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Il Caso.it, Sez. Giurisprudenza, 788 - pubb. 01/07/2007.

Cassa formazione proprietà contadina e fallimento


Appello di Brescia, 21 Novembre 2001. .

Cassa per la formazione della proprietà contadina – Vendita del fondo con patto di riservato dominio – Fallimento del compratore quale socio illimitatamente responsabile di società commerciale – Inadempimento del compratore – Istanza di rivendicazione del fondo – Incompetenza ex art. 24 l.f. – Automatismo del fallimento del socio indipendente dalla qualità di imprenditore dello stesso – Art. 10 legge 30 aprile 1976 n. 386 – Inapplicabilità – Diritto ad effettuare l’anticipato pagamento del prezzo – Sussistenza.


 

 

omissis

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con atto di citazione notificato il 3 luglio 1995, la CASSA per la FORMAZIONE DELLA PROPRIETA’ CONTADINA, in persona del Commissario Straordinario, conveniva in giudizio davanti al Tribunale di Mantova il FALLIMENTO della società PAOLO ROSSI & C. S.N.C. esponendo queste circostanze e formulando queste domande. Con atto notarile del 12 ottobre 1977 la Cassa deducente, in attuazione dei propri fini istituzionali, aveva venduto a Paolo Rossi il fondo S. Francesco II, esteso per ha 14.54.21 e sito in agro di Finale Emilia. La vendita era avvenuta con patto di riservato dominio in quanto il prezzo, pari a £.82.784.000, avrebbe dovuto essere pagato dall’acquirente in 30 rate annuali di £.3.207.725 ciascuna, con decorrenza dal 15 novembre 1978. Tra le clausole contrattuali era previsto (art. 6) che nel caso di ripetuta inadempienza e cioè nel caso di mancato pagamento di due rate, il contratto stesso si sarebbe inteso risolto di diritto con incameramento delle rate già versate da parte della venditrice a titolo di indennizzo. Era altresì pattuito (art. 8) che la parte acquirente non avrebbe potuto, prima che fossero passati dieci anni dall’acquisto, alienare o cessare, volontariamente dal coltivare direttamente il fondo, sotto pena di risoluzione del contratto e della decadenza dai benefici fiscali. In data 7 ottobre 1994, il Tribunale di Mantova aveva dichiarato il fallimento della società Paolo Rossi & C. S.n.c., oltre che del socio illimitatamente responsabile Giulio Rossi e la Cassa per la Formazione della Proprietà Contadina, appresa questa circostanza, aveva provveduto a rappresentare al giudice delegato che il fondo San Francesco II non avrebbe potuto essere appreso dalla procedura, essendo lo stesso ancora di proprietà della deducente. Questo perché era stato oggetto di vendita con riserva di proprietà e l’intero prezzo non era ancora stato pagato, ma anche perché il fondo stesso era sottoposto a vincolo di indivisibilità trentennale ai sensi dell’art. 11 legge 14 agosto 1971 n. 817. Chiedeva pertanto la Cassa che il predio venisse stralciato dalla massa attiva e che il curatore fosse autorizzato a firmare l’atto di retrocessione e consegna del fondo alla Cassa proprietaria. Con successiva memoria, quest’ultima aveva poi evidenziato che il Fallimento non avrebbe potuto subentrare nel contratto ex art. 73 legge fallimentare ostandovi la legislazione in materia e che, in ogni caso, si erano verificate tutte quelle circostanze alle quali, per espressa previsione contrattuale, doveva seguire la risoluzione del contratto. A questa prospettazione aveva però risposto il giudice delegato con provvedimento in data 23 maggio 1995 nel quale si era dichiarata l’istanza di rivendicazione inammissibile perché relativa “a bene immobile per il quale non vige la deroga alle ordinarie regole di competenza ex art. 24 legge fallimentare” e si era precisato che il Fallimento, nella specie, si era limitato a “esercitare nell’interesse della massa dei creditori gli stessi diritti del Rossi nel rapporto che legava lo stesso alla Cassa”. Tanto premesso in fatto, la Cassa attrice, a mezzo dell’atto di citazione, denunciava l’erroneità del provvedimento dell’organo fallimentare perché, essendo compito del curatore quello di ricostruire il patrimonio del fallito, quegli avrebbe dovuto in ogni caso escludere dalla massa attiva il fondo di cui si discuteva e ciò per due ordini di ragioni. In primo luogo perché Rossi, pur avendo pagato alcune rate del prezzo, non aveva versato l’intero corrispettivo cosicché il fondo mai era divenuto di sua proprietà e, in secondo luogo, perché, come dimostrava la stessa sentenza dichiarativa di fallimento, Rossi aveva intrapreso attività commerciale cessando così di coltivare e di migliorare il fondo, con la conseguente integrazione delle previsioni degli artt. 8 e 9 del contratto che ricollegavano a quelle evenienze la risoluzione di diritto di quest’ultimo. Precisato ancora che, per effetto dell’intrapresa attività commerciale, Rossi aveva altresì perso la qualifica di coltivatore diretto che doveva comunque permanere in capo all’acquirente pena la risoluzione del contratto, la Cassa attrice negava infine che il Fallimento potesse subentrare negli obblighi del fallito ostandovi il vincolo di indivisibilità del fondo. In forza delle esposte ragioni, la Cassa chiedeva quindi che l’adito Tribunale dichiarasse risolto per inadempimento il contratto di vendita con riservato dominio in data 12 ottobre 1977 e condannasse il Fallimento convenuto al rilascio del fondo oltre alle spese del giudizio.

Si costituiva in giudizio il curatore del fallimento della società Paolo Rossi nonché dei soci illimitatamente responsabili Paolo Rossi e Carlini Fernanda. Negava che Paolo Rossi si fosse in qualche modo reso inadempiente alle obbligazioni scaturenti dal contratto sia perché aveva sempre provveduto regolarmente al pagamento delle rate del prezzo sia perché mai aveva cessato, nonostante avesse dato corso a un’attività commerciale in forma associata, la coltivazione del fondo né aveva smesso la qualifica di coltivatore diretto. Sottolineata quindi l’infondatezza della domanda di controparte, la curatela convenuta rilevava che, ai sensi dell’art. 5 del contratto, era data all’acquirente la possibilità di effettuare anticipatamente il pagamento del prezzo e che, avendo inteso la procedura avvalersi di tale facoltà, la Cassa attrice aveva opposto un netto rifiuto. In via riconvenzionale, parte convenuta chiedeva pertanto si accertasse e si dichiarasse che la procedura aveva diritto di effettuare detto pagamento anticipato; si determinasse il residuo prezzo da pagare e gli oneri accessori; si desse atto che la procedura offriva il pagamento delle accertande somme e si dichiarasse quindi trasferita al Fallimento la proprietà del fondo per cui era causa.

Con memoria depositata ai sensi dell’art. 183 cod. prov. civ., la curatela convenuta formulava in via principale (mantenendo le domande già proposte in comparsa di costituzione in una prospettiva subordinata) domanda di accertamento circa l’attuale spettanza del fondo all’attivo fallimentare ai sensi dell’art. 10 legge 30 aprile 1976 n. 386 per essersi estinta la riserva di proprietà a seguito del pagamento della quindicesima annualità.

Così costituitosi il contraddittorio, il giudice istruttore rigettava la richiesta di ammissione delle prove formulata da parte convenuta e procurava immediatamente la precisazione delle conclusioni. Trattenuta la causa per la decisione, le parti venivano nuovamente rimesse davanti all’istruttore per l’acquisizione di informazioni presso il Servizio Tecnico Amministrativo Provinciale di Modena circa l’accertamento relativo alle condizioni personali di Rossi al momento della stipulazione del contratto. Acquisiti detti elementi, il Tribunale, in composizione monocratica, pronunciava sentenza non definitiva in data 4 febbraio 2000 (depositata il successivo 17 aprile).

Il giudice di primo grado negava che gli elementi addotti dalla Cassa attrice fossero tali da dimostrare che Rossi si fosse reso inadempiente all’obbligo di lavorare personalmente, come abituale attività, il fondo, non essendo risultata smentita la tesi del convenuto secondo cui lo stesso Rossi aveva svolto l’attività commerciale (impresario musicale) in forma saltuaria e in aggiunta all’attività di coltivazione dei campi. In particolare, si negava valore probatorio nel senso voluto dalla difesa attrice sia ai risultati di accertamenti dei Carabinieri – difatti espressi in termini dubitativi – sia alla sentenza dichiarativa di fallimento che, emessa contro Rossi quale socio di una società di persone, prescindeva del tutto dall’eventuale attività imprenditoriale svolta dal Rossi medesimo. Passando quindi alle domande proposte dal Fallimento, il Tribunale riteneva infondata quella formulata in via principale con la ricordata memoria ex art. 183 cod. proc. civ. perché, rilevava, la legge citata dalla curatela si applicava alle vendite stipulate con gli enti di sviluppo e non già a quelle poste in essere dalla Cassa per la formazione della proprietà contadina. Il Tribunale riteneva invece fondata la domanda riconvenzionale proposta dal Fallimento già in comparsa di risposta poiché, osservava, dalla data dell’atto di acquisto era ormai decorso il termine decennale previsto dall’art. 5 del contratto perché fosse consentito all’acquirente il pagamento anticipato del prezzo. Preso dunque atto della manifestata volontà del fallimento di subentrare nel contratto ai sensi dell’art. 73 legge fallimentare, il giudice di primo grado negava infine che all’accoglimento della domanda fosse di ostacolo il vincolo di indivisibilità del fondo che sullo stesso gravava in forza delle disposizioni sui finanziamenti agevolati perché, il primo giudice, detto vincolo non ostava a che il bene potesse essere assoggettato a procedura esecutiva. Ritenuto quindi che il fallimento di Paolo Rossi avesse diritto di effettuare l’anticipato pagamento del prezzo, il giudice di primo grado riteneva opportuna ulteriore istruttoria al fine di determinare l’esatto importo da versare. Pertanto, pronunciava sentenza non definitiva con la quale rigettava la domanda di parte attrice; rigettava la domanda riconvenzionale di parte convenuta volta a far dichiarare senz’altro ricompresso nell’attivo fallimentare il cespite per cui era causa ai sensi dell’art. 10 legge n. 386 del 1976; accertava e dichiarava che il fallimento della Rossi & C. S.n.c. nonché dei soci Rossi e Carlini aveva diritto di effettuare l’anticipato pagamento del prezzo; emetteva quindi ordinanza per il prosieguo del giudizio davanti a sé.

La sentenza, istante il Fallimento, era notificata in data 8 giugno 2000 alla Cassa per la Formazione della Proprietà Contadina e da questa tempestivamente impugnata.

Con atto notificato il 30 giugno 2000, la Cassa, ora incorporata nell’I.S.M.E.A., citava il Fallimento della società e i Fallimenti dei soci illimitatamente responsabili davanti alla Corte di appello di Brescia, insistendo perché, in forma della sentenza di primo grado, fossero accolte le domande invece disattese dal primo giudice. Con un primo e articolato motivo, l’appellante censurava la decisione dei primi giudici che non aveva ravvisato, negli elementi forniti in atti, la prova che Rossi avesse svolto attività commerciale che gli aveva precluso di esercitare in modo esclusivo e professionale la coltivazione diretta della terra. Con un secondo motivo, sosteneva che la legislazione che governava la vendita in questione escludeva che il fallito Rossi potesse subentrare la curatela del suo fallimento, con la conseguente impossibilità, per la procedura, di essere ammessa al pagamento anticipato del corrispettivo.

Si costituivano davanti alla Corte i Fallimenti appellati i quali contestavano gli argomenti addotti dalla controparte e insistevano per il rigetto del gravame.

La Corte, con ordinanza in data 10 gennaio 2001, rigettava le istanze istruttorie di parte appellata e provocava l’immediata precisazione delle conclusioni. All’incombente si dava corso all’udienza dell’11 luglio 2001 nella quale il Collegio tratteneva poi la causa per la decisione, previa assegnazione ai procuratori dei termini di legge per il deposito degli scritti definitivi finali. Scaduti detti termini, la Corte decideva nella camera di consiglio del 21 novembre 2001.

MOTIVI DELLA DECISIONE

Col primo motivo di gravame, la Cassa appellante censura la decisione del primo giudice che non ha ritenuto nella specie perfezionate le condizioni per ritenere il contratto di vendita del fondo risolto di diritto ai sensi di specifica clausola contrattuale. L’appellante premette una ricognizione delle fonti normative che governano l’attività della Cassa e delle relative disposizioni che, trasfuse poi nel contratto, renderebbero evidente come l’acquirente dei fondi posti in vendita dalla Cassa stessa debba essere, necessariamente, non già genericamente un coltivatore diretto, ma un coltivatore diretto che eserciti “in maniera esclusiva e professionale la propria attività manuale della coltivazione della terra”. Precisato che tale condizione non può reputarsi soddisfatta qualora il soggetto acquirente svolga attività diverse e per giunta di natura commerciale, come si sarebbe verificato nel caso di specie laddove Rossi è stato addirittura dichiarato fallito, la Cassa ha quindi sostenuto che le prove da essa versate in causa sarebbero state sufficienti a dimostrare che il Rossi aveva esercitato professionalmente l’attività non di coltivatore diretto ma di impresario commerciale e ciò fin dal 1975, come sarebbe dimostrato sia dalle informazioni fornite dai Carabinieri sia dalla stessa sentenza di fallimento. Relativamente al primo elemento, l’appellante censura in particolare che il Tribunale abbia a torto sminuito la rilevanza dell’appunto dell’Arma sulla base del rilievo, invero inconsistente, che i militari ivi si esprimevano al condizionale (“risulterebbe …”) e non in termini di certezza sull’attività di impresario di Rossi. La cautela semantica rinvenibile in quell’appunto, a dire della Cassa, non avrebbe invero riguardato l’esito degli accertamenti relativi alla reale attività della persona fallita, ma l’individuazione, problematica attraverso l’ampio arco di tempo oggetto dell’accertamento, delle persone che con lui avrebbero svolto, in forma associata, quell’attività. Sul secondo elemento, poi, la Cassa ha sottolineato l’erroneità dell’argomento utilizzato dal Tribunale per privare di rilievo il valore invece evidente della dichiarazione di fallimento. Sbagliato, in particolare, si rivelerebbe l’assunto che il fallimento di Rossi non deriverebbe tanto dall’attribuzione allo stesso della veste di imprenditore commerciale ma dagli effetti automatici, ex art. 147 legge fallimentare, della dichiarazione di fallimento della società di cui egli era socio illimitatamente responsabile; avrebbe così trascurato il primo giudice di considerare che Rossi, in ogni caso, era il soggetto che direttamente espletava l’attività di imprenditore commerciale che aveva provocato il fallimento della società.

In forza di tutti questi rilievi, in conclusioni, rimprovera l’appellante al primo giudice di avere trascurato che l’esercizio in modo continuativo di un’attività commerciale da parte di Rossi doveva comunque comportare, ai sensi dell’art. 8 del contratto di vendita con patto di riservato dominio e delle leggi in materia, la risoluzione di diritto del contratto stesso, con la conseguenza che la curatela fallimentare non potrebbe legittimamente pretendere di subentrare in un contratto ormai risolto con effetto di comportamenti del soggetto poi fallito precedenti alla dichiarazione di fallimento.

Ritiene la Corte che il mezzo così riassunto non risulti convincente e non valga ad avere ragione della diversa conclusione cui è pervenuto il giudice di primo grado.

Il generale, va permesso che l’art. 9, II comma, del D. Lgv 5 marzo 1948 n.121 istituto della Cassa stabilisce espressamente che questa “provvede all’acquisto dei terreni, alla loro eventuale lottizzazione ed alla rivendita a coltivatori diretti soli od associati in cooperativa”, dal che si evince che per rendersi acquirenti dalla Cassa è indispensabile rivestire la qualifica formale di coltivatore diretto. A migliore specificazione di quest’ultima qualifica, nello stesso contratto di vendita si rinviene il riferimento all’art. 11 d.l. 24 febbraio 1948, n. 114 sostituito dall’art. 4 della legge 11 dicembre 1952, n. 2362 e cioè alle norme in tema di provvidenze a favore della piccola proprietà contadina che ammettono a tali benefici i soggetti che dedicano “abitualmente” la propria attività manuale alla lavorazione della terra. Questi riferimenti normativi inducono quindi a concludere che in tanto la Cassa per la Formazione della proprietà contadina ha venduto il fondo a Rossi in quanto questi, al momento della stipula, era (come del resto si dà atto nelle premesse e nell’art. 15 del rogito) coltivatore diretto e cioè persona che dedicava abitualmente la propria attività manuale alla lavorazione della terra.

In questa prospettiva va quindi letto anche il successivo art. 8 del testo contrattuale, laddove si fa divieto, sotto pena della risoluzione di diritto del contratto stesso, alla parte acquirente di alienare o cessare volontariamente, prima che siano trascorsi dieci anni dall’acquisto, “dal coltivare direttamente il fondo compravenduto”.

La clausola, invero, va necessariamente ricollegata ai requisiti richiesti per potersi procedere all’acquisto del fondo, nel senso che la risoluzione di diritto sarebbe conseguita al fatto che l’acquirente, nei dieci anni dall’acquisto, fosse venuto a perdere quella condizione (di coltivatore diretto cioè di persona che abitualmente presta la propria attività manuale di lavorazione della terra) che all’acquisto stesso l’aveva legittimato.

Queste osservazioni conducono a concludere, col confronto anche della giurisprudenza del Supremo Collegio, che “se coltivatore diretto occorreva essere al momento dell’acquisto del fondo, per volontaria cessazione della coltivazione diretta” deve “intendersi non solo l’abbandono totale di essa ma anche il non esercitarla più con il carattere di professionalità ed abitualità insito in detta qualifica, a nulla rilevando, quindi, la possibilità di dedicarvisi, sia pure con qualche assiduità, nel tempo libero” (così Cassazione civile sez. II, 12 agosto 1996, n. 7498, in parte motiva).

Sulla questione cosa debba intendersi per esercizio “abituale” dell’attività manuale di coltivazione della terra, registra la Corte come non si rinvengano, nel panorama giurisprudenziale, opzioni univoche. La decisione dei giudici di legittimità appena richiamata sembra istituire un parallelismo tra “abitualità” e professionalità”; invece, in relazione al requisito della “coltivazione abituale”, previsto dall’art. 31.1.26 maggio 1965 n. 590, in linea generale e quindi anche ai fini del diritto di prelazione e di quello succedaneo di riscatto, si è ritenuto che esso ricorra anche al caso di chi svolge altra attività lavorativa principale, “poiché l’abitualità va intesa quale normale ed usuale svolgimento di lavori agricoli, in maniera tale che l’attività agricola venga svolta in modo stabile e continuativo anche se non professionale, prevalentemente con lavoro proprio o dei componenti della propria famiglia, traendo da tale attività un reddito, ancorché secondario” (Cassazione civile sez. III, 23 gennaio 1995, n. 759; vedasi negli stessi termini anche Cassazione civile, sez. III, 18 gennaio 1983 n. 475 secondo cui “l’abitualità va intesa nel senso di non occasionalità, di stabilità e di continuatività dello svolgimento dell’attività agricola di coltivazione diretta, senza necessità che tale attività sia prevalente nei confronti di altre esercitate dal coltivatore”).

Tanto premesso in generale, ritiene la corte che nel caso di specie vi siano ragioni per escludere che Rossi abbia perso, successivamente alla stipulazione del contratto, i requisiti di legittimità all’acquisto stesso quali si sono sopra specificati e ciò senza dover prendere necessariamente posizione circa l’adesione all’una piuttosto che all’altra delle appena esposte linee interpretative circa il requisito dell’“abitualità”.

Deve essere sottolineato che, al fine di fruire dei benefici previsti dalla legislazione in tema di formazione della piccola proprietà contadina (benefici di cui Rossi ha goduto nel contrarre con la Cassa), l’accertamento circa l’esistenza del requisito richiesto ovvero dell’essere il compratore “persona che dedica abitualmente la propria attività manuale alla lavorazione della terra” è demandato in via esclusiva all’Ispettorato provinciale agrario, competente per territorio (art. 1 D. Lgv. 24 febbraio 1948, n. 114). E infatti, nel caso di specie, è stata acquisita dal Tribunale la pratica relativa all’istruttoria svolta dall’Ispettorato di Modena sull’istanza presentata da Rossi il 13 aprile 1977 onde poter fruire di quelle agevolazioni in relazione all’acquisto del fondo di cui si discute.

Dalla documentazione così acquisita è risultato che l’autorità a ciò deputata, tenuto conto, tra l’altro, della capacità lavorativa del nucleo familiare di Rossi, concluse la propria indagine certificando che l’istante, peraltro iscritto dal 1963 al servizio Contributi Agricoli Unificati, era persona che dedicava “abitualmente la propria attività manuale alla lavorazione della terra.

Ciò posto è ora rilevante porre questa constatazione che risulta veramente pacifica in atti atteso che la stessa Cassa mai ha dubitato che Rossi, nel momento in cui stipulò la compravendita, fosse in possesso dei requisiti di legge per contrattare con la  Cassa stessa, in rapporto con quell’elemento che, secondo l’appellante, sarebbe di decisivo supporto alla propria tesi e cioè con l’appunto del Comando Carabinieri – Tutela Norme Comunitarie e Agroalimentari redatto nel gennaio 1996.

Il contenuto di questo scritto è il seguente. “Sul conto di Rossi Paolo…risulterebbe: - esercitare attualmente l’attività di coltivatore diretto – avere svolto: a) dal 1975 al 1980 l’attività di impresario musicale in società con altre persone; b) dal 1981 al 1986 l’attività di impresario musicale in società con la propria moglie; c) la 1987 al 1992, periodicamente, in proprio, l’attività di intrattenimento musicale…”.

Al di là di ogni considerazione circa la valenza da assegnare al modo condizionale con cui è stato coniugato il verbo relativo ai risultati dell’accertamento (veramente arduo apparirebbe invero individuare il reale oggetto della cautela espressa dai militari con quella nota di dubbio insita nella locuzione verbale “risulterebbe), ritiene la Corte di particolare rilevanza la seguente considerazione. Secondo i Carabinieri, Rossi svolgeva attività di impresario musicale in forma societaria fin dal 1975. Si è visto però che, nel 1977, l’Ispettorato Agrario di Modena “certificò” che Rossi era persona che svolgeva “abitualmente” l’attività manuale di coltivazione della terra e questa circostanza, come si è detto, è stata convalidata dalla stessa Cassa che non ha mai dubitato che la sua controparte possedesse al momento del contratto, i requisiti per poter validamente acquistare il fondo con i benefici previsti per quella categoria di contratti. Il combinarsi dei due elementi non può che portare (ove comunque si voglia confermare una qualche attendibilità agli accertamenti dei Carabinieri) alla conclusione che, evidentemente, l’esercizio, da parte di Rossi, di un’attività commerciale precisamente consistente nell’attività di musicante non fu di ostacolo a che l’Ispettorato Agrario e cioè l’organo cui era espressamente demandato, in virtù delle sue competenze specialistiche, l’accertamento in questione potesse certificare che quegli si dedicava abitualmente alla coltivazione dei campi. In altre parole, occorre concludere che l’attività musicale di Rossi non impediva a questi di svolgere con i requisiti di continuità ( e quindi di “abitualità”) l’attività di coltivatore diretto. Risulta per tale via confermata la stessa prospettazione versata in causa dalla curatela oggi appellata secondo la quale l’attività di impresario musicale di Rossi veniva svolta con impiego limitato e non sottraendo alle necessità colturali del fondo.

Se così è, come la Corte ritiene di dover affermare sulla base della certificazione dell’Autorità Agricola, allora non si vede in cosa possa consistere l’inadempimento che la Cassa appellante ha inteso poi addebitare a Rossi. Non certamente l’inizio di un’attività commerciale nel campo musicale, atteso che questa attività era già in essere da prima del contratto e, lo si ripete, non fu reputata di ostacolo alla stipulazione dello stesso. Ma neppure può fondatamente prospettarsi un’intensificazione dell’attività predetta che possa avere alterato il rapporto – in termini quantitativi o qualitativi – tra la stessa e l’attività di coltivatore diretto di Rossi tanto da potere condurre all’affermazione che quegli, in anni successivi alla stipulazione del contratto, ebbe ad abbandonare la coltivazione del fondo. Infatti, non solo di questa intensificazione non v’è traccia in atti ma risulta anche, proprio dall’appunto dei Carabinieri, che l’attività di impresario musicale da parte di Rossi, col passare degli anni, andò scemando di importanza quantomeno in termini di complessità organizzativa, se è vero che, dapprima in società con altre persone, Rossi si trovò, successivamente, associato con la sola moglie e, infine, intrattenitore musicale in proprio e solo in via saltuaria.

Nella prospettiva che si è così segnalata, appare poi alla Corte di tutta evidenza come nessun rilievo possa essere attribuito alla sentenza dichiarativa del fallimento. Al riguardo è certamente vero il rilievo espresso nella sentenza di primo grado secondo cui la dichiarazione di fallimento di Rossi, pronunciata ex art. 147 legge fallimentare, non è immediatamente significativa della qualità di imprenditore commerciale dello stesso ma solo della sua qualità di socio illimitatamente responsabile della società dichiarata fallita. La dichiarazione di fallimento di Rossi, dunque, prova questa sola circostanza relativa la rapporto societario che, lo si riconosce, al più può essere ritenuta indiziante, su un piano di mero fatto, di un’attività svolta dallo stesso Rossi all’interno della compagine sociale che partecipi della natura dell’oggetto (commerciale in quanto teso alla fornitura si servizi) perseguito da quest’ultima.

Questa constatazione, però, nulla aggiunge a quanto si è più sopra accertato e cioè che – circostanza non contestata dallo stesso fallimento – Rossi fin dal 1975 svolgeva attività musicale dapprima nell’ambito di una società e poi in proprio. Si è comunque già osservato che questa attività non è stata ostativa a che lo stesso potesse considerarsi soggetto dedito ”abitualmente” all’attività coltivatrice per cui deve riconoscersi che contro questa nessuna valenza decisamente destabilizzante può avere, di per sé stessa e per le ragioni appena espresse, la dichiarazione di fallimento la cui valenza è sta invece enfatizzata dall’appellante.

Escluso quindi che la Cassa odierna abbia versato in causa prove idonee a dimostrare l’esistenza di un preciso inadempimento, da parte di Rossi, degli obblighi dallo stesso assunti per effetto della clausola n. 8 del contratto di compravendita ( di talché non torna comunque utile tornare sulle deduzioni istruttorie formulate dalla curatela appellata che, sulla compatibilità tra attività musicale di Rossi e coltivazione del fondo, ha insistito sull’ammissione delle stesse pur a fronte dell’ordinanza collegiale dichiarativa dell’inammissibilità della prova ex art. 354 cod. proc. civ.), deve confermarsi la decisione del primo giudice nella parte in cui ha escluso si sia verificata la risoluzione di diritto del contratto nel quale, pertanto, il curatore fallimentare aveva ed ha diritto di subentrare ai sensi dell’art. 73 legge fallimentare.

Il secondo motivo di appello si enuclea nel passaggio dell’atto del gravame (pag. 18) in cui viene rimproverato al Tribunale di Mantova di avere trascurato di considerare come fosse comunque impossibile, per il fallimento, subentrare “nel contratto di compravendita e nella conduzione del fondo” e tanto sulla base della legislazione in materia che il giudice di primo grado neppure avrebbe esaminato. Anche per questo (oltre per le ragioni che si sono però già confutate), si rivelerebbe dunque erroneo, secondo l’appellante, il capo della sentenza che ha ammesso il Fallimento a pagare anticipatamente il prezzo ancora dovuto.

La doglianza appare alla Corte esposta in termini assai criptici, ai limiti dell’inammissibilità. Essa però risulta in ogni caso infondata, non ravvisandosi nella specie ostacoli a che il Fallimento possa subentrare, ai sensi dell’art. 73 legge fallimentare, nel contratto di compravendita con patto di riservato dominio a che lo stesso potesse avvalersi della clausola contrattuale n. 5 relativa all’anticipato pagamento del prezzo.

Escluso, per le ragioni che si sono a lungo discusse più sopra, che si sia verificata la circostanza al cui venire in essere era ricollegata, a termini contrattuali, la risoluzione di diritto del contratto stesso, non può dubitarsi della possibilità per il fallimento del compratore di subentrare nel rapporto negoziale stante il chiaro disposto dell’art. 73 legge fallimentare, né questa possibilità può essere esclusa per la particolare natura del bene oggetto del contratto.

Deve escludersi infatti che i fondi alienati dalla Cassa per la formazione della proprietà contadina non possano essere oggetto di esecuzione forzata sia nelle forme individuali che nelle forme concorsuali, atteso che nessuna norma li sottrae a tale eventualità. Peraltro, lo stesso art. 7 del contratto, nel prevedere la risoluzione di diritto del contratto stesso al verificarsi di determinate circostanze contempla il caso dell’alienazione o della cessazione volontaria della coltivazione del fondo, concetto questo cui è estranea l’eventuale vendita coattiva del bene (cfr. Cassazione civile sez. I, 21 luglio 1992, n. 8803). L’apprensione coattiva del fondo da parte della procedura fallimentare (che ne abbia pagato l’intero prezzo), pertanto, non appare preclusa dal vincolo di inalienabilità e di destinazione alla coltivazione personale da parte dell’acquirente imposto dalla norma contrattuale.

D’altra parte, con riferimento alla fattispecie, deve ritenersi che, all’atto della dichiarazione di fallimento, più non esistesse il suddetto vincolo di destinazione, essendo ormai decorso il termine decennale contemplato nell’art. 8 delle clausole contrattuali. Parte appellante ha sostenuto che detto termine dovesse farsi decorrere dalla data del trasferimento della proprietà del fondo che, giusta le disposizioni in tema di vendita con patto di riservato dominio, avrebbe dovuto avvenire con l’integrale pagamento del prezzo, con la conseguenza che, non essendo stato ancora questo pagato, il termine il termine decennale nella specie non avrebbe ancora iniziato a decorrere. La tesi della Cassa appare però alla Corte arbitraria, non essendovi ragioni per interpretare il termine “acquisto” utilizzato nella clausola qui in esame nel senso di “effettivo acquisto della proprietà” piuttosto che nel senso di “atto di acquisto con patto di riservato dominio”. Convincono di questa affermazione la circostanza che il compratore è senz’altro e sempre qualificato come “parte acquirente” nel corpo del contratto e la constatazione che l’obbligo di coltivazione e di miglioramento del fondo è immediatamente operante dal momento dell’immissione nel possesso del fondo stesso che coincide con la data del rogito di modo che, così computando, il periodo decennale di coltivazione personale viene ad essere vincolo personale di durata tutto sommato ragionevole mentre laddove si calcolasse il dies a quo dalla data effettiva di acquisto della proprietà e cioè dal giorno del pagamento della trentesima rata annuale prevista dal contratto, il vincolo stesso assumerebbe proporzioni veramente eccessive e irragionevoli.

Né, in contrario, si ritiene decisivo sottolineare che, nella clausola n. 5 (relativa alla possibilità dio pagare anticipatamente il prezzo), si prevede un termine decennale calcolato “dalla data odierna” in tal modo evidenziando la differenziazione, in tesi voluta dai contraenti, tra tale momento e quello decisivo dell’“acquisto” cui si fa invece riferimento nel successivo art. 8. La rilevanza del segnalato dato letterale, infatti, si infrange, a giudizio della Corte, a fronte di questa osservazione. Lo stesso art. 8 del contratto prevede che l’alienazione o la cessazione, volontarie, della coltivazione del fondo entro il decennio dall’acquisto comporta sia la risoluzione del contratto sia la decadenza dai benefici fiscali, “ come previsto dal d.l. 24 febbraio 1948, n. 114, dalla legge 6 agosto 1954,n. 694 e legge 26 maggio 1965, n.590”. Dunque lo stesso fatto (alienazione o cessazione dalla coltivazione) è visto come causa idonea a due effetti, l’uno (la risoluzione contrattuale) previsto dalle parti, l’altro (la perdita dei benefici fiscali) direttamente contemplato dalla legge. La ricognizione delle fonti normative appena citate, però, rende chiaro che, nel sistema legislativo richiamato nel contratto, la decadenza dai benefici fiscali è connessa alla vendita o alla cessazione della coltivazione del fondo realizzatesi prima di un termine, decennale, che decorre dalla data di stipulazione dell’atto). Pertanto, occorre convenire che, derivando, come si esprime l’art. 8 del contratto, la risoluzione di quest’ultimo e la decadenza dai benefici fiscali da una sola circostanzia, i lineamenti di quest’ultima che sono dedotti nella clausola contrattuale non possono essere che gli stessi che si trovano definiti nella legislazione fiscale: se così non fosse ( se cioè il dies a quo di decorrenza del vincolo rilevante ai fini della risoluzione non fosse lo stesso di quello rilevante ai fini fiscali) si avrebbe la conseguenza, non prevista però come vera dai contraenti, che alla risoluzione del contratto potrebbe anche non verificarsi la decadenza dei benefici a suo tempo goduti dall’acquirente, ad esempio, in tema di tassazione a registro dell’atto di acquisto.

Per queste ragioni, dunque, ritiene la Corte che il contratto di cui si discute va interpretato, nella clausola controversa, nel senso che l’obbligo, per l’acquirente, di coltivare direttamente il fondo persista per la durata di dieci anni dalla stipulazione del contratto di acquisto sottoposto al patto di riservato dominio e che, conseguentemente, più tale vincolo non esistesse allorché intervenne il fallimento. Pertanto nessuna ragione, relativa alla specifica destinazione del bene, più non osterebbe – anche qualora si volesse ritenere quel vincolo di destinazione operante anche a fronte dell’apprensione coatta del bene da parte di una procedura concorsuale – a che il Fallimento di Bergamo possa subentrare nel contratto di vendita con riserva della proprietà stipulato dal fallito.

Di nessun rilievo preclusivo al subingresso della procedura nel rapporto negoziale è infine il vincolo trentennale di indivisibilità del fondo stabilito sempre nella clausola n. 8 sulla quale ha a lungo insistito (senza peraltro spiegare le ragione) parte appellante. Detto vincolo, come dimostra la stessa entità della durata, si muove su un piano del tutto diverso da quello dell’alienabilità del fondo (in tanto può imporsi la non frazionabilità in quanto sia possibile la non alienazione del bene) e richiede solamente che il fondo stesso, se alienato, lo sia nella sua intierezza, circostanza, questa, che ben può realizzarsi anche nell’ambito di una vendita disposta dal fallimento.

Confutati quindi gli argomenti addotti dalla cassa al fine di contestare il diritto della curatela di subingredire nel rapporto negoziale, resta da osservare che, ovviamente, l’apprensione del fondo da parte della procedura concorsuale resta subordinata all’acquisto della piena proprietà dello stesso e cioè all’integrale versamento del prezzo e, in questa prospettiva, il Fallimento ha infatti chiesto di potere versare in via anticipata le rate ancora dovute avvalendosi del disposto contrattuale di cui alla clausola n. 5 che consente tale possibilità trascorso un decennio dalla stipulazione del rogito. Non essendosi verificata alcuna risoluzione del contratto per le ragioni già esposte ed essendo subentrata la procedura nei diritto e nelle facoltà scaturenti dal contratto che già furono di Rossi, la domanda appare alla Corte del tutto infondata e quindi deve reputarsi corretta ed immune da censure la decisione del Tribunale che detta domanda ha accolto disponendo per gli accertamenti necessari alla liquidazione del quantum ancora dovuto.

Anche sotto il profilo da ultimo esaminato, pertanto, l’appello proposto contro la sentenza di primo grado dalla Cassa per la formazione della proprietà contadina si rivela infondato. Esso pertanto deve essere rigettato, con integrale conferma della sentenza gravata.

La soccombenza della Cassa appellante comporta che la stessa debba essere condannata a rifondere alla curatela appellata le spese del grado. Esse, in relazione all’attività defensionale effettivamente espletata quale risulta dal fascicolo di parte e dai verbali di causa, si liquidano in complessive £ 6.205.000 (di cui £ 1.350.000 per diritti e £ 4.000.000 per onorari).

P.Q.M

La Corte, definitivamente decidendo,

rigetta l’appello proposto da CASSA PER LA FORMAZIONE DELLA PROPRIETA’ CONTADINA incorporata nell’I.S.M.E.A. avverso la sentenza n. 301/00 del Tribunale  di Mantova in data 4 febbraio- 17 aprile 2000;

condanna al Cassa appellante, in persona del legale rappresentante, a rifondere alla curatela dei Fallimenti della società Paolo Rossi & C. S.n.c. nonché dei soci Paolo Rossi e Carlini Fernanda le spese del grado liquidate in £ 6.205.000.

Così deciso in Brescia, 21 novembre 2001.