Diritto dei Mercati Finanziari


Il Caso.it, Sez. Giurisprudenza, 2078 - pubb. 18/03/2010

Swap sottoscritti dai comuni, natura dell’operazione e poteri del dirigente

Tribunale Bologna, 14 Dicembre 2009. Pres., est. Melania Bellini.


Contratti di swap – Enti comunali – Natura – Previsione di clausola di up front – Natura di finanziamento – Esclusione – Poteri del dirigente di sottoscrivere i contratti – Sussistenza.



Nell’ambito dei contratti di swap, la clausola up front, concretandosi nella attualizzazione degli interessi con l’ovvio sconto dei tassi dovuto all’anticipazione, non è tale, di per sé sola, da trasformare un contratto che ha la sua specifica funzione economica in un altro tipo di contratto, quale il mutuo, che le parti non hanno voluto. (Franco Benassi) (riproduzione riservata) (1) (2)


Segnalazione dell'Avv. Stefania Piacentini – Clifford Change


Il testo integrale




(1) Il Tribunale di Bologna con la sentenza n. 5244/2009 ha rigettato le pretese di un comune che aveva chiesto l'annullamento di tre swap sottoscritti con una banca nel 2003 e 2004.

Il comune sosteneva che il consiglio comunale si sarebbe dovuto pronunciare sui contratti, vista la presenza di pagamenti upfront, che hanno caratteristiche assimilabili a quelle di un finanziamento. Il consiglio è infatti l'unico organo abilitato a pronunciarsi sull'indebitamento.

Il Tribunale di Bologna ha però negato questo obbligo in quanto gli artt. 42 e 202 del D.lgs. 267/2000 non prevedono l'obbligo di adottare con delibera di consiglio la decisione di concludere uno swap. Solo la legge 203/2008 ha chiarito che gli upfront vanno considerati e contabilizzati alla stregua delle altre forme di indebitamento.

Il comune poi riteneva che prima dell'entrata in vigore del Dm 389/2003, gli enti non possedessero la capacità di sottoscrivere strumenti derivati e dopo l'entrata in vigore del Dm, due dei tre contratti già sottoscritti sarebbero dovuti essere automaticamente essere considerati nulli in quanto non più conformi alle norme sopraggiunte.

Il Tribunale, al contrario, ha accertato che gli enti locali possedevano la generale capacità di concludere contratti derivati e che il Dm 389 non può essere considerato retroattivo ed ha negato la presunta violazione delle norme allora vigenti (il Tuf e il reg. Consob 1152/1998) riguardanti il rilascio della dichiarazione di operatore qualificato da parte del dirigente incaricato del settore finanziario.

Il Tribunale, da ultimo, ha stabilito che la competenza del dirigente a sottoscrivere la dichiarazione di operatore qualificato in nome del comune fosse insita nel fatto che anche altri organi avessero approvato la sottoscrizione dei contratti derivati con la banca. (Stefania Piacentini)

 

(2) Swap ed enti locali: note critiche a Tribunale Bologna 14/12/2009 sulla qualificazione dell'up front e l'interpretazione della dichiarazione di operatore qualificato.

Introduzione. La recente sentenza n° 5244/2009 emessa dalla Seconda Sezione civile del Tribunale di Bologna costituisce la prima pronuncia relativa ad una controversia tra un Ente locale (nella fattispecie il Comune di Cattolica) ed un Istituto di credito, avente ad oggetto l’operatività in strumenti finanziari derivati del Comune.

Le questioni affrontate dalla Corte bolognese sono di grandissima attualità ed interessano un rilevante numero di Enti territoriali italiani, i quali non di rado hanno fatto ricorso alla finanza derivata (come peraltro consentito sin dal 2001) per dichiarate finalità di ammortamento del debito, finendo, al contrario in molti casi per sopportare oneri finanziari aggiuntivi originati dall’operatività di sofisticati prodotti finanziari.

Dal canto loro le Banche, italiane ed estere, hanno spesso operato non solo quali contraenti controparti degli Enti locali, ma anche quali consulenti finanziari (advisors), espressamente incaricati dalle stesse delibere degli Enti, di strutturare i contratti derivati maggiormente conformi alle esigenze dei Clienti.

La pronuncia in commento, che desta più di una perplessità, affronta, in stretta relazione alle allegazioni attoree, tre ordini di questioni, raggruppabili come segue: 1) problematiche connesse alla natura dei contratti swap e degli up front riconosciuti al Comune; 2) legittimità dei contratti swap in riferimento alla normativa speciale relativa agli Enti territoriali e 3) legittimità dei contratti swap in riferimento alla normativa finanziaria (con particolare riguardo alla questione dell’operatore qualificato).

 

1. Contratti swap ed up front. Il Tribunale affronta anzitutto il tema della natura dei contratti impugnati dall’Ente, ed altresì della natura di quella che viene definita a più riprese come la “clausola up front”, pervenendo ad  escludere che i contratti sottoscritti dal Comune costituiscano “mutui o comunque una forma di indebitamento” (e pertanto siano nulli per non essere stati previamente deliberati dal Consiglio comunale e stipulati per atto pubblico).

Mentre non vi sono dubbi sul fatto che gli swap siano contratti aleatori atipici (o quantomeno con elementi di atipicità, siccome, specie con riferimento agli swap degli Enti territoriali, oggetto di una regolamentazione via via sempre più dettagliata), stupisce l’accostamento, effettuato dal Giudice bolognese, degli swap oggetto della pronuncia (che sono swap su tassi di interesse) ad altra categoria di swap, oggetto di una sentenza del 2005 della Corte di Cassazione (Cass. civ. sez. I sent. n° 10598/2005) riguardante non già gli interest rate swap (IRS), bensì idomestic currency swap (DCS).

Facendo nostre le definizioni della Consob[1], gli IRS sono contratti in cui le parti si scambiano pagamenti periodici di interessi calcolati su una somma di denaro (capitale nozionale) per un periodo di tempo predefinito: una parte si impegna a pagare ad un dato tasso, l’altra ad un tasso differente, sul presupposto di diverse assunzioni previsionali in ordine all’andamento prospettico dei tassi (la “scommessa”, più volte evocata anche dalla sentenza in commento).

Come ricordato, il ricorso agli IRS è avvenuto da parte di numerosi Comuni italiani al fine di perseguire finalità di ammortamento del debito, ed in particolare per cerare di alleggerire gli oneri finanziari connessi a mutui stipulati a tasso fisso con gli istituti di credito (in primis con la Cassa Depositi e Prestiti).

I DCS rappresentano, come gli IRS, una species del genus degli swap, ma ad essi si ricorre per finalità diverse rispetto a quelle sottostanti agli IRS, e cioè essenzialmente per proteggersi dal rischio di oscillazioni dei tassi di cambio, considerato che, come puntualizza la Consob, tramite siffatti negozi due controparti compravendono due contratti forward su due nozionali di riferimento espressi in valute differenti, definendo così un tasso di cambio iniziale ed alla scadenza si impegnano a scambiare esclusivamente le differenze che si saranno verificate tra il tasso di cambio osservato a tale data e quello definito all’inizio del contratto”.

L’accostamento degli IRS ai DCS è quindi effettuato con una certa dose di approssimazione e suscita dubbi sull’effettiva comprensione, da parte del Tribunale bolognese, di cosa siano e di come funzionino i contratti oggetto della causa da esso decisa.

I dubbi aumentano nel leggere le considerazioni del Tribunale sugli up front, di cui si perviene ad escludere con nettezza (davvero degna di miglior causa) la natura di indebitamento e l’inidoneità a mutare la causa del contratto (o comunque ad incidere su di essa).

Il discorso sugli up front è in verità ben più complesso.

La normativa finanziaria prevede che, al momento della stipula del contratto, il valore del derivato debba essere par: l’Allegato 3 al Regolamento Consob n° 11522/1998, al Paragrafo 4 della Parte B, intitolato“Operazioni su strumenti derivati eseguite fuori dai mercati organizzati. Gli swaps” precisa che “alla stipula del contratto, il valore di uno swap è sempre nullo” (in altre parole, ciò significa che i contraenti devono concordare sul fatto che la somma algebrica attualizzata dei flussi positivi e negativi e del valore delle opzioni scambiate deve essere pari a zero: le parti stanno facendo “scommesse” sul futuro e, almeno in qualche momento, devono pur possedere le stesse informazioni e possibilità di guadagno).

Ove invece gli swap fossero ab origine contratti non par ossia, per usare le parole del Direttore generale della Consob, laddove presentassero “al momento di stipula un valore di mercato negativo per una delle due controparti, poiché uno dei due flussi di pagamento non riflette il livello dei tassi di mercato”, l’equilibrio finanziario delle condizioni di partenza sarebbe ristabilito “attraverso il pagamento di una somma di denaro” da parte del contraente “avvantaggiato” al contraente “svantaggiato” e “tale pagamento, che dovrebbe essere pari al valore di mercato negativo del contratto, prende il nome di up front”[2].

Al riguardo, come correttamente rilevato in una recente sentenza della Corte d’Appello di Trento, occupatasi di una controversia avente ad oggetto strumenti derivati sottoscritti da una impresa: “il valore dell’up front […] è tanto più alto quanto più è negativo il valore del contratto per il cliente; l’up front costituisce un pagamento immediato a favore del cliente in ragione dell’accettazione di un rischio maggiore perché tale up front rappresenta il pagamento del costo implicito del contratto”(Corte d’App. Trento 05/03/2009[3]).

Ciò posto, è evidente che l’up front costituisce un efficace indicatore della presenza di un rischio finanziario connaturato alla struttura contrattuale a cui ci si vincola e, da questo punto di vista, pone anzitutto questioni connesse alla consulenza fedele dell’intermediario finanziario (non solo controparte ma spesso, come si è detto, anche advisor dell’Ente). Si vuole cioè evidenziare che in simili circostanze è opportuno chiedersi se ed in che modo l’intermediario finanziario abbia adeguatamente informato la controparte in ordine alla rischiosità connessa ad una struttura contrattualeab origine “squilibrata”. Giova al riguardo rammentare, come fa la migliore dottrina, che l’obbligo di fedele consulenza (recte: di “comportarsi nell’interesse dei cliente”, art. 21 comma I lett. a TUF) è connaturato al contratto di intermediazione finanziaria[4] e non presuppone affatto l’espresso affidamento alla banca dell’incarico di advisor.

Sotto altro (ma concorrente) profilo, il tema dell’up front è strettamente correlato a quello delle cosiddette “commissioni implicite” incassate dalla banca, stimabili nella differenza tra il mark to market (ossia il valore di mercato del contratto stimato attualizzando i flussi di cassa attesi) dei pagamenti dell’Ente ed il mark to market dei pagamenti in capo alla Banca. L’omessa (o la non integrale) corresponsione dell’up front da parte degli intermediari finanziari (spesso in misura ben superiore alla copertura dei costi di produzione del derivato) pone, con tutta evidenza, delicate questioni, non soltanto afferenti il diritto finanziario (in primis, ancora: obblighi di consulenza fedele ed obblighi di  trasparenza nell’interesse del cliente), ma anche di rilevanza penale (è notizia di pubblico dominio quella per cui alcune Procure della Repubblica abbiano da tempo avviato indagini, ipotizzando la sussistenza di reati di truffa contrattuale aggravata a carico di diversi alti funzionari di Istituti di credito, imputazioni correlate all’applicazione, da parte delle Banche, di svariati milioni di Euro di “commissioni implicite” gravanti gli IRS sottoscritti da Comuni italiani).

Più in generale, se è vero che la normativa di settore impone all’intermediario finanziario di agire in maniera trasparente e perseguendo le migliori condizioni di negoziazione (best execution) nell’interesse del cliente (cfr. art. 21 TUF), con riguardo alla negoziazione di derivati over the counter, tali obblighi devono riflettersi anzitutto nella puntuale illustrazione al cliente dei meccanismi di pricing del derivato in maniera tale che, prima di sottoscrivere il contratto, il cliente medesimo sia correttamente informato, oltre che sull’idoneità dello strumento finanziario a perseguire le finalità di copertura in ipotesi perseguite, anche dei costi reali della struttura, ivi espressamente compresi i costi di produzione del derivato “ricaricati” sul cliente ed il margine (mark up) effettivamente lucrato dalla controparte bancaria.

Al contrario, la prassi applicativa attesta l’estrema “opacità” delle informazioni rese dagli intermediari, come peraltro rilevato dalla Corte d’Appello di Milano in un recente provvedimento di conferma delle sanzioni irrogate dalla Consob ad un intermediario finanziario[5] ed è davvero sorprendente constatare l’assoluta mancanza, nella prima sentenza di un Tribunale italiano occupatosi di una vertenza sui derivati di un Ente locale, di ogni riferimento a problematiche relative al pricing dei contratti oggetto di causa: come anticipato, il tema dell’up front è infatti affrontato dal Giudice felsineo esclusivamente per escludere che simile corresponsione sia assimilabile ad un finanziamento.

Ed anche sotto questo profilo la sentenza non convince affatto.

Detto dell’up front quale rivelatore di rilevanti criticità finanziarie ab origine connesse al derivato sottoscritto, va altresì osservato che, nella prassi applicativa, l’up front è non di rado corrisposto (o, più esattamente, riconosciuto) dalle Banche all’atto della rinegoziazione (o rimodulazione) dei contratti derivati.

In altre parole, non di rado accade che contratti derivati gravati da oneri divenuti insopportabili per il cliente siano “rinegoziati” mediante corresponsione a titolo di up front da parte della Banca al cliente di importo pari al mark to market di chiusura del contratto che si intende rimodulare.

Il “nuovo” contratto, ovviamente strutturato dall’intermediario in maniera tale da perseguire l’obiettivo di (quantomeno) recuperare con una certa remunerazione l’importo erogato a titolo up front, nasce pertanto fatalmente “sbilanciato” a favore del contraente bancario, aggravando, anziché risolvendo, i problemi del cliente.

Orbene, in simili situazioni ci pare davvero difficile escludere la natura di finanziamento dell’up front riconosciuto al cliente, né rileverebbe, al riguardo, eccepire il carattere eventuale della prestazione restitutoria del cliente (in qualche modo connessa alle assunzioni previsionali supposte dall’IRS rinegoziato), visto e considerato che la natura di finanziamento dell’erogazione di somme appare compatibile con il carattere incerto della restituzione (cfr., ad es., la fattispecie del mutuo sub condicione, su cui Cass. civ. sez. I n° 13168/2005[6]).

Si noti che la più attenta giurisprudenza di merito è ben consapevole del problema[7]: una recente sentenza del Tribunale di Torino ha infatti constatato come i contratti IRS oggetto di successive rinegoziazioni“veniva(no) costruit(i) affinché la banca potesse recuperare la perdita del contratto (precedente) non addebitata alla chiusura  anticipata dello stesso”(Trib. Torino 18/09/2007[8]).

Ma vi è di più. Se l’up front (o quantomeno l’up front riconosciuto in sede di rimodulazione) può essere considerato come un finanziamento, la prestazione restituitoria non potrà che avvenire nel rispetto della disciplina dei tassi soglia (rilevati trimestralmente dalla Banca d’Italia), fissata dalla Legge n° 108/1996, pena la possibile configurabilità del delitto di usura previsto dall’art. 644 c.p. a carico dell’intermediario finanziario[9].

Del resto la più recente giurisprudenza bancaria (formatasi in particolare con riferimento alle controverse “commissioni di massimo scoperto” collegate ai contratti di conto corrente) si è mostrata propensa, proprio ai fini del computo del tasso soglia, alla valutazione di ogni forma di remunerazione delle prestazioni di denaro[10] e non si vede come analoghe valutazioni non debbano riguardare (forse, a maggior ragione) gliup front erogati all’atto della rimodulazione di un IRS.

 

2. Legittimità degli swap in riferimento alla normativa speciale relativa agli Enti territoriali. Affrontato il tema della natura di IRS ed up front, seguendo l’ordine delle allegazioni del Comune, il Tribunale si concentra sulla questione dell’illegittimità dei contratti impugnati in riferimento alle statuizioni della normativa speciale dedicata all’operatività degli Enti territoriali.

Considerata l’epoca di stipulazione degli swap, la sentenza richiama le disposizioni (di principio) dell’art. Legge n° 448/2001 e quelle (maggiormente dettagliate) del Decreto del Ministero dell’Economia e delle Finanze n° 389/2003, osservando che queste ultime possono trovare applicazione solo per il terzo IRS sottoscritto dal Comune.

Muovendo dalle disposizioni del citato art. 41 della Legge n° 448/2001 nessun appunto può muoversi alla sentenza, allorquando la stessa richiama la “la possibilità generale degli enti territoriali di accedere al mercato finanziario”, che “si ricollega direttamente alla generale capacità negoziale di cui tutti i soggetti di diritto fruiscono”.

Quantomeno dubbia appare invece la successiva affermazione secondo cui“gli swap di Cattolica non sembrano fuoriuscire da questa capacità e rispettano i fini istituzionali dell’ente, così come li aveva individuati la deliberazione del consiglio comunale di farli per migliorare la gestione dei debiti dei bilanci degli anni in oggetto”.

In assenza di altri elementi (e soprattutto di una perizia finanziaria disposta d’ufficio dal Tribunale) non è in effetti dato comprendere come possa giungersi a siffatta conclusione, non già con riferimento alla possibilità dell’Ente di sottoscrivere swap bensì con riguardo al “rispetto dei fini istituzionali dell’Ente” ed all’astratta idoneità dello strumento a“migliorare la gestione dei bilanci”.

Già detto dello squilibrio finanziario di norma correlato alla corresponsione di up front e delle “commissioni implicite”, vale al riguardo richiamare anzitutto le puntuali affermazioni delle Sezioni Riunite in sede di controllo della Corte dei Conti, le quali osservano come tra debito sottostante eswap debba esistere un collegamento funzionale, con la conseguenza che“la mancata funzionalizzazione del contratto all’andamento dei rischi connessi all’indebitamento dell’ente si riflette sulla causa genetica dei contratti di swap di tasso di interesse, facendola venire meno”[11].

Non solo: affinché le operazioni di IRS e, più in generale, quelle in strumenti finanziari derivati, possano essere considerate come assistite da funzione di copertura (l’unica ammessa per gli swap degli Enti locali) di specifici rischi (su tasso o su cambio) e non meramente speculative, occorre che: “a) esse siano esplicitamente poste in essere per ridurre la rischiosità delle altre operazioni detenute dal cliente; b) sia elevata la correlazione tra le caratteristiche tecnico-finanziarie (scadenza, tasso d’interesse, tipologia ecc.) dell’oggetto della copertura e dello strumento finanziario utilizzato a tal fine; c) siano adottate procedure e misure di controllo interno idonee ad assicurare che le condizioni di cui sopra ricorrano effettivamente” (Comunicazione Consob n° DI/99013791 del 26/02/1999).

Orbene, la sentenza in commento omette qualsivoglia riferimento alla relazione finanziaria tra debito sottostante e swap ed alla idoneità degli IRS a perseguire finalità di copertura, producendosi (non è dato comprendere, lo si ripete, su quali basi tecnico-finanziarie) nella summenzionata, apodittica affermazione sul preteso “rispetto dei fini istituzionali dell’Ente” da parte degli IRS oggetto di causa e sull’astratta idoneità di questi a “migliorare la gestione dei bilanci” del Comune.

Desta altresì ulteriori perplessità la “lapidaria” esclusione dell’applicazione delle disposizioni del Decreto del Ministero dell’Economia e delle Finanze n° 389/2003 ai primi due IRS stipulati dal Comune di Cattolica, sul presupposto per cui detto Regolamento non fosse in vigore all’epoca della stipulazione dei suddetti contratti.

E’ nota, infatti, la giurisprudenza della Suprema Corte in materia di eterointegrazione del contratto da parte della normativa imperativa sopravvenuta (cfr. Cass. civ. sez. I n° 5286/2000 e Cass. civ. sez. I n° 14899/2000[12]) e, con specifico riguardo alla materia finanziaria, è altrettanto degno di considerazione l’orientamento giurisprudenziale soffermatosi sul tema della nullità sopravvenuta dei contratti di intermediazione finanziaria[13].

A prescindere dalle questioni riguardanti la nullità dei negozi in relazione al parametro della normativa sopravvenuta, è peraltro indubbio che ove nel caso di specie alla Banca fosse stato affidato anche l’incarico di advisor, essa, in ottemperanza ai suoi doveri di consulente avrebbe dovuto segnalare all’Ente mandante l’eventuale difformità dei derivati rispetto alle disposizioni di dettaglio contenute nel Decreto del Ministero dell’Economia e delle Finanze n° 389/2003, così mettendo il Comune (quantomeno) nelle condizioni di meglio comprendere i rischi assunti.

 

3. Legittimità degli swap in riferimento alla normativa finanziaria; in particolare: la questione dell’operatore qualificato. La parte conclusiva della sentenza è dedicata alla valutazione delle censure del Comune che paiono più direttamente appuntarsi sui contratti quadro (ossia sui contratti normativi, la cui sottoscrizione si presume abbia preceduto la stipulazione dei tre IRS impugnati, contenenti le clausole generali regolanti i rapporti negoziali sorti tra Ente ed intermediario finanziario, disciplinati invece nel dettaglio dalle singole confirmations).

Il Tribunale ritiene anzitutto di dover “sgombrare il campo” dall’eccezione di nullità, avanzata dall’Ente, relativa alla clausola dei contratti “accusata di richiamare gli usi per la determinazione dei costi di sostituzione contro il divieto dell’art. 23 D.Lgs. 58”. L’eccezione in questione, secondo il Giudice bolognese, sarebbe infondata per (così pare di capire) la “marginalità”della clausola, visto e considerato che “anche ad ammettere il richiamo agli usi” non potrebbe ritenersi per ciò stesso viziato l’intero contratto, bensì appunto la sola clausola asseritamente nulla (e perciò sostituibile di diritto con il disposto dell’art. 23 comma II TUF, laddove questo prescrive che “in tali casi nulla è dovuto”).

Pur convenendo sull’inidoneità di una clausola di rinvio agli usi a viziare l’intero contratto, non può invece condividersi il giudizio sulla pretesa“marginalità” di simile clausola.

Infatti, se la clausola richiamata dalla pronuncia facesse realmente riferimento ad usi o prassi di mercato per la determinazione del “costo di sostituzione” (ossia, si presume, quantomeno di quella parte del mark to market coincidente con l’hedging cost affrontato dalla banca ), tali oneri, in ipotesi accollabili all’Ente, potrebbero addirittura azzerarsi (in tali casi, dice appunto l’art. 23 comma II TUF, “nulla è dovuto”). Sul punto si precisa tuttavia che le nostre considerazioni sono riferite a quanto è dato evincere dalla sentenza, potendo evidentemente emettersi un giudizio più fondato sulla fattispecie soltanto all’esito dell’esame della clausola contrattuale del contratto quadro IRS di cui la sentenza si è occupata.

Le ultime valutazioni della sentenza sono dedicate alla vexata quaestiodell’operatore qualificato (cfr. art. 31 Reg. Consob n° 11522/1998, norma senza dubbio vigente all’epoca della stipulazione dei contratti impugnati ed evidentemente richiamata dalla clausola del contratto quadro censurata dal Comune), su cui la giurisprudenza finanziaria si è spesso misurata.

Come noto, è in argomento di recente intervenuta una pronuncia della Suprema Corte (Cass. civ. sez. I n° 12138/2009[14]) nella quale è statuito che “nel caso di asserita discordanza tra il contenuto della dichiarazione e la situazione reale da tale dichiarazione rappresentata, graverà su chi detta circostanza intenda dedurre, al fine di escludere la sussistenza in concreto della propria competenza ed esperienza in valori mobiliari, l’onere di provare circostanze specifiche dalle quali desumere la mancanza di detti requisiti e la conoscenza dell’intermediario mobiliare delle circostanze medesime, o almeno la loro agevole conoscibilità in base ad elementi obiettivi di riscontro, già nella disponibilità dell’intermediario stesso o a lui risultanti dalla documentazione prodotta dal cliente”.

Anche se non è dato sapere se e come il Comune di Cattolica si sia offerto di dimostrare le “circostanze specifiche” dalle quali desumere la mancanza di competenza ed esperienza cui allude la pronuncia del Supremo Collegio, si rileva la censurabile assenza nella sentenza di ogni considerazione in merito all’esperienza finanziaria dell’Ente (e se il Comune di Cattolica non avesse sottoscritto operazioni in derivati precedenti a quelle contestate?).

Stupisce inoltre la sicurezza con la quale la sentenza in commento rileva la riferibilità all’Ente di “molte competenze finanziarie”, addirittura “arcinote a tutti”, assumendo come parametro della pretesa competenza “i complessi apparati ragionieristici e i bilanci complessi che i Comuni anche piccoli hanno e il potere di attuare operazioni finanziarie complesse”.

Al riguardo pare a chi scrive che il Giudice bolognese abbia confuso la realtà dei piccoli Comuni con quella di Enti territoriali di più rilevanti dimensioni, essendo un dato di comune esperienza quello per cui le Ragionerie dei piccoli Comuni non siano affatto in possesso di sofisticate competenze finanziarie e scontino una notevole asimmetria informativa rispetto agli analisti finanziari delle banche (non casualmente, come si è ricordato, spesso incaricate dagli Enti anche quali advisors in vista del compimento delle complesse operazioni in derivati).

 

Conclusioni. Molte più ombre che luci, nell’importante sentenza qui commentata.

In generale si ha l’impressione che un tema estremamente complesso come quello della finanza derivata degli Enti locali sia stato affrontato con un certa approssimazione, sottovalutando la rilevanza (ma ancor di più la cogenza) di principi immanenti alla normativa finanziaria, governata dagli stringenti obblighi cooperativi posti a carico degli intermediari e dal dovere di trasparenza, principi tanto più invocabili in una materia caratterizzata, ad essere benevoli, da una dose eccessiva di opacità.

Proprio in tema di trasparenza, e più in generale di corretto approccio alle problematiche originate dall’uso “deviante” di prodotti finanziari ad alto tasso di sofisticazione, ci pare pertinente citare un estratto da un recente articolo a firma di Marco Onado apparso su “Il Sole 24 Ore”, dedicato alle vicende del debito pubblico della Grecia (correlato, guarda caso, al ricorso disinvolto alla finanza creativa), nel quale è contenuto un monito rivolto anzitutto a Legislatori e Governi, ma che a nostro avviso ben può essere esteso a chi è chiamato ad interpretare Leggi e Regolamenti: “è l’eccesso di formalismo regolamentare che consente di occultare uno scambio che in realtà è un debito, oppure di far passare per capitale ciò che in realtà è un debito. Ed è proprio quel formalismo regolamentare che offre a chi cerca qualche forma d’elusione un facile alibi per dire di avere agito nel pieno rispetto della normativa esistente. […] La sostanza non è difficile da definire perché alla fine, come avrebbe detto Gertrude Stein, un debito è un debito e anche un bambino sa riconoscerlo”[15]. (Luca Zamagni - Giovanni Cedrini)


 


[1] Cfr. Consob, in “I principali prodotti derivati – Elementi informativi di base”, reperibile inwww.consob.it

[2] Cfr. Audizione del Direttore generale della Consob Dott. Massimo Tezzon avanti alla VI Commissione “Finanze” della Camera dei Deputati “Problematiche relative al collocamento di strumenti finanziari derivati” del 30/10/2007, pag. 2.

[4] Così, magistralmente, Daniele Maffeis: “si deve considerare che la banca, nel rapporto con il cliente non ‘vende’, bensì ‘agisce nell’interesse’, in forza di un contratto di investimento – es. negoziazione, gestione – che è sempre riconducibile al genere dei contratti di cooperazione (e di sostituzione). […] Non siamo dunque mai in presenza di una causa vendendi, bensì siamo in presenza di una causa mandati, sia quando la banca gestisce il portafogli del cliente (art. 24 TUF), sia quando la banca agisce nell’ambito di una negoziazione dietro specifico ordine del cliente (art. 25 TUF). […]. Il fatto stesso che le situazioni di conflitto di interessi tra i contraenti costituiscano una patologia è il segno che siamo in presenza di un rapporto di cooperazione, visto che, tutto al contrario, del contratto di scambio (bargain) il conflitto di interessi è il presupposto stesso” (MAFFEIS D. “Forme informative, cura dell’interesse ed organizzazione dell’attività nella prestazione dei servizi di investimento”, in Rivista di diritto privato n° 3/2005, pagg.  587-588).

[5] Così Decreto Corte d’App. Milano, Sez. I civ., 29/10-13/11/2008 (in www.ilcaso.it): “per quanto riguarda le condizioni economiche applicate alle operazioni in derivati strutturate da XXX, difettavano criteri direttivi per delimitare la discrezionalità degli operatori […] nella fissazione degli spread applicati alle singole transazioni. Il che ha impedito all’organo di controllo di ricostruire le condizioni economiche effettivamente applicate alla clientela, laddove invece opponente, rivendicando la libertà delle scelte di politica commerciale, ha dimenticato che è sindacabile l’adeguatezza dei profili organizzativi (procedure interne) volti ad assicurare la prestazione del servizio secondo canoni di diligenza, correttezza e trasparenza, i quali avrebbero comportato la limitazione dei margini, di discrezionalità dei singoli operatori e la possibilità di fornire a posteriori indicazioni analitiche sui criteri di determinazione dei ricarichi, indicazioni che XXX ha invece fornito a Consob solo in termini sintetici ed evasivi [...]. Tali addebiti sono tanto più gravi se si considera che l’elevato livello di sofisticazione e complessità dei prodotti derivati OTC e la possibilità, concretamente verificatasi, che il loro utilizzo assumesse finalità speculative estranee alle finalità di copertura di rischi della clientela, obbligava l'intermediario a corredare la propria attività con tecniche procedurali particolarmente stringenti onde evitare ogni potenziale profilo di opacità. E il fatto che quei rischi (forieri di perdite multiple rispetto al capitale investito) si siano concretamente riversati sulla quasi totalità dei clienti, esposti a onerose e plurime rinegoziazioni nelle quali gli operatori di YYY decidevano in piena autonomia gli ulteriori ricarichi destinati ad essere ripartiti con XXX (generando una molteplicità di reclami), lungi dal costituire la base dell’accertamento, costituisce semplicemente il riscontro indiziario ex post di un difetto genetico di strutturazione del prodotto finanziario, la cui distribuzione tramite YYY non era assistita da alcun meccanismo di controllo”

[6] In Foro it., Rep. 2006, voce “Società”, n° 689.

[7] Come del resto lo è la giurisprudenza contabile (cfr. Corte dei Conti – Sezioni Riunite in sede di controllo “Indagine conoscitiva sull’utilizzo e la diffusione degli strumenti di finanza derivata e delle cartolarizzazione nelle pubbliche amministrazioni”, Audizione alla VI Commissione del Senato della Repubblica, Roma 18/02/2009, pag. 42): ne dà atto, ma discostandosene, la stessa sentenza in commento.

[9] In questo senso anche una recente ricerca del DMSESF (Dipartimento di matematica per il diritto, l’economia e le scienze finanziarie) del Centro Studi Almaiura di Verona (cfr. “Negli swap spunta l’ipotesi usura” in PLUS de “Il Sole 24 ore” del 20/02/2010, pag. 15).

[10] Su tutte, in termini preclari, Trib. Verona 21/09/2007, in Corriere del Merito, 2008, 3, 351, con nota di AGNINO; in argomento, si vedano altresì anche Corte d’App. Roma, Sez. II, 27/11/2008 Tu.Ca. e altri C. In.Ge.Cr. S.p.A. e Trib. Mondovì 30/01/2007 in www.ilcaso.it

[11] Cfr. Corte dei Conti – Sezioni Riunite in sede di controllo “Indagine conoscitiva sull’utilizzo e la diffusione degli strumenti di finanza derivata e delle cartolarizzazione nelle pubbliche amministrazioni”, cit., pag. 8.

[12] Rispettivamente in D&G - Dir. e giust. 2000, 17, con nota di ROSSETTI ed in D&G - Dir. e giust. 2000, 45, con nota di PEPE. Le richiamate pronunce della Cassazione affrontano la questione dei mutui stipulati a tassi (divenuti) usurari, statuendo che “se è […] vero che il giudizio di validità deve essere condotto alla stregua della normativa in vigore al momento della conclusione del contratto, è anche vero che nel concorso tra autoregolamentazione pattizia e norme imperative non si può subordinare l'applicabilità dell'art. 1419 comma 2 c.c., all'anteriorità della legge rispetto al contratto” (Cass. civ. sez. I n° 14899/2000); nel condivisibile ragionamento della Suprema Corte, l’inserimento di norme imperative sopravvenute nel regolamento pattizio incontra l’unico limite dell’avvenuto compimento delle prestazioni dedotte in contratto; per converso, “in pendenza di un rapporto non ancora esaurito” (come pare essere nel caso dei primi due contratti derivati del Comune di Cattolica), la validità del contratto va verificata dall’interprete con riguardo (anche) al parametro della norma imperativa sopravvenuta.

[13] Così, fra le altre, Trib. Parma n° 554/2008 (in www.ilcaso.it): “se il contratto ha efficacia immediata, risultando la sua efficacia obbligatoria immediatamente vincolante per le parti, i suoi effetti si dipanano nel tempo, sicché occorre rimeditare rispetto ad ogni singolo ordine di acquisto la sussistenza o meno delle condizioni legittimanti l’operazione di investimento”. Tale principio di diritto, traslato sulla fattispecie che ci occupa, imporrebbe la “rimeditazione” della struttura degli IRS alla luce delle condizioni di legittimità della stipulazione di operazioni in derivati via via enucleate dalla normativa.

[15] ONADO M. “Swap? No, si chiama debito”, in Il Sole 24 Ore del 20/02/2010, pag. 17.


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