratori alla volontà dei soci - Irrilevanza.

Società di capitali - Bilancio - Valutazione dei crediti - Criteri e principi ispiratori - Scelta discrezionale degli amministratori - Insussistenza - Valutazione secondo principi di razionalità - Necessità - Fattispecie.

Società di capitali - Riduzione del capitale al di sotto del limite legale - Scioglimento della società - Divieto di compiere nuove operazioni - Violazione - Danni - Liquidazione - Criteri.



Il curatore del fallimento, quando agisce ai fini della reintegrazione del patrimonio del fallito, esercita un'azione di massa e svolge un'attività distinta ed autonoma rispetto a quella che avrebbe potuto svolgere il fallito stesso, ponendosi perciò necessariamente nella posizione di terzo. Allorché egli eserciti l'azione di responsabilità contro gli amministratori della società fallita (art. 146, secondo comma del r.d. 16 marzo 1942, n. 267), secondo le norme degli artt. 2392 e 2393 del cod. civ., il contenuto delle azioni contemplate dai detti articoli diventa inscindibile, onde è irrilevante la questione relativa all'asserita conformità dell'operato (anche se illegittimo) dell'amministratore della società fallita alla volontà espressa dai soci del tempo, non essendo tale volontà opponibile al curatore. (fonte: CED, Corte di Cassazione)

L'art. 2425 n. 6 cod. civ. (nella vecchia formulazione), disponendo che, ai fini dell'iscrizione nell'attivo del bilancio di società per azioni, i crediti "devono essere valutati secondo il presumibile valore di realizzazione", non attribuisce agli amministratori una discrezionalità assoluta, ma implica una valutazione fondata sulla situazione concreta, secondo principi di razionalità. (Nella fattispecie, la S.C. ha confermato la decisione di merito che, nel valutare la responsabilità degli amministratori convenuti in giudizio ex art. 146 della legge fall. e 2449 cod. civ., aveva ritenuto che l'appostamento di un recupero crediti non era fondato su di una seria indagine sull'effettiva esperibilità di un'azione legale). (fonte: CED, Corte di Cassazione)

Nel caso in cui l'azione di responsabilità nei confronti degli amministratori di una società trovi fondamento nella violazione del divieto di intraprendere nuove operazioni, a seguito dello scioglimento della società derivante dalla riduzione del capitale sociale al di sotto dei limiti previsti dall'art. 2447 cod. civ., non è giustificata, in mancanza di uno specifico accertamento in proposito, la liquidazione del danno in misura pari alla perdita incrementale derivante dalla prosecuzione dell'attività, poiché non tutta la perdita riscontrata dopo il verificarsi della causa di scioglimento può essere riferita alla prosecuzione dell'attività medesima, potendo in parte comunque prodursi anche in pendenza della liquidazione o durante il fallimento, per il solo fatto della svalutazione dei cespiti aziendali, in ragione del venir meno dell'efficienza produttiva e dell'operatività dell'impresa. (fonte: CED, Corte di Cassazione)



 

omissis

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Il Fallimento della s.p.a. Visconti di Modrone conveniva avanti al Tribunale di Milano P. Pier Paolo, P. Giovanni, D. Felice, T., S., C., D. Rodolfo, M. Pietro, D., tutti ex amministratori e sindaci della fallita società per sentirli condannare al risarcimento dei danni L. Fall., ex art. 146 e art. 2449 c.c., per i danni causati alla società ed ai creditori.

Per quanto qui ancora interessa la domanda era proposta anche nei confronti di T. Antonello, che era stato nominato amministratore con Delib. assemblea dei soci 30 aprile 1991, senza deleghe o conferimento di poteri, e che aveva concorso alla predisposizione del progetto di bilancio al 31.12.1990, a rettifica di altro progetto predisposto dal precedente consiglio di amministrazione dimissionario ritenuto dall'assemblea che aveva nominato il nuovo consiglio eccessivamente pessimistico. Tale nuovo progetto di bilancio era stato approvato dall'assemblea del 10.7.1991, nel corso della quale a seguito delle dimissioni della maggioranza dei consiglieri, il T. era decaduto dalla carica senza essere poi eletto nel nuovo consiglio, nominato dalla medesima assemblea.

Il Tribunale respingeva la domanda di danni nei confronti del T..

La Corte di appello di Milano con sentenza 25.2.2003 accoglieva l'appello della curatela e condannava il T. al risarcimento dei danni, liquidati in Euro 413.165,52, oltre rivalutazione monetaria a far tempo dal 10.7.1991 ed interessi legali sulla somma capitale rivalutata di anno in anno e sulla somma finale rivalutata dalla data della sentenza al saldo.

Osservava la Corte di merito in primo luogo che non era condivisibile la tesi del Tribunale secondo il quale nei confronti del T. come degli altri amministratori con lui nominati non sarebbe stata esperibile l'azione di responsabilità sociale perché essi si sarebbero limitati a dare esecuzione al mandato ricevuto dall'assemblea. Poiché in caso di fallimento le azioni di responsabilità confluiscono in un'unica azione L. Fall., ex art. 146, azione che cumula i presupposti e gli scopi dell'azione di responsabilità sociale e di quella spettante ai creditori, era irrilevante la conformità dell'operato degli amministratori alla volontà dei soci, essendo quest'ultima inopponibile al curatore che, esercitando un'azione in favore della massa concorsuale, svolge un'attività diversa da quella che avrebbe potuto svolgere la società.

La Corte milanese procedeva quindi ad esaminare la c.d. operazione cecoslovacca posta in essere dai precedenti amministratori della società fallita, vale a dire la vendita di un ingente quantitativo di merce alla società X ed ad altra società, garantita dalla Ceskoslovenska Obchodni Banka (C.O.B.) di Praga tramite avallo di promissory notes emesse da X in pagamento della fornitura ricevuta. Era risultato che l'intera operazione era una truffa. Se era stato possibile fermare la mercè spedita alla società Agentura, non così era avvenuto con i tessuti inviati alla X ed era risultato che l'avallo prestato da C.O.B. era invalido perché delle due firme abbinate apposte sotto il timbro originale della banca praghese, una era risultata falsa e l'altra era stata apposta da un dipendente infedele.

I precedenti amministratori avevano redatto una bozza di bilancio in cui avevano determinato la perdita derivante dall'operazione in L. 9.563.000.000, calcolando un'ulteriore perdita al 31.3.1991 di L. 3.438.000.000.

Poiché l'assemblea dei soci del 30.4.1991 si era rifiutata di approvare il progetto di bilancio ed aveva nominato il consiglio di amministrazione di cui faceva parte il T. con l'incarico di predisporre un nuovo progetto di bilancio, il nuovo consiglio aveva ritenuto di ridurre l'accantonamento a svalutazione del credito verso X nella misura del 40%, perché l'avv. Ruggero Di Palma Castiglione, legale della società fallita, aveva prospettato un incasso parziale dell'importo in quanto C.O.B. sarebbe stata responsabile, quantomeno indirettamente ex art. 2049 c.c., per l'operato del proprio funzionario infedele che aveva apposto la firma di avallo non disconosciuta, pur se tale firma da sola non era sufficiente ad impegnare la banca. L'accantonamento veniva inoltre diminuito di ulteriori 1.777 milioni in relazione al sequestro penale della merce venduta a X, nel frattempo eseguito presso i magazzini doganali, mercè che la società fallita avrebbe potuto rivendere.

Ancora il consiglio di amministrazione rivedeva il fondo di svalutazione del credito per recupero dell'indebito oggettivo verso la s.r.l. Consulta, intermediaria nell'operazione X, svalutazione che il precedente consiglio aveva quantificato nel 90%, ciò alla luce del sequestro penale dei titoli cambiari emessi da Consulta ed accettati dalla società fallita.

Ulteriori ritocchi riguardavano il fondo svalutazione degli effetti ricevuti da Faber per il valore di L. 800 milioni, posto che la società aveva onorato una parte di tali titoli. Anche il fondo imposte per l'esercizio 1984 veniva rideterminato nella misura di 100 milioni.

Infine sulla scorta di una perizia del prof. Luigi Guatri in ordine al valore del marchio Primizia, il nuovo consiglio aveva ritenuto ingiustificato l'ammortamento di L. 1.400 milioni dei marchi della società proposto dai precedenti amministratori. A fronte di tali interventi, osservava la Corte di appello sulla scorta della c.t.u. esperita che la perdita complessiva dell'esercizio 1990 era stata di L. 9.563.000.000, di cui soltanto L. 4.292.000.000 erano riferibili all'operazione Cecoslovacchia. Il resto era imputabile alla gestione corrente. Da ciò derivava una situazione reddituale deficitaria e l'incapacità del marchio Primizia di contribuire proficuamente al risultato aziendale. Dalla bozza di bilancio al 31.12.1990 redatta dai primi amministratori risultava la perdita già detta di 9.563.000.000, ma quelli amministratori avevano ritenuto di dover redigere al 31.3.1991 una ulteriore situazione patrimoniale ai sensi dell'art. 2446 c.c., che evidenziava un'ulteriore perdita di L. 3.438.000.000=, con conseguente perdita del capitale sociale oltre i limiti del terzo. Secondo il collegio sindacale peraltro le perdite erano maggiori e quindi superavano l'ammontare del capitale sociale e delle riserve. Aveva osservato il c.t.u. che la situazione patrimoniale al 31.3.1991 era irragionevolmente ottimistica perché la perdita doveva essere aumentata di L. 1.420.000.000 perché scontava il fatto che i crediti verso la s.r.l. Consulta erano stati considerati irrecuperabili soltanto in parte, mentre in realtà essi dovevano essere trattati tutti nello stesso modo.

La società aveva dunque perso alla data del 31.3.1991 l'intero capitale sociale.

A fronte di tali dati le diverse valutazioni adottate dal nuovo consiglio di amministrazione, di cui faceva parte il T., erano ampiamente censurabili, tanto da comportare responsabilità per aver omesso di presentare istanza di fallimento L. Fall., ex art. 217, n. 4 e art. 224, e per aver compiuto nuove operazioni in violazione dell'art. 2449 c.c..

La rivalutazione del credito verso X non era giustificata da fatti nuovi, ma soltanto dal parere espresso dall'avv. D. senza alcun dato concreto. Si era fatto riferimento soltanto alla normativa cambiaria ed al fatto che la banca cecoslovacca non si poteva sottrarre ai suoi oggettivi impegni, senza aggiungere nulla di più preciso. Non era pertanto condivisibile la tesi del Tribunale secondo il quale la normativa in vigore all'epoca (art. 2425 c.c., n. 6) consentisse ampia discrezionalità nella valutazione dei crediti e gli amministratori si erano trovati di fronte a fatti eccezionali cui erano seguiti eventi tali da permettere una riduzione della perdita. L'art. 2425 c.c., n. 6, faceva riferimento alla valutazione dei crediti secondo il valore di realizzo e dunque occorrevano fatti concreti per procedere ad una diversa valutazione rispetto a quella operata dal precedente consiglio di amministrazione.

Anche la valutazione della merce sottoposta a sequestro penale in L. 1.770.000.000, in misura cioè pari al costo di produzione, non era giustificata, posto che i precedenti amministratori avevano svalutato al 50% del costo di produzione la merce destinata alla società cecoslovacca Agentura, non spedita.

Ingiustificato era lo storno dell'ammortamento del marchio Primizia per L. 1.400.000.000 essendo l'ammortamento un mezzo per la distribuzione tra più esercizi di un costo pluriennale e non uno strumento di attribuzione di un valore ad un bene. Non solo il residuo valore contabile del marchio, pari a L. 4.200.000.000, ed i costi di pubblicità già capitalizzati in misura di L. 1.000.000.000, andavano svalutati non rispondendo a criteri di ragionevolezza mantenere inalterato l'ammortamento a quote costanti a fronte dell'insuccesso della fusione tra la società fallita e la società Piva, che avrebbe dovuto fruttare sinergie e risultati positivi, proprio tramite il marchio Primizia.

Le operazioni poste in essere dagli amministratori subentrati il 30.4.1991 si erano concretate pertanto in nuove operazioni vietate ai sensi dell'art. 2449 c.c., tenuto conto che alla suddetta data doveva ritenersi perso il capitale sociale.

Venendo specificamente alle responsabilità del T. la Corte di appello osservava che questi aveva rivestito la carica di componente del consiglio di amministrazione dal 30.4.1991 al 10 luglio successivo. Per lui valevano le considerazioni già svolte in ordine all'arbitrarietà ed illegittimità delle rettifiche di bilancio che avevano consentito l'occultamento delle perdite. Il T. aveva avuto tutto il tempo necessario per esaminare la precedente relazione del collegio sindacale e dunque non sussistevano dubbi sulla sua colpa per aver consentito che venissero poste in essere le nuove operazioni.

Il danno da lui causato poteva essere determinato, tenuto conto della minor durata in carica rispetto agli altri amministratori, non essendo stato confermato dall'assemblea del 10.7.1991, in via equitativa in L. 800.000.000, pari ad Euro 413.165,52. Avverso la sentenza ricorre per cassazione il T. articolando quattro motivi. Resiste con controricorso il Fallimento s.p.a. Visconti di Modrone. Entrambe le parti hanno depositato memoria.

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo il ricorrente deduce violazione dell'art. 2393 c.c., con riferimento all'azione esperibile dal curatore L. Fall., ex art. 146.

Osserva che la Corte d'appello ha ritenuto esperibile nei confronti dell'amministratore sia l'azione sociale di responsabilità ex art. 2393 c.c., sia l'azione spettante ai creditori ex art. 2394 c.c., perché cumulate dalla L. Fall., art. 146, in capo al curatore. Il Tribunale aveva ritenuto che l'azione ex art. 2393 c.c., fosse preclusa perché il consiglio di amministrazione nel rettificare il progetto di bilancio al 31.12.1990 aveva agito su mandato dell'assemblea, che in seguito aveva approvato il bilancio. Il consenso espresso dall'assemblea escluderebbe la responsabilità degli amministratori.

Dall'esperibilità della sola azione di responsabilità spettante ai creditori deriverebbe che, stante il carattere extracontrattuale di tale azione, l'onere della prova della colpa del T. ricadrebbe sulla curatela.

Con il secondo motivo il ricorrente deduce violazione dell'art. 2394 c.c., nonché difetto e contraddittorietà della motivazione. La curatela avrebbe dovuto offrirei la prova della colpa del T. con particolare riferimento alla valutazione del credito verso la società cecoslovacca X, colpa da valutarsi con minor severità ai sensi dell'art. 1710 c.c., richiamato dall'art. 2392 c.c., perché il T. svolgeva le sue funzioni di consigliere a titolo gratuito. Ancora la curatela avrebbe dovuto provare che il T. nel periodo in cui era stato in carica aveva effettuato nuove operazioni vietate ai sensi dell'art. 2449 c.c..

La Corte d'appello avrebbe errato nel ritenere che nel corso del periodo in cui i nuovi amministratori erano stati in carica non fossero intervenuti fatti nuovi idonei a giustificare la diversa valutazione delle poste di bilancio. In primo luogo la banca cecoslovacca C.O.B. aveva disconosciuto soltanto una delle due firme di avallo sulle promissory notes, sì che si poteva configurare una responsabilità, quantomeno indiretta ex art. 2049 c.c., della banca per l'operato del proprio funzionario infedele.

Un altro rilevante fatto nuovo era costituito dal sequestro penale presso i magazzini doganali della merce venduta a X a nulla rilevando che i successivi amministratori non fossero riusciti a collocare adeguatamente sul mercato la merce. Altrettanto doveva dirsi per la rivalutazione del credito per indebito oggettivo nei confronti della s.r.l.. Consulta, intermediaria nell'operazione X, alla luce del sequestro penale dei titoli emessi da Consulta ed accettati dalla società fallita.

La Corte d'appello non avrebbe inoltre tenuto conto delle difficoltà di effettuare siffatte valutazioni a caldo, dopo la truffa subita dalla società fallita.

Con il terzo motivo il ricorrente deduce violazione dell'art. 2449 c.c..

La Corte d'appello avrebbe errato nel ritenere che ogni atto di gestione successivo al verificarsi di una causa di scioglimento della società possa essere considerato come nuova operazione vietata. Le nuove operazioni sono soltanto quelle non finalizzate alla liquidazione della società, preordinate al conseguimento di nuovi utili. La Corte d'appello avrebbe dovuto pertanto porre a carico del T. non la c.d. perdita incrementale, ma le nuove operazioni effettivamente poste in essere.

Con il quarto motivo il ricorrente lamenta violazione dell'art. 1223 c.c.. Al T. è stata addebitata una quota parte, calcolata in via equitativa, della perdita incrementale rilevata dal c.t.u. successivamente al 31.3.1991. A carico del T. sono state poste pertanto non le nuove operazioni, ma le perdite successive alla data indicata. Al contrario sarebbe stato necessario considerare i riflessi delle nuove operazioni e le perdite che si sarebbero comunque verificate, anche se la società fosse stata posta in liquidazione. Ne risulta violato l'art. 1223 c.c., che pone a carico del danneggiante soltanto il danno che sia conseguenza immediata e diretta dell'illecito.

E la perdita incrementale è stata calcolata con riferimento all'intero periodo in cui è proseguita l'attività sociale, non al più breve periodo in cui il T. ha svolto le funzioni di amministratore. Nella misura in cui il danno successivo viene imputato al T. per aver posto le premesse perché la società potesse continuare l'attività anche dopo la scadenza del suo mandato, sarebbe violato nuovamente l'art. 1223 c.c., per aver posto a carico dell'ex amministratore un danno che non sarebbe conseguenza immediata e diretta della sua condotta.

2. Il primo motivo di ricorso è inammissibile. Va premesso che la censura mossa dal ricorrente ha ad oggetto la violazione dell'art. 2393 c.c., in riferimento alla possibilità per il curatore fallimentare di cumulare tale azione con quella ex art. 2394 c.c., ai sensi della L. Fall., art. 146. La Corte non si sarebbe avveduta che il T. nel modificare il progetto di bilancio redatto dai precedenti amministratori, progetto poi approvato dalla successiva assemblea, avrebbe dato attuazione al mandato ricevuto dai soci nell'assemblea del 1.4.1991, con la conseguenza che nei suoi confronti non sarebbe stata esperibile l'azione sociale di responsabilità, ma soltanto l'azione dei creditori, con un differente regime probatorio in ordine alla colpa, la cui sussistenza avrebbe dovuto essere dimostrata dal curatore trattandosi di responsabilità extracontrattuale.

Con ciò il ricorrente ha indubbiamente mosso alla sentenza impugnata una censura di violazione di legge per non aver correttamente inteso la disciplina dell'azione di responsabilità esperita dal curatore ai sensi degli artt. 146 e 2393 c.c.. Ne deriva che l'eccezione d'inammissibilità svolta dalla curatela nel controricorso, che lamenta che la censura esulerebbe dallo schema tipico della denuncia di violazione di legge (negazione o fraintendimento di una norma astratta di legge o sua applicazione ad una fattispecie da essa non regolata), non ha fondamento.

Va invece sottolineato che la censura muove esclusivamente dal rilievo che, non essendo nella specie in tesi applicabile la disciplina dell'azione sociale di responsabilità, perché preclusa dal fatto che il T. avrebbe dato esecuzione al mandato ricevuto dall'assemblea, l'onere probatorio della sussistenza della colpa dell'ex amministratore sarebbe gravato sull'attore e dunque sulla curatela.

Poiché peraltro la Corte d'appello ha ritenuto provata in concreto la colpa del T. e non ha deciso la controversia in base al regime dell'onere della prova, per non aver il T. provato di aver agito con adeguata diligenza ai sensi dell'art. 2392 c.c., difetta l'interesse del ricorrente a dolersi della statuizione della Corte di merito, interesse che deve essere, come sempre l'interesse ad impugnare, attuale e concreto.

Va peraltro aggiunto che la giurisprudenza di questa Corte ha affermato più volte che "il curatore del fallimento, quando agisce ai fini della reintegrazione del patrimonio del fallito, esercita un'azione di massa e svolge un'attività distinta ed autonoma rispetto a quella che avrebbe potuto svolgere il fallito stesso, ponendosi perciò necessariamente nella posizione di terzo. Quando egli esercita l'azione di responsabilità contro gli amministratori della società fallita (R.D. 16 marzo 1942, n. 267, art. 146, comma 2), secondo le norme degli artt 2392 e 2393 c.c., il contenuto delle azioni contemplate dai detti articoli diventa inscindibile, onde è irrilevante la questione relativa all'asserita conformità dello operato (anche se illegittimo) dell'amministratore della società fallita alla volontà espressa dai soci del tempo, non essendo tale volontà opponibile al curatore" (Cass. 21.3.1974, n. 790; Cass. 10.6.1981, n. 3755; Cass. 6.12.2000, n. 15487).

3. Il secondo motivo è infondato.

Nell'affermare che la Corte d'appello avrebbe trascurato che la curatela non aveva offerto la prova della colpa del T. nell'effettuare la valutazione delle poste di bilancio relative al credito verso la società cecoslovacca X ed al credito verso la s.r.l. Consulta, il ricorrente trascura l'ampia motivazione che la Corte milanese ha dato della negligenza, trascuratezza ed imprudenza con cui furono effettuate le riprese dei crediti in parola a fronte della svalutazione dei medesimi crediti compiute dai precedenti amministratori.

La Corte ha in particolare osservato che la minor svalutazione del credito verso X operata dai nuovi amministratori non si fondava su fatti concreti, ma su dichiarazioni generiche quali la citazione del parere espresso dall'avv. Di Palma Castiglione senza riportare alcun dato preciso. Si era fatto riferimento soltanto alla normativa cambiaria ed al fatto che la banca cecoslovacca non si poteva sottrarre ai suoi oggettivi impegni, senza aggiungere nulla di più. Anche la valutazione della merce sottoposta a sequestro penale in L. 1.770.000.000, in misura cioè pari al costo di produzione, non era giustificata, posto che i precedenti amministratori avevano svalutato al 50% del costo di produzione la merce destinata alla società cecoslovacca Agentura, non spedita.

Ingiustificato era lo storno dell'ammortamento del marchio Primizia per L. 1.400.000.000 essendo l'ammortamento un mezzo per la distribuzione tra più esercizi di un costo pluriennale e non uno strumento di attribuzione di un valore ad un bene. Non solo il residuo valore contabile del marchio, pari a L. 4.200.000.000, ed i costi di pubblicità già capitalizzati in misura di L. 1.000.000.000, andavano svalutati non rispondendo a criteri, di ragionevolezza mantenere inalterato l'ammortamento a quote costanti a fronte dell'insuccesso della fusione tra la società fallita e la società Piva, che avrebbe dovuto fruttare sinergie e risultati positivi, proprio tramite il marchio Primizia.

Le conclusioni cui è pervenuta la Corte di appello non sono illogiche, come pretende il ricorrente, ma hanno fatto puntuale applicazione della disciplina di legge.

L'art. 2425 c.c., n. 6 (vecchio testo) nell'affermare che i crediti debbono essere valutati secondo il presumibile valore di realizzo non attribuisce agli amministratori una discrezionalità assoluta, ma implica una valutazione fondata sulla situazione concreta secondo principi di razionalità.

Ed allora correttamente la Corte d'appello ha sottolineato che il recupero del credito verso X per un importo pari a ben L. 5.567.000.000, non si fondava su una seria indagine sull'effettiva esperibilità di un'azione legale nei confronti della banca cecoslovacca C.O.B., ma su un parere legale di cui non si citava il contenuto; che si affermava che la banca non avrebbe potuto sottrarsi completamente all'obbligo alla luce della normativa cambiaria senza ulteriormente approfondire la questione e senza neppure indicare quanto ora affermato dal ricorrente e cioè che la banca avrebbe potuto essere chiamata a rispondere dell'operato del dipendente infedele che aveva apposto la firma autentica sui titoli ( la seconda firma era peraltro apocrifa) ai sensi dell'art. 2049 c.c.. Ancora nel ritenere che il credito verso X potesse essere in parte ricuperato grazie al sequestro penale della merce presso i magazzini doganali, gli amministratori non consideravano che, come ha rilevato la Corte d'appello, i precedenti amministratori avevano svalutato del 50% l'identica merce destinata alla società cecoslovacca Agentura, che non era stata spedita a seguito della scoperta della truffa, segno evidente che la disponibilità della merce, peraltro non immediata perdurando il sequestro penale, non era sufficiente per consentire di alienarla proficuamente sul mercato. Va poi aggiunto che il ricorrente non censura neppure i rilievi della Corte d'appello sulla storno dell'ammortamento del marchio Primizia e sulla necessità di effettuare ulteriori abbattimenti della posta relativa ai marchi, in ragione del cattivo andamento della società. La Corte d'appello ha anche considerato la circostanza che, come rileva il ricorrente, le valutazioni delle poste di bilancio erano state prese a caldo, dopo che la società aveva subito una grave truffa, in una situazione particolarmente difficile. Ed ha rilevato che il credito verso X, pressoché azzerato dal precedente consiglio di amministrazione, non poteva essere rivalutato in misura così ingente in base ad argomentazioni astratte ed inconsistenti. Diverso sarebbe stato il discorso se la rivalutazione fosse stata fatta in base a nuovi fatti concreti, dai quali si potesse trarre una ragionevole attesa di ottenere un pagamento dal debitore o dai garanti, anche a titolo di danni. La Corte d'appello ha peraltro accertato, con motivazione pienamente adeguata, che tali non erano la situazione e le motivazioni addotte dagli amministratori, tra cui il T..

Per il resto le censure del ricorrente si traducono in una diversa valutazione in fatto delle risultanze processuali, come tale inammissibile in questa sede di legittimità.

4. Il terzo ed il quarto motivo di ricorso possono essere esaminati congiuntamente in quanto connessi.

Il ricorrente si duole che nell'affermare la sua responsabilità per le nuove operazioni intraprese, ai sensi dell'art. 2449 c.c., la Corte d'appello abbia posto a suo carico non già il risultato delle nuove operazioni, ma tutta l'attività gestoria successiva alla perdita del capitale sociale ed al verificarsi della causa di scioglimento della società, a far tempo dal 31.3.1991. Aggiunge che il danno posto a suo carico è stato determinato in una quota parte della perdita incrementale accertata dal c.t.u. per il periodo successivo al verificarsi della causa di scioglimento, senza indagare se tale danno fosse riferibile a specifici atti di gestione a lui imputabili.

La censura è fondata.

Questa Corte ha affermato che per "nuove operazioni" - le quali non possono essere intraprese dagli amministratori quando si sia verificato un fatto che determina lo scioglimento della società - s'intendono tutti quei rapporti giuridici che, svincolati dalle necessità inerenti alla liquidazione delle attività sociali, vengono costituiti dagli amministratori, con assunzione di ulteriori vincoli per l'ente, e siano preordinati al conseguimento di nuovi utili (Cass. 16.2.2007, n. 3694; Cass. 28.1.1995, n. 1035; Cass. 10.9.1995, n. 9887). Ed ancora si è detto, con maggior precisione, che l'art. 2449 c.c., esprime sul piano normativo la coerente conseguenza del fatto che, dopo il verificarsi della causa di scioglimento, il patrimonio sociale non può più considerarsi destinato, qual era in precedenza, alla realizzazione dello scopo sociale, onde gli amministratori non possono più utilizzarlo a tal fine, ma sono abilitati a compiere soltanto quegli atti correlati strumentalmente al diverso fine della liquidazione dei beni, restando ad essi inibito il compimento di nuovi atti d'impresa suscettibili di porre a rischio il diritto dei creditori e degli stessi soci (Cass. 12.6.1997, n. 5275).

Nel vigore del vecchio testo dell'art. 2449 c.c., risultavano, infatti, vietate tutte le nuove operazioni, da intendersi come tutti gli atti gestori diretti non a fini liquidatori e quindi alla trasformazione delle attività societarie in denaro destinato al soddisfacimento dei creditori e, nei limiti del residuo, dei soci, ma al conseguimento di fini diversi, essendo invece lecito il completamento di attività in corso destinate al miglior esito della liquidazione. Si è discusso in dottrina se fosse pertanto lecita la prosecuzione dell'attività d'impresa nei limiti in cui essa potesse consentire la conservazione dell'avviamento e la miglior vendita dell'azienda sociale o se la norma dovesse essere oggetto di stretta interpretazione.

L'art. 2449 c.c., vecchio testo stabilisce che gli amministratori che contravvengono al divieto di nuove operazioni, assumono responsabilità illimitata e solidale per gli affari intrapresi. Si è condivisibilmente osservato che quando il curatore esperisce l'azione di responsabilità L. Fall., ex art. 146, non può far valere la responsabilità diretta degli amministratori per le nuove operazioni verso i creditori sociali, ma soltanto la violazione dell'obbligo su di essi gravante per legge nella misura in cui esso si è tradotto in un danno per la società o per i creditori. Questa Corte ha osservato che nel caso in cui l'azione di responsabilità nei confronti degli amministratori di una società trovi fondamento nella violazione del divieto di intraprendere nuove operazioni, a seguito dello scioglimento della società derivante dalla riduzione del capitale sociale al di sotto dei limiti previsti dall'art. 2447 cod. civ., non è giustificata la liquidazione del danno in misura pari alla differenza tra l'attivo ed il passivo accertati in sede fallimentare, non essendo configurabile l'intero passivo come frutto delle nuove operazioni intraprese dagli amministratori, ma dovendosi ascrivere lo stesso, almeno in parte, alle perdite pregresse che avevano logorato il capitale (Cass. 23.7.2007, n. 16211).

Nel caso in esame la Corte d'appello ha posto a carico del T., pro quota, la perdita incrementale derivante dalla prosecuzione dell'attività, senza considerare se tale perdita fosse tutta conseguenza delle nuove operazioni poste in essere o se essa in parte si sarebbe ugualmente determinata, anche se la società fosse stata correttamente posta in liquidazione o ne fosse stato dichiarato il fallimento.

La Corte di merito non ha pertanto accertato se il danno calcolato in questo modo fosse interamente: riferibile alle nuove operazioni poste in essere dal T. e ne fosse conseguenza immediata e diretta. La perdita incrementale maturata nel periodo successivo al 30 aprile 1991 ed, in parte, anche in epoca posteriore al 10 luglio 1991, data di cessazione del T. dalla carica, non riflette soltanto le conseguenze delle nuove operazioni e neppure le conseguenze della sola attività gestoria riferibile al T., perché, come detto, essa riguarda anche il periodo successivo alla cessazione del ricorrente dalla carica. Nè può ritenersi che di ciò la Corte d'appello abbia tenuto conto attraverso la liquidazione equitativa del danno, perché tale liquidazione equitativa è consentita con riferimento alla quantificazione del danno, ma non con riguardo all'accertamento della sua sussistenza (cfr. da ultimo Cass. 7.6.2007, n. 13288).

Va infine sottolineato che neppure può ritenersi corretto il ragionamento secondo il quale la perdita incrementale verificatasi dopo il 10 luglio 1991 potrebbe essere posta a carico del ricorrente quale conseguenza immediata e diretta del non aver provveduto a porre in liquidazione la società essendosi verificata la perdita del capitale sociale.

Osta a tale conclusione, oltre alla circostanza già evidenziata che non tutta la perdita incrementale è automaticamente riferibile al compimento di nuove operazioni, occorrendo in proposito uno specifico accertamento di fatto, l'ulteriore rilievo che, anche con riguardo al danno non riferibile al compimento di nuove operazioni, non tutta la perdita riscontrata dopo il verificarsi della causa di scioglimento della società, può essere riferita alla prosecuzione dell'attività, potendo in parte comunque prodursi anche in pendenza della liquidazione o durante il fallimento, per il solo fatto della svalutazione dei cespiti aziendali in ragione del venir meno dell'efficienza produttiva e dell'operatività dell'impresa. Ne deriva che il danno va dimostrato in concreto come conseguenza immediata e diretta dei fatti di mala gestio e non può essere determinato in via presuntiva con riferimento alla perdita di periodo, salvo che si possa dimostrare che quella perdita non si sarebbe verificata ove gli amministratori avessero correttamente operato.

La sentenza impugnata va pertanto cassata in parte qua e la causa va rinviata alla Corte d'appello di Milano in diversa composizione, che pronuncerà anche sulle spese del giudizio di Cassazione.

P.Q.M.

La Corte rigetta il primo ed il secondo motivo; accoglie il terzo ed il quarto; cassa la sentenza impugnata con rinvio alla Corte d'appello di Milano in diversa composizione, anche per le spese. Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Prima Civile, il 6 maggio 2008.

Depositato in Cancelleria il 23 giugno 2008


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