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Il Caso.it, Sez. Giurisprudenza, 1131 - pubb. 18/02/2008.

Trust e accordi di ristrutturazione ex art. 182-bis l.f.


Tribunale di Reggio Emilia, 14 Maggio 2007. Est. Fanticini.

Liquidazione di società in stato di crisi – Costituzione di beni in trust a favore dei creditori – Accordo di ristrutturazione ex art. 182 l.f. – Ammissibilità – Esecuzione promossa dai creditori sui beni costituiti in trust – Sospensione della procedura esecutiva – Fumus boni iuris – Sussistenza.


E’ meritevole di tutela il trust con il quale il socio accomandatario di una società in accomandita semplice, al fine di favorire la liquidazione della società mediante un accordo di ristrutturazione ai sensi dell’art. 182 bis legge fall. e di prevenire quindi azioni giudiziarie e concorsuali, ha segregato i propri beni personali nominandosi trustee e gestendo e amministrando i beni nell’interesse dei creditori che hanno così assunto la qualità di beneficiari del trust. (Nel caso di specie, il giudice dell’esecuzione ha disposto la sospensione della procedura esecutiva promossa da un creditore della società nei confronti del trustee in quanto intestatario dei beni costituiti in trust). (Franco Benassi) (riproduzione riservata)

 

Nella procedura esecutiva immobiliare n. 200/2006 R.G. Esecuzioni

promossa da Gruppo C.G. S.p.A. contro C. G.

 Il Giudice dell’Esecuzione

sciogliendo la riserva formulata all’udienza dell’8/5/2007,

viste le difese delle parti, esaminata la documentazione in atti,

ha pronunciato la seguente

ordinanza

Preliminarmente giova rilevare che al Giudice dell’Esecuzione spetta, in questa fase, soltanto una verifica del fumus delle ragioni addotte dall’opponente, mediante un esame sommario degli elementi acquisiti, al fine di adottare una decisione sull’istanza di sospensione; detta premessa è doverosa a fronte delle estese doglianze della creditrice opposta sulla validità del trust costituito sui beni aggrediti col pignoramento, doglianze che – proprio per la natura della presente decisione – non possono essere qui compiutamente affrontate e che (come si dirà anche nel prosieguo) dovranno trovare adeguata trattazione nel giudizio di merito relativo all’opposizione.

§ § §

La Gruppo C.G., intendendo soddisfare coattivamente il proprio credito nei confronti di C. G. (derivante da decreto ingiuntivo provvisoriamente esecutivo emesso nei confronti della società Alfa S.a.s., di cui il C. è socio accomandatario), ha pignorato beni immobili intestati a C. G..

C. G. – “in qualità di trustee” (pag. 1 del ricorso in opposizione) – ha contestato il diritto di procedere ad esecuzione forzata perché i beni, già trasferiti in trust (e, quindi, in un patrimonio separato da quello del disponente e da quello personale dello stesso trustee) con atto trascritto nei RR.II. anteriormente al pignoramento, non potevano essere assoggettati ad azione esecutiva; in particolare, l’opponente osservava che era stato istituito un trust “interno” (il quale presenta “elementi soggettivi e obiettivi legati a un ordinamento che non qualifica lo specifico rapporto come trust, nel senso accolto dalla Convenzione, mentre esso è regolato da una legge straniera che gli attribuisce la qualificazione”) e “autodichiarato” (in cui, cioè, coincidono le figure del disponente e del trustee) in garanzia dei creditori della Alfa; contestualmente all’opposizione ha avanzato istanza di sospensione del processo esecutivo ex art. 624 comma 1° c.p.c.

La citata disposizione prevede il potere del Giudice dell’Esecuzione di sospendere il processo esecutivo, sia nel caso di opposizione all’esecuzione proposta dal debitore sia in caso di opposizione di terzo. In questa fase, appare superfluo, perciò, qualificare l’azione proposta dal C. come opposizione ex art. 615 comma 2° c.p.c. o come opposizione ex art. 619 c.p.c.: nella prima ipotesi l’opposizione corrisponderebbe al nomen iuris attribuito dall’opponente, ma si osserva che, nel caso de quo, il C. (il quale ha mutato il titolo in base al quale è proprietario dei beni: prima proprietario in senso strettamente civilistico e poi proprietario quale trustee) agisce espressamente come trustee a tutela del trust-fund, aggredito da parte di un creditore personale del disponente, non considerato dall’atto di pignoramento quale trustee (appare, quindi, prima facie preferibile la tesi dell’opposizione di terzo). La suddetta questione potrà semmai assumere rilievo nel processo di cognizione dato che, secondo le prime letture conseguenti alle modifiche del 2006, il richiamo dell’art. 619 c.p.c. all’art. 616 c.p.c. riguarda solo i provvedimenti per l’instaurazione del giudizio di merito e non anche l’inciso “La causa è decisa con sentenza non impugnabile” (con conseguente proponibilità dell’appello nelle opposizioni di terzo).

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Rispetto ai concetti di proprietà e di garanzia patrimoniale tradizionalmente conosciuti nel nostro ordinamento, la caratteristica più rilevante del trust (si fa qui riferimento alla generica categoria del trust shapeless, delineata dall’art. 2 della Convenzione de L’Aja) è che i beni o diritti oggetto del trust (detti trust property o trust estate o trust fund) costituiscono un patrimonio separato da quello del trustee e inattaccabile dai suoi creditori; a maggior ragione i beni non possono essere aggrediti dai creditori del disponente, dato che i cespiti sono “usciti” dalla sua sfera di appartenenza a seguito del trasferimento al trustee o, come in questo caso, del mutamento del titolo.

La cosiddetta “segregazione patrimoniale” (sopra descritta) è tratto saliente ed essenziale del trust e, secondo l’art. 11 della Convenzione sulla legge applicabile ai trusts e sul loro riconoscimento” adottata a L’Aja l’1/7/1985 (ratificata dall’Italia – senza riserve – con la Legge 9/10/1989 n. 364) ed entrata in vigore l’1/1/1992, costituisce l’effetto minimo del riconoscimento di un trust costituito in conformità alla sua legge regolatrice (così statuisce il menzionato art. 11: “A trust created in accordance with the law specified by the preceding Chapter shall be recognized as a trust. Such recognition shall imply, as a minimum, that the trust property constitutes a separate fund …” ovvero “Un trust istituito in conformità alla legge determinata in base al capitolo precedente sarà riconosciuto come trust. Tale riconoscimento implica, quanto meno, che i beni in trust rimangano distinti dal patrimonio personale del trustee”).

Nel caso di specie, il C. è sia disponente sia trustee del trust Alfa, istituito secondo la Trusts (Jersey) Law del 1984 (successivamente emendata dalla Trusts (Amendment) (Jersey) Law del 1989, dalla Trusts (Amendment No. 2) (Jersey) Law del 1991, dalla Trusts (Amendment No. 3) (Jersey) Law del 1996 e, recentemente, dalla Trusts (Amendment No. 4) (Jersey) Law del 2006) con atto pubblico dell’11/3/2005, con cui sono anche stati trasferiti al trustee i cespiti, mobili e immobili, del disponente (uno actu, quindi, è stato istituito il trust e posto in essere il negozio di dotazione patrimoniale al trustee); il predetto atto pubblico è stato trascritto nei RR.II. il 24/3/2005, ben prima del pignoramento immobiliare notificato il 31/10/2006–6/11/2006 e trascritto nei RR.II. il 14/11/2006.

Come è stato osservato in dottrina, la nozione di trust contenuta nel primo paragrafo dell’art. 2 della Convenzione de L’Aja è assai ampia, dato che la norma afferma l’esistenza di un trust allorché il trustee abbia il “controllo” sui beni, senza cioè esigere che vi sia un “trasferimento” di beni a costui: non è richiesta, dunque, per aversi un trust ai sensi della menzionata Convenzione, una distinzione soggettiva tra il disponente e il trustee essendo sufficiente che i beni siano posti “sotto il controllo” di quest’ultimo. Tra l’altro, lo stesso art. 2, all’ultimo comma (la Convenzione consente al settlor di riservarsi “rights and powers”, locuzione mal tradotta nella versione ministeriale con “prerogative”) non esclude in linea di principio una coincidenza tra due soggetti del trust, purché ciò sia consentito dalla legge regolatrice prescelta dal disponente (nel caso, è pacifico che la Trusts (Jersey) Law permetta la costituzione di trust autodichiarati).

Dal riconoscimento del trust, istituito in conformità alla legge regolatrice (e su questo si tornerà in seguito), deriva (automaticamente) l’effetto segregativo nel patrimonio del trustee e la conseguente impossibilità per i creditori di quest’ultimo di attaccare i beni trasferiti; inoltre, per effetto del trasferimento al trustee, nessun diritto sui beni in trust spetta più al disponente.

Perciò sia considerando il C. come disponente, sia reputandolo trustee del trust Alfa, deve escludersi il diritto della Gruppo C.G. di assoggettare ad esecuzione forzata i beni immobili costituiti in trust.

La conclusione a cui si è pervenuti non è nuova neanche per la giurisprudenza italiana, dato che già il Tribunale di Brescia, con la sentenza del 12/10/2004 (in Trusts e Attività Fiduciarie, 2005, pag. 83), ha stabilito che il creditore del disponente non può aggredire, con azione esecutiva di espropriazione, i beni che il debitore ha trasferito al trustee con atto avente data certa anteriore al pignoramento: il Giudice, superate le questioni riguardanti l’ammissibilità dell’istituto nell’ordinamento interno, ha respinto le istanze del creditore pignorante affermando che i beni trasferiti in proprietà al trustee del trust “sono segregati, non appartengono né al settlor né al trustee e pertanto sottratti e inattaccabili dai rispettivi creditori”. Analogamente, in un procedimento cautelare per sequestro, il Tribunale di Siena, con ordinanza del 16/1/2007 (in Trusts e Attività Fiduciarie, 2007, pag. 266), ha statuito che “i creditori personali del trustee non possono aggredire i beni del trust e dunque questi beni non sono neppure sequestrabili o pignorabili alla stessa stregua dei beni costituiti in fondo patrimoniale, fino a che sia vigente ed operativo il vincolo del trust o fino a che il vincolo non venga caducato per effetto di annullamento o revocazione del negozio costitutivo”. Simili considerazioni si rinvengono anche nella pronuncia del Tribunale (penale) di Venezia del 4/1/2005 (in Trusts e Attività Fiduciarie, 2005, pag. 245), ove si legge che “la peculiarità della situazione porta ad affermare che il trustee è titolare di un diritto reale senza … esserne proprietario … Il trustee  è titolare di un diritto reale non nell’interesse proprio, ma nell’interesse altrui … Non vi è la nascita di un nuovo diritto reale, né uno sdoppiamento del diritto di proprietà, ma il semplice trasferimento di un diritto reale da un soggetto ad un altro che accetta detto trasferimento come collegato – e questo è essenziale – ad un obbligo di amministrazione e di gestione”.

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Apprezzabilmente la difesa della creditrice opposta non contesta in maniera sterile l’ammissibilità (tout court) del trust “interno” nell’ordinamento italiano: su tale questione si è invece arenata la prima giurisprudenza, ma il problema è da intendersi ormai superato dalle numerose pronunce (ex multis, la sentenza del Tribunale Bologna n. 4545 dell’1/10/2003, in Trusts e Attività Fiduciarie, 2004, pag. 67) che hanno riconosciuto all’istituto del trust un “diritto di cittadinanza nel nostro ordinamento” (così Tribunale di Trento – Sezione distaccata di Cavalese, decreto 20/7/2004, in Trusts e Attività Fiduciarie, 2004, pag. 574) e dalla ratio legis sottesa all’approvazione dell’art. 2645-ter c.c., che ha tolto quasi tutte le frecce dalla faretra dei detrattori del trust interno (anche se, in dottrina, un autore è rimasto assolutamente impermeabile alla novità e ha continuato a far congetture sulla “ben nota e spregiudicata lobby del trust interno, assecondata da giudici non rigorosi”).

Nel proprio scritto difensivo la Gruppo C.G. affronta in concreto lo specifico atto istitutivo del trust Alfa, contestando (o, quantomeno, mettendo in dubbio) la possibilità di procedere al suo riconoscimento (ai sensi dell’art. 13 della Convenzione de L’Aja), la sua conformità alla legge regolatrice e la validità del limite così introdotto all’applicazione di disposizioni interne ritenute inderogabili (art. 15 del testo convenzionale).

Ai fini di valutare il fumus dell’opposizione, è necessario, perciò, esaminare “un po’ più da vicino” il trust in questione: il programma negoziale che si prefigge, la sua aderenza alla Trusts (Jersey) Law e la compatibilità con i principi inderogabili del diritto italiano.

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Ai sensi dell’art. 13 della Convenzione de L’Aja è possibile negare il riconoscimento di un trust “interno” (il cui “centro di gravità”, cioè, non presenta elementi di estraneità rispetto all’ordinamento italiano, sebbene la disciplina sia costituita da una legge regolatrice straniera) nel caso in cui il ricorso all’istituto e alla disciplina straniera appaia fraudolento, tale per cui il riconoscimento appaia ripugnante all’ordinamento: “Rientra anche nei poteri del giudice, dunque, fare applicazione dell’art. 13; tuttavia, l’utilizzo di detta norma, lungi dall’essere obbligatorio o – al contrario – «capriccioso», potrà avvenire soltanto in maniera conforme alla ratio del legislatore della ratifica e, quindi, anche in ossequio al principio di salvaguardia dell’autonomia privata, al solo fine di evitare il riconoscimento di trust «interni» che siano disciplinati da legge straniera con intenti abusivi e/o fraudolenti … non sarà sufficiente rilevare la presenza di un trust i cui elementi significativi siano più intensamente collegati con lo Stato italiano per disapplicare la legge scelta per la sua disciplina e per la sua costituzione evitando di riconoscerne gli effetti, ma sarà, invece, necessario desumere un intento in frode alla legge, volto, cioè, a creare situazioni in contrasto con l’ordinamento in cui il negozio deve operare” (così Tribunale Bologna, sentenza 1/10/2003 n. 4545, in Trusts e Attività Fiduciarie, 2004, pag. 67).

Si deve dunque valutare se l’atto istitutivo del trust è (o non è) portatore di interessi che sono meritevoli di tutela per l’ordinamento giuridico senza limitarsi alla semplice definizione dello “scopo”, ma estendendo l’analisi al “programma” che si è prefissato il disponente nel momento in cui ha deciso di dar vita al trust (così anche Tribunale di Trieste – 23 settembre 2005, in Guida al Diritto, 2005, n. 41, pag. 57).

In altri termini, occorre esaminare la meritevolezza della causa “concreta” del trust (quella “astratta”, del trust “amorfo” delineato nella generica formulazione dell’art. 2 della Convenzione, è già stata definita e riconosciuta dal legislatore della Legge 364/1989, di ratifica della Convenzione de L’Aja): come sostiene la dottrina, “la causa del negozio istitutivo di trust è il programma della segregazione di una o più posizioni soggettive o di un complesso di posizioni soggettive unitariamente considerato (beni in trust) affidate al trustee per la tutela di interessi che l’ordinamento ritiene meritevoli di tutela (scopo del trust)”.

È ovvio che l’esame sommario condotto in questa fase non può compiutamente affrontare ed esaurire ogni possibile profilo (attività doverosa nel giudizio di merito), ma sin d’ora può affermarsi – proprio nell’ambito del giudizio sulla sussistenza del fumus dell’opposizione – che non sembra che il riconoscimento del trust de quo sia ripugnante all’ordinamento italiano.

La più autorevole dottrina sulla materia ha sostenuto che il trust è, rispetto al nostro ordinamento, uno strumento residuale, al quale ricorrere quando gli ordinari strumenti civilistici non consentono di conseguire il medesimo obiettivo, che, però, deve rappresentare interessi meritevoli di tutela e non ripugnanti per il sistema.

Nell’atto istitutivo dell’11/3/2005 non si fa mistero del programma negoziale perseguito: il C., amministratore e socio accomandatario della Alfa S.a.s. (posta in liquidazione), ha inteso, col trust, “favorire la liquidazione armonica della società, prevenendo azioni giudiziarie e procedure concorsuali” e, per raggiungere tale finalità, ha segregato i propri beni personali nominandosi trustee nell’interesse dei creditori della Alfa, che hanno così assunto la qualità di beneficiari del trust. Schematizzando: i beni del socio accomandatario sono posti sotto il controllo del trustee, il quale li conserva (non può cederli se non espressamente autorizzato dall’Autorità Giudiziaria), gestisce e amministra nell’interesse dei creditori della Alfa e – nel caso in cui la società non sia in grado di soddisfare interamente le ragioni creditorie al momento della data di liquidazione – deve anche venderli per pagare il debito residuo.

La liquidazione della Alfa (che, evidentemente, versa in stato di crisi) sta avvenendo mediante un accordo di ristrutturazione ai sensi dell’art. 182-bis L.F.: sono agli atti (documenti nr. 5-6 dell’opponente) l’istanza della società e del socio accomandatario rivolta al Tribunale di Modena il 2/2/2007 e il provvedimento del 16/2/2007 di omologazione dell’accordo pubblicato nel Registro delle Imprese il 3/8/2006 (prima, quindi, del pignoramento).

La previsione introdotta dall’art. 182-bis L.F. pare richiamare i modelli stranieri di soluzione alternativa della crisi e addirittura qualcuno ha presentato gli accordi di ristrutturazione come la traduzione italiana del pre-packaged bankruptcy statunitense.

La finalità perseguita dal legislatore della riforma era assolutamente meritoria: fornire alle imprese in crisi un nuovo strumento caratterizzato da assoluta flessibilità (in assenza di ogni e qualsiasi limite non può che affermarsi la piena libertà di scelta e di combinazione delle modalità di soddisfazione dei creditori), ma le soluzioni adottate “lasciano forti dubbi in ordine alla loro efficacia rispetto agli obiettivi prefissati”.

Già prima della novella, la più comune operazione di ristrutturazione dei crediti consisteva in una moratoria nel pagamento dei debiti scaduti (con o senza la previsione di interessi) o in una modifica dei termini contrattuali del debito originario, sostanzialmente identificata in un pactum de non petendo (che non determina l’estinzione dell’originario rapporto obbligatorio, in quanto i crediti sono temporaneamente inesigibili ma non estinti, e quindi la funzione del pactum si risolve nell’incidere sulle modalità di esecuzione dell’obbligazione preesistente, senza alterarne l’oggetto o il titolo). Le convenzioni stragiudiziali, utilizzate quali strumenti per affrontare e risolvere situazioni di crisi, avevano, come primo ed immediato obiettivo, la protezione dell’imprenditore dalle eventuali azioni esecutive dei creditori.

Il blocco delle azioni esecutive individuali e dell’acquisizione di diritti di prelazione da parte di terzi è stato espressamente previsto dall’art. 168 L.F. per il concordato preventivo, che, tuttavia, è istituto differente e autonomo dagli accordi di ristrutturazione, secondo la prevalente interpretazione dottrinale e i primi arresti giurisprudenziali (Tribunale Bari, 21/11/2005, in Fallimento, 2006, pag. 169; Tribunale Milano, 21/12/2005, in Foro Italiano, 2006, I, col. 2563; Tribunale Brescia, 22/2/2006, in Fallimento, 2006, pag. 608; Tribunale Roma, 16/10/2006, in http://www.ilcaso.it/giurisprudenza/archivio/395.htm; Tribunale Milano, 11/1/2007, inedito).

La nuova disciplina ha sì rimosso gli ostacoli che, prima della riforma, rendevano “pericolosi” (e, perciò, di fatto inutilizzabili) gli accordi tra debitore creditori (sia per il rischio – ex latere debitoris – di incorrere nel reato di bancarotta preferenziale, sia per l’esposizione – ex latere creditoris – ad azioni revocatorie in caso di successivo fallimento), ma il principale profilo di debolezza dell’istituto disciplinato dall’art. 182-bis L.F. è rappresentato dal fatto che tali accordi sono vincolanti per i soli aderenti, con la conseguenza che viene meno uno dei pilastri dell’omologo istituto statunitense e, cioè, la protezione dalle azioni esecutive “esterne”.

Invero, alcuni autori hanno sostenuto che l’efficacia dell’accordo (con la pubblicazione presso il registro delle imprese) si estenderebbe anche ai creditori estranei, i quali non potrebbero da questo momento chiedere il fallimento del debitore e sarebbero impossibilitati ad aggredirne i beni in sede esecutiva individuale, pur essendo abilitati a chiederne l’esecuzione soltanto dopo l’omologazione del Tribunale; detta interpretazione è ricollegata ad un’applicazione degli articoli 167 e 168 L.F., ovvero ad “un regime di esenzione da ogni altra azione individuale che tale acquisto d’efficacia procura da tale evento all’impresa”, che, pur coerente con lo spirito dell’intervento legislativo, appare però non suffragata da un espresso dato normativo, né altrimenti desumibile in via di interpretazione analogica o estensiva.

Altri hanno affermato che la previsione dell’art. 168 L.F. sul divieto di azioni esecutive individuali, non estensibile all’istituto configurato dall’art. 182-bis L.F., sia superflua per gli accordi di ristrutturazione perché i creditori aderenti all’accordo non potranno che aver accettato una moratoria dei pagamenti scaduti (contenuto minimo del pactum), mentre i creditori estranei troveranno comunque tutela nella loro integrale soddisfazione: perciò, il divieto di porre in essere azioni esecutive ordinarie da parte dei creditori non partecipanti all’accordo ex art. 182-bis L.F. sarebbe irrilevante perché costoro devono essere soddisfatti regolarmente – cioè “per intero e alla scadenza” – per cui non si pone nemmeno il problema di una loro eventuale azione esecutiva ordinaria.

Di contro, si è osservato che l’assenza di un principio che vincoli la minoranza dissenziente alle decisioni della maggioranza fa sì che tutti i creditori debbano esprimere il loro consenso all’accordo stragiudiziale, con la conseguenza che risulta fisiologica, in ogni soluzione stragiudiziale, la presenza di un certo numero di cc.dd. “free riders”, ovvero di creditori (magari con crediti contestati o sub iudice) che cercano di ottenere un pagamento più elevato, votando contro l’approvazione della convenzione e trattando singolarmente la propria posizione con gli organi gestionali dell’impresa in crisi; inoltre, non può essere sopravvalutata l’importanza delle pattuizioni tra creditori al fine di una preventiva concertazione dei comportamenti da tenere in caso di crisi del debitore.

La prevalente dottrina, con un esame più attento e pragmatico, ha infatti rilevato che lo strumento de quo, “rivela più ombre che luci, con i rischi di minor successo che ne potrebbero derivare”: infatti manca “la possibilità attraverso l’accordo – evidentemente raggiunto con la maggioranza dei creditori – di vincolare in qualche modo anche i creditori di minoranza” e sono comunque ammissibili “azioni esecutive da parte di ogni singolo creditore, sin dalle trattative e, per i creditori non aderenti, anche dopo il perfezionamento dell’accordo”. Di conseguenza, “il debitore che decida di intraprendere la via degli accordi ex art. 182-bis sarebbe del tutto privo di protezione nei loro confronti” e si troverebbe a dover scegliere “l’ombrello protettivo” fornito dal concordato preventivo rispetto al quale, però, l’accordo di ristrutturazione presenta “un grado di flessibilità e semplificazione senz’altro superiore”.

Come osservato da un autore, “questo costituisce in effetti un elemento di forte criticità dell’istituto”, che pure sembra rispondere all’intento del legislatore di eliminare dall’impianto della legge fallimentare la sua caratteristica “vocazione eminentemente espulsiva dell’insolvente dal mercato”.

Il breve excursus sugli accordi di ristrutturazione (certamente non esaustivo) serve per dimostrare che l’istituzione del trust de quo appare finalizzata ad un interesse meritevole di tutela: quello di proteggere il patrimonio per evitare che creditori free-riders, rimasti estranei all’accordo di ristrutturazione, che vantano crediti contestati (è incontroversa la pendenza di opposizione avverso il decreto ingiuntivo azionato dalla Gruppo C.G.), possano costituire diritti di prelazione (ipoteche) o agire in executivis sui cespiti, facendo naufragare il negozio concluso con la maggioranza, nonostante l’assicurazione di un loro “regolare pagamento” (secondo autorevole dottrina, la locuzione impiegata dall’art. 182-bis L.F. deve intendersi come “pagamento integrale”, non potendo significare “pagamento alla scadenza”, formula inapplicabile ai crediti scaduti che sono, in situazione di crisi, la maggior parte) e l’omologazione da parte del Tribunale (in assenza di qualsivoglia opposizione).

Il programma negoziale del trust Alfa appare mirato ad introdurre un temporaneo blocco delle azioni esecutive e cautelari individuali, effetto garantito dalla legislazione nazionale per il solo concordato preventivo, e, lungi dal voler essere strumento per frodare i creditori o per eludere la par condicio (tanto che sembra arduo ipotizzare l’esito favorevole di un’azione revocatoria), individua proprio questi ultimi quali beneficiari; peraltro, il conferimento in trust fornisce una suppletiva garanzia di non dispersione dei beni ed attribuisce ai creditori beneficiari un controllo sull’operato del trustee che difetta, invece, nell’accordo di ristrutturazione (laddove i creditori sono esposti anche ad operazioni di sottrazione/occultamento della garanzia patrimoniale che possono trovare rimedio, a volte, solo con l’esperimento di una lunga e costosa azione revocatoria).

Anche nei lavori preparatori della riforma del diritto fallimentare era stata esaminata la possibilità di configurare (oltre all’obbligatorietà per tutti i creditori dell’accordo omologato) una “protezione del patrimonio da iniziative cautelari ed azioni esecutive di terzi estranei all’accordo” con un effetto di blocco fino alla conclusione del procedimento di omologazione. Se è vero che la proposta non è stata trasfusa nel testo legislativo poi entrato in vigore, de iure condendo è già stata predisposta la bozza di un decreto legislativo che prevede la temporanea “copertura” del patrimonio del debitore che voglia accedere agli accordi di ristrutturazione (di ciò danno notizia i quotidiani specializzati: Il Sole 24 Ore, 18/4/2007, pag. 31; Italia Oggi, 19/4/2007, pag. 32).

Non può escludersi, perciò, l’astratta meritevolezza degli interessi sottesi al trust in questione, che mira ad assicurare effetti che l’ordinamento già riconnette ad istituti similari e che già sono allo studio del legislatore anche per gli accordi di ristrutturazione.

Tra l’altro, la finalità di proteggere il patrimonio nell’ambito di una concordata soluzione della crisi dell’impresa (e, cioè, la segregazione dei beni al fine di assicurare la loro destinazione alla massa dei creditori) è già stata apprezzata dal Tribunale di Parma che, con la sentenza del 3/3/2005 (in Trusts e Attività Fiduciarie, 2005, pag. 409), ha omologato un concordato preventivo misto con cui i beni di terzi (garanti dell’adempimento del concordato e soggetti diversi dal debitore assoggettato alla procedura) erano stati trasferiti al commissario giudiziale, nominato trustee (così eliminando il rischio, per i creditori del concordato, di eventi – ad esempio, azioni esecutive per debiti del garante, iscrizioni ipotecarie, cessione degli stessi beni, concessioni in ulteriori garanzie – potenzialmente idonei a ridurre o eliminare la garanzia offerta: i creditori del disponente, infatti, non possono soddisfarsi su un bene che non è più nella disponibilità di questo, i creditori del trustee subiscono l’effetto segregativo del negozio, i creditori beneficiari ricevono quanto statuito dal settlor durante la pendenza del trust e, allo scioglimento di questo, partecipano alla ripartizione finale secondo quanto disposto con l’atto istitutivo).

Per quanto sinora esposto, non pare prima facie che il programma negoziale di questo specifico trust possa essere considerato ripugnante per il sistema italiano, sebbene questo non preveda ordinari strumenti civilistici che consentano di conseguire il medesimo obiettivo (e proprio in questo sta la residualità del trust rispetto agli istituti offerti dall’ordinamento interno).

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L’analisi non può fermarsi qui: può accadere, infatti, che lo scopo di un trust apparentemente lecito e meritevole di tutela nasconda in realtà un obiettivo ripugnante per l’ordinamento. Questa ipotesi è destinata ad inficiare l’atto istitutivo tout court, quando lo scopo ripugnante (ad esempio, l’intento di frodare i creditori) sia il solo effettivo scopo del trust e il trustee si disinteressi completamente dello scopo apparente: in tal caso, l’atto di trust non sarà altro che una pura simulazione (sham secondo il diritto inglese).

Il trust è sham (fasullo, simulato e, per il diritto anglosassone, nullo e inefficace) quando il trustee agisce solo al fine di soddisfare lo scopo reale (ad esempio, limitandosi a tenere occultato il patrimonio del disponente ai suoi creditori e disinteressandosi dei beneficiari ai quali dovrebbe invece corrispondere un mantenimento; in proposito, High Court of Justice of England and Wales – Chancery Division, sentenza 10/6/1994, Midland Bank Plc v. Wyatt, in Trusts e Attività Fiduciarie, 2003, pag. 299. Altro esempio di sham trust si rinviene nella pronuncia della High Court of Justice of England and Wales – Family Division, sentenza 3/12/2004, Minwalla v. Minwalla, in Trusts e Attività Fiduciarie, 2006, pag. 273, nella quale il Giudice ha statuito che “affinché un trust sia sham non è necessaria un’intesa fra disponente e trustee, ma è sufficiente che il disponente non avesse la minima intenzione di seguire le norme sui trust e che, nel corso del rapporto, il trustee sia stato acquiescente nei suoi confronti”).

Anche la simulazione rientra tra le difese della Gruppo C.G. (che, nelle conclusioni della memoria difensiva qualifica “senza mezzi termini” il trust Alfa come “atto simulato ovvero compiuto in pregiudizio delle ragioni creditorie”).

Vari sono gli indizi che potrebbero suffragare l’ipotesi di uno sham trust: la coincidenza tra disponente e trustee e la contemporanea assenza di un guardiano, la riserva al disponente del diritto di abitazione (gratuito) sui beni immobili conferiti e, non essendo stato depositato il “libro degli eventi del trust” né il rendiconto del trustee, l’assoluta incertezza sull’effettiva attività svolta dal trustee, con particolare riferimento al dovere di informare i beneficiari delle vicende del trust (in proposito, come osserva autorevole dottrina, “è ineludibile il diritto dei beneficiari di essere messi a conoscenza dell’esistenza del trust in loro favore … la conoscenza dell’atto di trust consente ai beneficiari di esercitare tutti i diritti che discendono da tale loro posizione e quindi verificare in qualsiasi momento che il trustee rispetti lo scopo del trust e le volontà espresse dal disponente … un trust con beneficiari, non resi edotti circa l’esistenza del trust, configura uno di quegli indizi che potrebbero concorrere a far ritenere il trust una mera simulazione”).

I soli “indizi” di uno scopo che potrebbe essere ripugnante (“to set up a screen to shield his resources from other claims” per dirla con il Giudice Singer J. della High Court of Justice of England and Wales – Family Division, sentenza 3/12/2004, Minwalla v. Minwalla, in Trusts e Attività Fiduciarie, 2006, pag. 273), tuttavia, non sono sufficienti a considerare tamquam non esset l’atto di trust (trascritto) il cui scopo apparente (salvo quanto sopra detto) sembra meritevole di tutela; necessariamente il loro esame deve essere rinviato al giudizio di merito e alle risultanze dell’istruttoria che lì sarà svolta.

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Rispetto all’art. 13 della Convenzione de L’Aja, le contestazioni che richiamano gli artt. 15, 16 e 18 del testo convenzionale si muovono su un piano diverso: le predette disposizioni non riguardano il problema del riconoscimento (che, peraltro, concerne solo i trust cc.dd. interni) e considerano i trust riconosciuti (anche quelli interni) che producano effetti contrastanti con norme inderogabili o di applicazione necessaria della lex fori o con principi di ordine pubblico: in tali casi l’applicazione della legge straniera dovrà “cedere il passo” a quella della legge interna.

La Gruppo C.G. individua, quale principio generale inderogabile, l’unitarietà della garanzia patrimoniale sancita dall’art. 2740 c.c.

Non sembra necessario ripetere le numerose ragioni che hanno indotto la giurisprudenza a ritenere che l’art. 2740 c.c. non costituisca più, da anni, un principio supremo ed inderogabile del nostro ordinamento (così Tribunale Bologna, sentenza 1/10/2003 n. 4545, in Trusts e Attività Fiduciarie, 2004, pag. 67: “l’unitarietà della garanzia patrimoniale di cui all’art. 2740 c.c. non può valere come un «dogma sacro ed intangibile» del nostro ordinamento”): l’espressa previsione dell’art. 11 della Convenzione de L’Aja (la quale, introducendo quale effetto minimo la distinzione del patrimonio in trust, assume su questo punto la natura di norma di diritto materiale uniforme), la limitazione della responsabilità stabilita dalla Legge n. 364 del 1989 (conformemente alla riserva di legge dell’art. 2740 cod. civ.), le numerose deroghe legislative (che sono persino giunte a configurare – con gli artt. 2447-bis e seguenti c.c. – ulteriori limitazioni della responsabilità per soggetti che già godono di una responsabilità limitata).

A queste si aggiunge la recente entrata in vigore dell’art. 2645-ter c.c.: le condizioni per addivenire alla trascrizione e all’opponibilità di atti (melius, contratti), anche atipici, con cui beni immobili o mobili registrati sono destinati alla realizzazione dei più variegati interessi meritevoli di tutela ai sensi dell’art. 1322 comma 2° c.c. (norma che non costituisce alcun argine perché – stando ai precedenti giurisprudenziali – consente di formulare soltanto un giudizio di non illiceità degli scopi prefissati), inducono a ritenere che sia stata definitivamente “aperta la porta” dell’ordinamento ai più disparati vincoli di destinazione impressi dall’autonomia privata, senza pretendere che gli interessi sottesi siano già selezionati come meritevoli di riconoscimento da una norma positiva. In altri termini, sembra proprio che la riserva di legge prevista dal comma 2° dell’art. 2740 c.c. (già derogata da innumerevoli normative speciali) sia stata definitivamente svuotata di significato dall’articolo 2645-ter c.c.

Inoltre, la menzionata disposizione, successiva e speciale rispetto all’art. 1379 c.c. (pure richiamato dalla difesa dell’opposta con riguardo al regolamento del trust Alfa), nel prevedere l’opponibilità ai terzi del vincolo di destinazione trascritto, scardina il disposto del “Divieto di alienazione”, il quale sancisce (o, forse, sarebbe meglio dire: “sanciva”) che “il divieto di alienare stabilito per contratto ha effetto solo tra le parti”.

Ad un primo e sommario esame, dunque, non emerge il denunciato contrasto con norme inderogabili della lex fori.

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In ogni caso, deve escludersi che il potere di negare il riconoscimento del trust (ai sensi dell’art. 13 della Convenzione de L’Aja) e/o di dichiararne la nullità perché sham e/o di privare di effetti l’applicazione della Convenzione per contrasto con norme inderogabili del diritto interno o con l’ordine pubblico (ai sensi degli artt. 15, 16 e 18 della Convenzione de L’Aja) possa essere esercitato dal Giudice dell’Esecuzione nell’ambito della decisione (adottata con ordinanza emessa a seguito di una cognizione sommaria) sull’istanza di sospensione ex art. 624 comma 1° c.p.c.

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La creditrice opposta ha sostenuto, nella propria memoria difensiva, che l’effetto segregativo previsto dall’art. 11 della Convenzione de L’Aja non si sarebbe prodotto nel caso di specie perché il trust non è stato “istituito in conformità alla legge determinata” dal disponente a norma dell’art. 6 del testo convenzionale: in particolare, si è affermata l’invalidità – ai sensi degli artt. 10A e 10B (in realtà, dopo le recenti modifiche normative, il riferimento deve essere rivolto all’art. 12) della Trust (Jersey) Law – del “trust di scopo, non caritatevole, privo di un guardiano (enforcer)”.

La difesa è interessante (la difformità della legge regolatrice impedirebbe di considerare come segregati i cespiti aggrediti col pignoramento) ma muove da un presupposto apparentemente errato: la qualificazione del trust Alfa come “trust di scopo”.

È “di scopo” quella categoria di trust “che non sono destinati ad avvantaggiare una o più persone identificate o identificabili, più precisamente quei trusts rispetto ai quali, per come il trust è configurato, non può esistere alcun soggetto legittimato ad agire contro il trustee per tutelare un interesse proprio”.

Nel modello anglosassone i trust di scopo possono perseguire soltanto fini caritatevoli (a vantaggio della collettività o di una categoria di persone non determinate); perciò, un trust di scopo retto dalla legge inglese istituito per fini non caritatevoli (non–charitable purposes) è da ritenersi inesorabilmente nullo. Diversa è la disciplina che regola il trust Alfa: infatti, la Trust (Jersey) Law ammette l’istituzione di trust di scopo che perseguono fini individuali e non caritatevoli, ma richiede – a pena di nullità – la presenza costante e ininterrotta di un guardiano (enforcer), che possa agire nei confronti del trustee inadempiente (per evitare che il trust sia lasciato “in balia della mera volontà incontrollata ed incontrollabile del trustee”; in giurisprudenza, Tribunale di Trieste – 23 settembre 2005, in Guida al Diritto, 2005, n. 41, pag. 57). Con esempi tratti dalla dottrina inglese, sono “di scopo” i trust istituiti “per preservare la pace tra le nazioni” o “per l’abolizione della vivisezione”, dove nessun soggetto ha un sufficiente interesse per far rispettare il trust (“where no individual clearly has sufficient interest to enforce the trust”).

Si ricava dall’art. 1 della Trust (Jersey) Law la definizione di beneficiario: “«beneficiary» means a person entitled to benefit under a trust or in whose favour a discretion to distribute property held on trust may be exercised” (in italiano: “«beneficiario» significa un soggetto avente diritto ad ottenere dei vantaggi in forza di un trust oppure nel cui interesse possa essere esercitato il potere discrezionale di una attribuzione di beni in trust”). La massima dottrina sulla Legge di Jersey afferma: “sono beneficiari di un trust tutti coloro i quali abbiano potenziali benefici dal trust”; un altro giurista precisa: “chiunque abbia diritti da un trust può essere definito come un beneficiario”. Peraltro, ai sensi dell’art. 10 della vigente Trust (Jersey) Law (da leggersi in combinato disposto con l’art. 1) “il beneficiario deve essere identificabile … per riferimento a una categoria”.

Perciò, se il trust, ancorché istituito per una finalità, è costituito a vantaggio diretto o indiretto di una o più persone (identificabili anche con riferimento alla categoria di appartenenza), deve intendersi rispettato il beneficiary principle (consacrato sin dalla pronuncia di Sir William Grant MR in Morice v. Bishop of Durham del 1804: “there must be somebody, in whose favour the court can decree performance”, ossia “dev’esserci un soggetto a cui favore possa essere ordinato l’adempimento”), che risulta violato non già dalla presenza di uno scopo, ma solo dall’assenza di un soggetto legittimato a richiedere l’adempimento delle obbligazioni al trustee.

Il trust Alfa manca di un enforcer, ma – ad avviso di questo Giudice dell’Esecuzione – deve essere considerato un trust con beneficiari: infatti, l’atto istitutivo (all’art. 3) individua soggetti (appartenenti alla categoria dei creditori della Alfa) dotati di poteri e prerogative, le quali, pur non concretandosi in pretese dirette sui beni in trust (ma, semmai, sul ricavato dalla loro vendita), sono altrettanto importanti per la vita del trust (come il diritto di informazione, il diritto di rendiconto verso il trustee ed eventualmente, nei limiti in cui ciò è consentito, il diritto di accesso ai documenti del trust) e idonee a formare il sostrato “proprietario” della posizione dei beneficiari (inteso come trust property sulla quale hanno l’equitable interest).

Anche sotto questo profilo, comunque, spetterà al giudizio di merito fornire una definitiva qualificazione del negozio.

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Riguardo alla trascrizione del trust de quo, la creditrice intervenuta Cassa di Risparmio in Bologna S.p.A. ha rilevato che la stessa è avvenuta in epoca anteriore all’entrata in vigore dell’art. 2645-ter c.c. (introdotto dall’articolo 39-novies della Legge 23/2/2006 n. 51, di conversione del Decreto-Legge 30/12/2005 n. 273, pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale del 28/2/2006, n. 49), sottintendendo l’invalidità/inefficacia della formalità pubblicitaria.

La doglianza (seppur implicita) è infondata.

In primis, si osserva che l’art. 2645-ter c.c. non menziona espressamente il trust e non costituisce la norma che ne legittima la trascrizione: al più, può costituire una mera conferma delle molteplici pronunce giurisprudenziali che già avevano ammesso la trascrizione dei trust (anche di quelli di scopo o autodichiarati che, invece, secondo le prime letture dottrinali, sembrano esclusi dall’ambito di applicazione della citata disposizione).

In secondo luogo, l’art. 12 della Convenzione de L’Aja (e, quindi, della Legge 364/1989) statuisce: “Il trustee che desidera registrare beni mobili o immobili o i titoli relativi a tali beni, sarà abilitato a richiedere l’iscrizione nella sua qualità di trustee o in qualsiasi altro modo che riveli l’esistenza del trust, a meno che ciò sia vietato dalla legge dello Stato nella quale la registrazione deve aver luogo ovvero incompatibile con essa”; è evidente che nel nostro ordinamento il sistema pubblicitario della trascrizione nei pubblici registri costituisce lo strumento attraverso il quale rendere manifesto ed opponibile il vincolo costituito.

Inoltre (e soprattutto), poiché “il trustee è l’unico titolare dei beni e dei conseguenti poteri di gestione e disposizione propri del diritto di proprietà, sia pure qualificata”, anche al di là del disposto dell’art. 12 della Convenzione, non può che discendere dal riconoscimento ex lege dell’istituto l’obbligo di consentire la trascrizione dell’acquisto a favore del trustee: in assenza di trascrizione, infatti, l’effetto segregativo (che è essenziale nel trust) risulterebbe inopponibile ai terzi (così il Tribunale di Bologna nel decreto del 28/4/2000, in Trusts e Attività Fiduciarie, 2000, pag. 372). In altri termini, se il vincolo che consente di costituire un patrimonio separato rispetto a quello del trustee non godesse di pubblicità e non potesse quindi essere opposto, quale significato potrebbe darsi alla ratifica di una Convenzione internazionale che prevede al suo art. 11, quale effetto minimo ed automatico del riconoscimento, proprio la distinzione dei beni in trust da quelli del trustee?

La giurisprudenza degli ultimi anni ha confermato la trascrivibilità nei RR.II.: oltre al citato decreto del 28/4/2000 del Tribunale di Bologna, si annoverano i provvedimenti del Tribunale di Chieti – decreto 10/3/2000 (in Trusts e Attività Fiduciarie, 2000, pag. 372), del Tribunale di Pisa – decreto 22/12/2001 (in Trusts e Attività Fiduciarie, 2002, pag. 241), del Tribunale di Milano – decreto 29/10/2002 (in Trusts e Attività Fiduciarie, 2003, pag. 270), del Tribunale di Verona – decreto 8/1/2003 (in Trusts e Attività Fiduciarie, 2003, pag. 409), del Tribunale di Parma – decreto 21/10/2003 (in Trusts e Attività Fiduciarie, 2004, pag. 73). Anche nel regime tavolare è stata generalmente ammessa la pubblicità dei trust: Tribunale di Trento – Sezione distaccata di Cavalese – decreto 20/7/2004  (in Trusts e Attività Fiduciarie, 2004, pag. 574), Tribunale di Trento – Sezione distaccata di Cles – 7 aprile 2005 (in Trusts e Attività Fiduciarie, 2005, pag. 406), Tribunale di Trieste – 23 settembre 2005 (in Guida al Diritto, 2005, n. 41, pag. 57; quest’ultima pronuncia è particolarmente significativa perché supera le obiezioni mosse dal Tribunale di Belluno col decreto del 25/9/2002 , in Trusts e Attività Fiduciarie, 2003, pag. 255).

Si tratta di provvedimenti con pregevoli motivazioni (alle quali si rimanda, non essendo necessario – in questa sede – ripercorrere le argomentazioni logico-giuridiche da ciascuno addotte) che ammettono la trascrizione dei trust “interni” e dei trust autodichiarati (ove la trascrivibilità è generalmente riconosciuta richiamando l’affinità dell’istituto al fondo patrimoniale, pacificamente trascrivibile ai sensi dell’art. 2647 c.c.)

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Concludendo, l’opposizione non appare prima facie (ed impregiudicata una diversa valutazione all’esito del giudizio di opposizione, anche alla luce delle eventuali domande riconvenzionali dell’opposta) sfornita di fumus, dovendosi fortemente dubitare del diritto della Gruppo C.G. di procedere all’espropriazione dei beni pignorati, precedentemente costituiti in trust.

p.q.m.

visti gli artt. 624 e 616 c.p.c.,

sospende

la procedura esecutiva immobiliare n. 200/2006 R.G. Esecuzioni promossa da Gruppo C.G. S.p.A. contro C. G.

fissa

termine perentorio al 30/9/2007 per l’introduzione del giudizio di merito, secondo le modalità previste in ragione della materia e del rito, previa iscrizione a ruolo della causa, a cura della parte interessata, osservati i termini a comparire di cui all’articolo 163-bis c.p.c. (o altri se previsti) ridotti della metà

manda

la Cancelleria per la comunicazione alle parti.

Reggio Emilia, 14 maggio 2007

Il Giudice dell’Esecuzione

Dott. Giovanni Fanticini